There is a time when we all fail
Some people take it pretty well
Some take it all out on themselves
Some they just take it out on friends
Oh, everybody plays the game
And if you don’t you’re called insane
I will try anything once
Heart in a Cage
The Strokes, 2006
L’economia è una scienza umana non una disciplina scientifica vera e propria. Sul fatto che due molecole di idrogeno ed una di ossigeno formano una molecola di acqua, non c’è molto altro da discutere; per quanto concerne i comportamenti economici, non è possibile invece applicare un simile rigore nella definizione dei risultati attesi, possiamo al massimo usare la statistica per costruire un intervallo di confidenza sulle nostre previsioni ma mai avere la certezza assiomatica della soluzione, per il semplice motivo che i comportamenti economici possono certo essere predicibili, ma sempre a meno di una deviazione standard, che è una grande fregatura.
I mercati finanziari rappresentano le interazioni di milioni di umani che riversano nelle loro scelte di acquisto e di vendita tutta la loro soggettività: ognuno infatti connota le proprie decisioni di investimento con le caratteristiche psicologiche che lo caratterizzano, di ottimismo o pessimismo, di orientamento al lungo o al corto termine, di maggior o minore propensione al rischio e cosi via: una delle ragioni del fascino dei mercati è proprio questa, l’inafferrabilità, questo elemento che non ti fa mai sentire in controllo, che ti spinge sempre ad andare oltre per provare ad avere la meglio… per cercare la conquista… ma poi c’è sempre di mezzo la deviazione standard e il controllo totale non si raggiunge mai.
Quanto sia importante la componente umana e dunque psicologica, ce lo ricordano le frasi celebri di alcuni grandi investitori:
“In investing, what is comfortable is rarely profitable.”
– Robert Arnott
“Investing isn’t about beating others at their game. It’s about controlling yourself at your own game.”
–Jason Zweig
“Most people get interested in stocks when everyone else is. The time to get interested is when no one else is. You can’t buy what is popular and do well.”
– Warren Buffett
“The investor’s chief problem – and even his worst enemy – is likely to be himself.”
– Benjamin Graham
Ai sensi del ragionamento odierno quello che ci interessa analizzare sono gli eventi “a tre deviazioni standard”, il cosiddetto “tail risk”, il rischio “coda della distribuzione”, l’evento che non ti aspetti, quello che non ti permette di essere mai in controllo; la caduta repentina dei mercati di febbraio/marzo insomma. A questo proposito vale la pena ricordare che il 40% delle perdite sostenute da portafogli di attività finanziarie dal 1928 al 2019 (studio di Chris Cole di Artemis) ricadono nella “coda della distribuzione”, eventi dunque molto poco probabili ma che quando succedono fanno davvero male.
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Il legame tra psicologia e deviazione standard nella gestione dei patrimoni è presto spiegato: la soggettività di certe nostre inclinazioni che magari si ripetono in modo cronico, puo’ creare terreno fertile perché col tempo si vadano a manifestare dei rischi estremi, che possono creare danni importanti al patrimonio stesso.
In economia e parimenti in finanza, uno dei rischi “comportamentali” da tenere in maggior considerazione è la naturale attitudine a pensare al corto termine, lasciando da parte sia la costruzione della propria visione, sia le analisi su dove andremo a finire, quello che gli anglosassoni chiamano “the end game”.
La focalizzazione su temi di corto termine a scapito degli obiettivi di lungo è ancora piu’ rilevante su temi di interesse pubblico, dal momento che scelte sbagliate possono ricadere su strati molto ampi della popolazione.
Ad esempio: a più di dieci anni di distanza c’è una forte evidenza che la politica monetaria condotta durante la Grande Crisi Finanziaria del 2008, sia stata attuata con un livello molto modesto di riflessione su dove saremmo potuti andati a finire: la maggior parte delle politiche non convenzionali che sono state concepite durante la crisi di Lehman, ha avuto come unico fine il sostegno immediato dei mercati finanziari e di quello immobiliare. Sotto la pressione dell’urgenza di fissare questa priorità assoluta, si è totalmente tralasciato di considerare possibili elementi di destabilizzazione di lungo termine come (per citare i nostri preferiti) l’azzardo morale e una deviante politica degli incentivi a favore del management.
A dodici anni di distanza possiamo senza dubbio affermare che i tassi d’interesse così bassi così a lungo, siano stati un forte incentivo a caricare il sistema di ulteriori debiti, e che il riacquisto di debito da parte delle banche centrali abbia acuito la compiacenza verso questo genere di comportamenti. Sappiamo che un livello sempre più alto di indebitamento, rappresenta un forte freno alla crescita e che non c’è nessuna crisi di debito che si possa risolvere aggiungendo altro debito. In sintesi le sfide di corto termine della Grande Crisi Finanziaria sono evolute in problemi di ancora maggior dimensione nel medio termine.
La psicologia ha giocato un ruolo fondamentale anche nella gestione dell’emergenza Covid; si pensi prima alla Cina che ha cercato di ignorare il problema, sperando che se ne andasse da solo, piuttosto che ai governi che sono stati fortissimamente concentrati nel dare una risposta rapida all’emergenza, derubricando il fatto che il lock down potesse far aumentare i rischi di medio termine di distruzione permanente di molte attività economiche.
In entrambi i casi citati, è difficile trovare evidenza di attente considerazioni sulle conseguenze di lungo termine delle proprie scelte di breve.
In aggregato questi due esempi sono interessanti per ricordarci quanto sia prevalente la prospettiva di corto termine, a scapito di valutazioni sull’end game: è opinione comune che le emergenze richiedano un approccio diverso, unico, “a mali estremi, estremi rimedi”, con delle regole a sè, dove è più importante la rapidità della risposta che la risposta stessa.
Non è tuttavia sempre così: i militari, che di emergenze senza dubbio se ne intendono, guardano le cose da una prospettiva differente: non ritengono in sintesi che la velocità della risposta sia la dimensione prevalente, pensano che sia altrettanto importante essere ponderati, perché se trovi la risposta corretta al primo tentativo, ottieni un grosso risparmio di energie e di tempo in corso d’opera.
Tutte le valutazioni appena esposte, girano attorno al tema del rischio, possiamo prendere decisioni rapide e a cuor leggero se le conseguenze di medio termine delle nostre azioni hanno impatti marginali o trascurabili ma che succede se i rischi di lungo termine sono molto più severi? Trasliamo le riflessioni sul nostro patrimonio: siamo sicuri che possiamo fregarcene delle conseguenze di lungo termine se i rischi possibili sono danni permanenti al nostro capitale di partenza o alla nostra pensione?
Come sempre su temi economici, ognuno ha una propria prospettiva, nessuno ha torto o ragione ex ante, il nostro punto di vista è che l’attenzione ai rischi estremi, quelli dunque a bassa probabilità ma ad alto potenziale di impatto, sia davvero l’unica cosa che conta.
La maggior parte degli investitori quando pensa al rischio, fa considerazioni di comparazione rispetto ad un benchmark, altri confrontano il proprio rischio con delle medie di lungo termine legate ad esempio agli indici di mercato. La maggior parte non si sogna nemmeno lontanamente di considerare il tail risk, quello a bassa probabilità ed alto impatto, che è l’unico che davvero conta per l’end game. Un eclatante esempio della leggerezza “emotiva” con cui si affrontano i rischi, lo ha proposta lo slogan di questi mesi di lock down:
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Quanto stia andando tutto bene ce lo ricordano i numeri: l’Italia sta avendo il peggior calo di PIL dagli anni della Seconda Guerra Mondiale, con una discesa almeno doppia rispetto al peggior anno della crisi finanziaria di Lehman.
Certo l’impostazione culturale dell’industria finanziaria in questi momenti davvero non aiuta: lancio una provocazione, anzi un appello ai banker che ci leggono: perché non passiamo dal mantra del “stay invested” al nuovo paradigma di “copriamo sempre i rischi estremi”? Se ci pensate é un vero win-win: i conti economici delle banche risulterebbero invariati ed i patrimoni dei clienti, molto piu’ protetti!
A fare da contraltare allo “stay invested” ci sono invece investitori di grande esperienza come Felix Zulauf, da 30 anni membro della round table del periodico finanziario Barron’s, che a causa degli alti livelli di debito del sistema, non investe nei mercati finanziari dal 2015…
Queste considerazioni sono particolarmente importanti in un momento come quello odierno dove l’azzardo morale gentilmente fornito dalle banche centrali (“accumula più rischio che puoi che se va male ci siamo noi”) sta spingendo molti investitori verso la rincorsa affannosa ad opportunità di corto termine per assicurarsi ritorni marginali: continuiamo a pensare che sia assolutamente essenziale restare consistenti con la propria strategia di lungo termine ed evitare eventi rischiosi ad alto impatto, con appropriate strategie di copertura.
Nessuno meglio di Charlie Munger, il socio di Warren Buffet, per fornire la chiosa finale sul tema:
The big money is not in the buying and selling. But in the waiting