In my mind and in my car
We can’t rewind we’ve gone too far
Pictures came and broke your heart
Put the blame on VCR
You are a radio star
You are a radio star
Video killed the radio star, The Buggles
English Garden album, 1979
Lo scorso 1 gennaio, l’euro ha spento le sue prima venticinque candeline. Era infatti il primo giorno del 1999 quando la moneta unica europea vedeva la luce. Inizialmente venne utilizzata solamente per scopi contabili istituzionali, mentre dal 2002 l’euro si è materializzato anche come mezzo di scambio retail, tramite l’emissione di banconote e monete che vengono oggi utilizzate in 20 paesi (l’ultimo dei quali, la Croazia, ha aderito un anno fa) e da oltre 345 milioni di persone. Se ai tempi, per Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca Centrale Europea, l’euro rappresentava “una dichiarazione dell’esistenza di un’Europa Unita”, e in una lettera di inizio di quest’anno i vertici dell’Unione Europea ne decantavano le molte virtù scrivendo “l’euro è diventato una parte indispensabile della nostra vita quotidiana, regalandoci semplicità, stabilità e sovranità”, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz nel suo libro “The Price of Inequality” non utilizza mezzi termini nell’affermare che “il problema dell’Europa è l’euro”. Secondo un sondaggio condotto dalla Commissione Europea nel 2022 (Standard Eurobarometer 96), il 53% della popolazione che vive nei paesi dell’area euro ritiene che l’introduzione, oltre vent’anni fa, della moneta comune abbia avuto un impatto positivo sull’economia del proprio paese. Tuttavia, come mostra il secondo grafico, un terzo si oppone a questa percezione (di cui il 12% in modo “molto negativo”) mentre il 9% pensa che l’introduzione della moneta non sia stata né positiva né negativa.
Conflitto in Medio Oriente, guerra in Ucraina e alta tensione su più fronti dal punto di vista geopolitico (temi di cui abbiamo parlato a lungo nella precedente Side Views) non sono di certo la cornice ideale per i festeggiamenti, ma questa ricorrenza ci offre lo spunto per tirare le somme di quanto avvenuto in questo quarto di secolo e valutare come l’economia europea si sia comportata sotto un punto vista macroeconomico dal momento dell’adozione della moneta unica, entrando poi nello specifico della situazione italiana.
Uno sguardo all’Europa
“Se un paese va male, incolpa il paese; se molti paesi stanno andando male, incolpa il sistema”. Così scrive Stiglitz nel suo libro “The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe” aggiungendo che l’euro è un sistema quasi certamente destinato a fallire, che ha eliminato i principali meccanismi di aggiustamento economici dei singoli governi (tassi di interesse e di cambio) e che invece di creare nuove istituzioni per aiutare i paesi ha imposto ulteriori restrizioni – spesso basate su teorie economiche e politiche screditate – sul deficit, sul debito e persino sulle politiche strutturali. Sempre secondo il premio Nobel, “l’euro avrebbe dovuto portare prosperità, avrebbe dovuto rafforzare la solidarietà e fatto avanzare l’obiettivo dell’integrazione europea. In realtà, ha fatto esattamente l’opposto, rallentando la crescita e seminando discordia”.
I grafici che presentiamo di seguito sembrerebbero portare evidenze a supporto di quanto affermato dall’economista americano. Anzitutto, concentriamo le nostre analisi sulla crescita economica: il tasso di crescita reale su base annua negli ultimi 2 decenni tende allo 0% per l’area euro.
A fine 2022, il PIL dell’Eurozona rappresenta circa il 55% di quello americano, il livello più basso mai registrato dall’ormai lontano 1985, segnale, tra le altre cose, di un peso sempre minore dell’area euro nello scacchiere economico globale.
Il grafico riportato qui sotto mostra invece la crescita reale dell’Eurozona in un confronto con gli Stati Uniti. La cosiddetta locomotiva europea – la Germania – in realtà è in ritardo rispetto allo stato americano dell’Alabama (AL) e al Texas (TX) in termini di crescita reale pro capite dal 2007, mentre l’Italia è allo stesso livello della Louisiana (LA)*.
A ulteriore dimostrazione di quanto teorizzato da Stiglitz, ogniqualvolta l’economia europea ha subito uno shock negli ultimi due decenni, l’impossibilità di adeguare il cambio valutario e i tassi di interesse ha man mano fatto perdere terreno in termini di crescita potenziale ai paesi dell’Eurozona. Come si nota dal grafico che segue, alla fine del 2011, il PIL reale (aggiustato per l’inflazione) si attestava -10% al di sotto del trend pre crisi finanziaria del 2008, mentre durante il quarto trimestre del 2023 la crescita economica attuale risultava del 4% inferiore alla tendenza sperimentata dal 2015-2019.
Focus sull’economia italiana
Se la situazione aggregata a livello europeo sembra non essere particolarmente brillante, come si è comportata l’economia italiana?
Anzitutto, con l’impossibilità di adeguare ai fondamentali (i.e. inflazione) il cambio, quest’ultimo tende a rivalutarsi in termini effettivi. Il grafico riportato qui sotto mostra come il tasso di cambio effettivo reale italiano sia in costante discesa dal 2008, portando i prodotti e, in generale, l’economia del “Bel Paese” a essere sempre meno competitivi rispetto ai partner commerciali.
Come conseguenza di quanto sopra, infatti, i beni esteri diventano più convenienti dal punto di vista economico, con effetti depressivi nei confronti della bilancia commerciale: la differenza tra il valore monetario delle esportazioni e delle importazioni, prima sostanzialmente in pari, assume infatti una traiettoria via via discendente con ripercussioni sulla produzione industriale che dal 2009 è praticamente invariata (secondo grafico sotto).
Il tasso di cambio effettivo (TCE) nominale è una misura del valore esterno della moneta di un paese rispetto alle monete dei suoi principali partner commerciali, mentre il TCE reale – ottenuto deflazionando il tasso nominale mediante appropriati indici dei prezzi e dei costi – rappresenta l’indicatore di competitività internazionale di prezzo e di costo più comunemente utilizzato.
A completare il cerchio, una produzione industriale (che pesa circa il 25% del PIL italiano) stagnante ha dei contraccolpi su diversi fronti, tra cui 1) sulla produttività totale dei fattori (o Total Factor Productivity) che è aumentata di 2.5 volte dal 1960 al 1998, ma che dal 1999 è rimasta praticamente invariata e 2) il mercato del lavoro fatica ad accelerare e la poca dinamicità porta le paghe reali a viaggiare in territorio negativo (erodendo il potere d’acquisto delle famiglie italiane) come mostrato dalla linea viola del secondo grafico e dal terzo grafico che mostra come i consumi collettivi in Italia non si siano praticamente mossi da dopo la crisi del 2008**.
La produttività totale dei fattori (PTF) riflette l’efficienza complessiva con cui gli input primari, lavoro e capitale, sono utilizzati nel processo di produzione. La crescita della produttività del lavoro indica un livello più elevato di output per ogni ora lavorata
Abbiamo appena fatto luce sulle dinamiche che riguardano due delle componenti che rientrano nella definizione di PIL (i.e. esportazioni nette e i consumi). Per completare la nostra analisi sulla crescita economica italiana dall’entrata nell’euro, resta da approfondire la performance degli investimenti pubblici. Utilizzando i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), si noti come, dopo aver toccato il picco nel 2009, quest’ultimi siano calati fino al 2018 per poi tornare a salire senza mai però tornare sui livelli record a differenza delle economie dei 2 principali partner europei, Germania e Francia**.
Mettendo perciò insieme tutti i pezzi di questo puzzle abbiamo una visione su quello che avrebbe potuto essere e che invece purtroppo non è stato. Dal 1950, l’economia italiana ha viaggiato spedita dal punto A al punto B (grafico a destra). Da B avrebbe dovuto proseguire fino a C in base alla tendenza vista durante i 57 anni dal 1950 al 2007. La realtà ci dice che siamo attualmente a D, circa 400 miliardi sotto la traiettoria**.
Guardando ai prossimi 25 anni
Tramite questa breve analisi non vogliamo avere la presunzione di circoscrivere la valutazione di un passaggio rivoluzionario come l’introduzione della moneta unica alla sola variabile della crescita economica: restituirebbe una visione parziale e incompleta della situazione. Livelli di occupazione, povertà, trend demografici, politiche fiscali e industriali sono solo alcune delle lenti aggiuntive da indossare per farsi un’idea a tutto tondo del cambio di paradigma avvenuto un quarto di secolo fa.
Ma volendo restare sulla crescita e proiettando lo sguarda verso il futuro, appare evidente come sia necessario uno sforzo a livello aggregato per restare competitivi a livello internazionale. Le vicende geopolitiche e la riorganizzazione delle catene di fornitura globali hanno messo a dura prova la tenuta dell’economia europea, così come le innovazioni che ogni giorno vengono annunciate difficilmente vedono l’Europa come la propria culla. Solo a titolo di esempio nel 2023 in Europa sono stati investiti USD 1.7bn in iniziative legate all’Intelligenza Artificiale generativa, mentre negli USA il totale tocca i 23bn (dati McKinsey).
La prossima fase dell’euro sembra indirizzata sempre di più verso il digitale: dopo due anni di ricerche e approfondimenti sul tema, dalla Banca Centrale Europea arrivano dichiarazioni che fanno presupporre ad una imminente fase di “distribuzione”, in cui euro digitali saranno presto a disposizione di aziende e cittadini (tramite intermediari supervisionati come le banche) per le loro attività quotidiane. Citando la comunicazione ufficiale della BCE:
“Il progetto prevede che l’euro digitale sia una forma digitale di contante che potrebbe essere utilizzata per tutti i pagamenti digitali in tutta l’area dell’euro. Sarebbe ampiamente accessibile, gratuito per l’uso di base e disponibile sia online che offline. Offrirebbe il massimo livello di privacy e consentirebbe agli utenti di regolare istantaneamente i pagamenti in moneta di banca centrale. Potrebbe essere utilizzato da persona a persona, presso il punto vendita, nel commercio elettronico e nelle transazioni governative. Nessuno strumento di pagamento digitale offre tutte queste caratteristiche. L’euro digitale colmerebbe questa lacuna.”
Una grande opportunità da cogliere, il prossimo step del ben noto Surveillance capitalism oppure ancora una volta, l’ennesima occasione persa su cui recriminare?
Approfondimento a cura di Nicola Lampis.
Lugano, 4 febbraio 2024
(Errata Corrige) Fonti:
*grafici elaborati dal profilo Twitter di Robin Brooks
**grafici estrapolati dal blog Goofynomics