“Entrammo in Istanbul con una cerimonia favolosa. Levarono alti i vessilli sugli alberi, e appesero più in basso le nostre bandiere, le immagini della Vergine Madre Maria, le croci capovolte, e le lasciarono trafiggere con i dardi dalla canaglia spavalda. Intanto, i cannoni scotevano cielo e terra.”
(Orhan Pamuk, Il castello bianco)
In questi giorni, protagonista indiscussa delle prime pagine dei giornali è stata la Turchia.
Ritorniamo per un attimo a fine marzo, quando la borsa di Istanbul ha avuto la maggiore caduta dal 2013 a seguito del quarto ricambio ai vertici della Banca Centrale voluto dal Presidente Erdogan contrario al rialzo dei tassi di interesse, che ha prodotto un crollo della lira turca pari al 15% (poi ridotto al 10%) nonché un calo verticale del valore delle azioni e delle obbligazioni. Insieme alla fiducia degli investitori internazionali, che avevano guardato con ottimismo al processo di stabilizzazione intrapreso e fatto confluire 15 miliardi di dollari in investimenti di portafoglio negli ultimi mesi, svaniscono anche le aspettative su una ritrovata autonomia della Banca centrale rispetto alle direttive di Erdogan che, nel suo discorso al Congresso del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), ha fatto un accorato appello tanto ai cittadini turchi perché investano valuta straniera e oro in vari strumenti finanziari per sostenere l’economia e la produzione, quanto agli investitori internazionali esortandoli ad avere fiducia nella forza e nel potenziale della Turchia.
Ed ecco che il 30 marzo il governo turco annuncia la ripresa del maxiprogetto (datato 2011 poi accantonato) per la realizzazione di un canale artificiale a Istanbul alternativo al Bosforo (Kanal Istanbul), paragonabile ai canali di Panama o Suez, al fine di decongestionare il traffico commerciale sugli stretti e facilitare l’accesso al Mar Nero.
Arriviamo così ad aprile, mese in cui abbiamo avuto in sequenza tre episodi solo apparentemente slegati tra loro: una retata che ha visto l’arresto da parte delle autorità turche di alcuni tra i più importanti ammiragli in pensione accusati di golpe, tra cui l’ideatore della dottrina del Mavi Vatan (Patria Blu) Cem Gurdeniz; il “sofa-gate” di Ankara ridotto a questione di sessismo dai giornali mainstream e la conseguente scomposta accusa di Mario Draghi nei confronti di Erdogan, definito come un “dittatore”.
Proviamo quindi ad esaminare questi fatti per rintracciare il fil rouge che li unisce.
Il 4 aprile scorso, 104 ammiragli a riposo firmano un comunicato in cui prendono posizione contro l’approvazione da parte di Ankara del progetto medesimo perché rimetterebbe in discussione quanto stabilito dalla Convenzione di Montreux del 1936. Kanal Istanbul (un canale lungo 45 km il cui costo si aggira sui 9 miliardi di dollari) è il più ambizioso di quelli che il presidente Erdogan definisce i suoi “progetti folli”. Nel loro comunicato, gli ammiragli critici hanno detto che è “preoccupante” mettere in discussione il trattato di Montreux, in quanto ritenuto un accordo che “protegge al meglio gli interessi turchi”.
Che cosa stabilisce Montreux?
La Convenzione di Montreux garantisce il libero passaggio attraverso lo stretto del Bosforo e dei Dardanelli di navi civili in tempi sia di pace che di guerra e concede alla Turchia di regolarne il traffico. Tuttavia, i passaggi delle navi da guerra attraverso lo stretto sono soggetti a restrizioni che variano a seconda che appartengano o meno a paesi con coste lungo il Mar Nero.
Erdogan ha dichiarato che a gennaio la Convenzione di Montreux si applicherà solo allo stretto del Bosforo e dei Dardanelli in termini di traffico marittimo, non al Canale Istanbul.
La realizzazione del Canale va quindi a ridefinire drasticamente un pilastro della geopolitica turca. La convenzione di Montreux è infatti il prodotto di un’iniziativa diplomatica congiunta dalla Turchia di Kemal Ataturk e dell’Unione Sovietica di Stalin e risponde a un’esigenza vitale dei russi: prevenire l’ingresso nel Mar Nero delle navi delle potenze marittime non litoranee (Inghilterra e Stati Uniti) così da impedire loro di colpire il cuore produttivo, culturale e demografico della Russia.
Per i firmatari del comunicato la conseguenza potrebbe essere una militarizzazione del Mar Nero che, in particolare, rischierebbe di diventare l’epicentro di uno scontro tra Stati Uniti e Russia.
L’idea che la Turchia esca da Montreux non piace per niente a Mosca. Viceversa, Washington appare molto interessata perché avviene in una fase di escalation delle tensioni con la Russia in Ucraina. Sebbene per Washington possa essere sufficiente controllare i russi al di qua degli stretti, le ultime mosse di Biden suggeriscono la volontà di spingersi oltre una politica di contenimento, magari per avere più forza nell’eventualità di future trattative con Mosca in Ucraina e non solo. La crescita della presenza Usa nel Mar Nero, minacciata in questi giorni in risposta all’escalation di tensioni nel Donbass, infatti, è solo un assaggio di ciò che può attendere la Russia con un cambiamento di assetti tra gli stretti.
Il punto importante, dunque, è che Erdogan con questa mossa manda un messaggio chiarissimo all’America: rinsaldare l’alleanza e smorzare le tensioni tra i due paesi dovute all’atteggiamento ondivago e alle mire espansionistiche turche nel Mediterraneo orientale, in particolare in Libia, e al conseguente desiderio di Washington di adottare un approccio punitivo.
Tale riavvicinamento tra Ankara e Washington, infatti, passa anche per la Libia e coinvolge l’Italia.
La Libia è divisa in due: da una parte la Tripolitania di fatto sotto il controllo turco e la Cirenaica che vede la presenza dei russi. Con il Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli si è schierata da tempo anche l’Italia, che ora si trova nella scomoda posizione di essere alleata dei ben più importanti turchi e di avere pesanti interessi a rischio nel paese, da quelli energetici rappresentati dalla presenza dell’Eni a quelli legati al controllo dell’immigrazione. Dopo aver inviato droni (la Turchia ha iniziato a fabbricarli autonomamente dal 2008 e sono i più letali in circolazione), armi, navi, mercenari e consiglieri militari, Ankara non ha alcuna intenzione di mollare la presa e andarsene da Tripoli ma, per consolidare la sua presenza, necessita del placet americano. Per ottenerlo, Erdogan sta giocando diverse carte: dalla capacità dimostrata nel trattare con la Russia in Cirenaica, alla richiesta avanzata nei confronti della Cina di rispettare gli uiguri, la minoranza etnica di fede musulmana e cultura turca che vive nello Xinjang. Soprattutto, è l’offerta di Kanal Istanbul a pesare maggiormente in tal senso, facendo capire agli Stati Uniti di poter fare di nuovo affidamento sulla Turchia.
Il controllo della Tripolitania (comprensivo del tratto di mare di competenza) rappresenta la possibilità di influire sul transito dei migranti e sulla sicurezza energetica dell’Europa (la Turchia ostacola la realizzazione della EastMed Gas Pipeline) ed è questo il messaggio di forza che Erdogan ha voluto lanciare al vertice con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen, in particolare a Berlino e Parigi (quest’ultima alleata dei russi in Cirenaica). Questo evento è, invece, balzato alle cronache per la sedia negata all’ex ministra della difesa tedesca e per le accuse di sessismo al presidente turco. Il problema della sedia, però, appare costruito su voluti fraintendimenti: chiunque abbia un’esperienza istituzionale sa che in tutto il mondo quando si tengono incontri bilaterali ci si siede in due e tutti gli altri stanno sui divani. Erdogan incontrava il presidente del Consiglio d’Europa, incidentalmente di genere maschile, e non il Presidente della Commissione, incidentalmente di genere femminile, e quindi l’unica sedia prevista è stata occupata come da protocollo da Charles Michel.
Dunque, non è lo sgarbo della sedia negata il movente delle parole con cui Mario Draghi ha tacciato di “dittatore” il presidente turco. Molto più pragmaticamente, Draghi, che sempre all’inizio di aprile ha visitato Tripoli, è consapevole che per ottenere un ruolo maggiore per l’Italia nel dossier libico a danno della Turchia deve avere il consenso degli Stati Uniti. Pertanto, la dura dichiarazione del premier italiano, che utilizza volutamente il linguaggio dei diritti umani tipico della retorica dell’amministrazione statunitense a guida democratica, punta a far capire a Washington che il suo alleato più importante nel Mediterraneo è l’Italia e questa non può paragonata ad un paese guidato da un dittatore. Quello di Draghi è quindi un segnale sia a Erdogan che a Biden.
In conclusione, la polemica tra Italia e Turchia è stato l’ultimo di una serie di eventi il cui fil rouge è in realtà il rapporto tra Ankara e Washington e sulla cui evoluzione potrebbe essere interessante sentire la risposta di Biden alla richiesta di un gruppo di 37 senatori, sia democratici che repubblicani, di riconoscere pienamente e formalmente il Genocidio armeno, in occasione della sua commemorazione che avverrà il 24 aprile.
Come suggerimento di lettura chiudiamo con un romanzo che è metafora del legame tra Oriente e Occidente, Il castello bianco, di Orhan Pamuk, Einaudi. Il romanzo si basa sul rapporto che intercorre fra il padrone turco ed il servo italiano, legati da un aspetto identico che, fin dall’inizio, scatenerà un legame fortissimo. I due, infatti, arriveranno a provare una reciproca curiosità l’uno per l’altro. La vicinanza fra i due crescerà a tal punto da permettersi d’identificare l’uno con l’altro, al punto di superare ogni differenza iniziale e trasformarsi l’uno nell’altro.