«Tutti i cittadini devono pregare cinque volte al giorno. Se durante l’ora della preghiera verrete sorpresi in altre attività, sarete bastonati. Tutti gli uomini devono portare la barba. La lunghezza prescritta è di almeno un palmo sotto il mento. Se non vi conformerete a questa disposizione, sarete bastonati. Tutti i ragazzi devono portare il turbante. Gli scolari delle scuole elementari porteranno il turbante nero, quelli delle scuole superiori bianco. Tutti gli studenti devono indossare abiti islamici. Le camicie devono essere abbottonate sino al collo. È proibito cantare. È proibito danzare. È proibito giocare a carte, giocare a scacchi, giocare d’azzardo e far volare gli aquiloni. È proibito scrivere libri, guardare film e dipingere. Se tenete in casa dei parrocchetti, sarete bastonati e i vostri uccelli verranno uccisi. Se rubate, vi sarà tagliata la mano al polso. Se tornate a rubare vi sarà tagliato il piede. Se non siete musulmani, non dovete praticare la vostra religione in luoghi dove potete essere visti da musulmani. Se disubbidite, sarete bastonati e imprigionati. Se verrete sorpresi a convertire un musulmano alla vostra fede sarete giustiziati.»
(K. Hosseini, Mille splendidi soli)
La ripresa dopo la pausa estiva è segnata dagli eventi che vedono i talebani ritornare al potere in Afghanistan a seguito del ritiro delle forze militari statunitensi. Con questo scritto proviamo ad analizzare il complesso scenario che si va delineando, consapevoli che una sintesi, per quanto accurata, è per sua natura lacunosa.
L’Afghanistan è da secoli un crocevia di civiltà: il suo territorio faceva parte dell’antica Via della Seta, un corridoio continentale che collegava gran parte del continente eurasiatico attraverso il flusso di merci, idee, religioni, innovazioni tecnologiche, lingue e stili estetici.
Durante il XIX secolo, l’Afghanistan divenne un conteso campo di battaglia geopolitico, in quello che è stato definito il Grande Gioco tra potenze, tra Gran Bretagna e Russia zarista. Londra voleva proteggere il fianco settentrionale del Raj britannico (l’impero anglo-indiano), mentre Mosca era interessata a garantire una via di accesso alle acque dell’Oceano Indiano. Questa incompatibilità di interessi alimentò gli intrighi diplomatici, l’ampio uso di spionaggio, operazioni segrete e forza militare (Cfr. Hopkirk, P., Il Grande Gioco, Adelphi, 2004.).
CHI SONO I TALEBANI?
I talebani, o “studenti” in lingua pashtun, sono emersi all’inizio degli anni ’90 nel nord del Pakistan in seguito al ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. Si ritiene che il movimento sia apparso per la prima volta nei seminari religiosi finanziati dall’Arabia Saudita che predicavano una forma intransigente di Islam sunnita. La promessa fatta dai talebani era di ripristinare la pace e la sicurezza e imporre la propria versione rigorosa della sharia una volta al potere. Dopo l’invasione Usa e la loro sconfitta in seguito agli attacchi dell’11 Settembre, i talebani si sono riorganizzati e, con il sostegno di attori regionali primo fra tutti il Pakistan, hanno ripreso la strategia di guerriglia contro le istituzioni sostenute dalla coalizione internazionale.
L’Afghanistan divenne ancora una volta un’arena per la grande competizione di potere al culmine della Guerra Fredda, quando l’Armata Rossa sovietica intervenne per proteggere un regime cliente debole e laico che era geopoliticamente allineato con Mosca. Tuttavia, nonostante la schiacciante superiorità militare, tecnologica ed economica dei sovietici, le caratteristiche geografiche e il feroce risentimento della popolazione locale si sono rivelati ostacoli considerevoli nella conduzione della guerra.
CHI SOSTIENE I TALEBANI?
Come riportato dall’ANSA, Zamir Kubalov, incaricato speciale per l’Afghanistan del presidente Putin, ha dichiarato che i talebani sono sostenuti da alcune fondazioni islamiche che sono principalmente nella regione del Golfo Persico. Per quanto riguarda le armi, nessuno ha fornito armi ai talebani negli ultimi anni solo perchè non ce n’era bisogno: mentre i talebani combattevano con le forze governative, hanno acquistato con successo armi dai magazzini dell’esercito e della polizia afghani.
In sintesi: il Governo americano si fa autorizzare dal Congresso enormi budget di spesa per la ventennale guerra in Afghanistan; i soldi vengono spesi alimentando il complesso militar-industriale americano; le armi giungono in Afghanistan e vengono date all’esercito governativo locale; l’esercito governativo le vende ai talebani che pagano con i soldi dei sauditi.
Il risultato disastroso dell’invasione è stato uno dei fattori chiave nella fine dell’URSS. Questo esempio storico illustra eloquentemente perché l’Afghanistan viene spesso definito “il cimitero degli imperi”.
Uno dei motivi per cui l’Afghanistan è stato storicamente così difficile da conquistare è dunque la sua geografia montuosa. Tali condizioni giocano un ruolo decisivo nello sviluppo del carattere nazionale di una società e qui le montagne hanno dato vita a comunità claniche, riluttanti ad accettare l’influenza o l’autorità di estranei.
Di tutto questo dovranno tener conto le potenze esterne desiderose di sfruttare le risorse dell’Afghanistan per i propri scopi. A questo proposito, la domanda che sta animando il dibattito a seguito del ritiro scomposto delle truppe statunitensi dal territorio afghano è se siamo di fronte ad una sconfitta degli Stati Uniti, in particolare di Biden, e ad una occasione per la Cina di avvantaggiarsi nella competizione globale.
Innanzitutto, occorre premettere che quanto successo in questi giorni non è una novità, per quanto la fuga da Kabul possa apparire disorganizzata e umiliante per Washington. La decisione da parte degli Stati Uniti risale ad almeno un anno e mezzo fa, quando a Doha gli americani si sono accordati con i taliban per ritirarsi praticamente senza condizioni. Vale la pena sottolineare che la maggioranza degli americani è favorevole al ritiro e non comprenderebbe il protrarsi dell’impegno in un contesto avvertito come inutile sul piano della competizione per la supremazia planetaria.
Le scene che tutti abbiamo visto alla televisione sono sicuramente di grande impatto emotivo e simbolico ma senza reali conseguenze strategiche: pur accelerando la presa di Kabul, cogliendo di sorpresa e mettendo in imbarazzo Washington, i talebani hanno tutto sommato rispettato gli impegni. La rapidità della loro azione è probabilmente da imputare al timore che gli americani potessero in qualche modo posticipare la loro partenza e metterli così di fronte al fatto compiuto.
Durante questi diciotto mesi, gli “studenti” hanno stipulato accordi con milizie, reparti dell’esercito regolare, capi tribali e autorità locali in ogni parte del paese, preparando la relativamente tranquilla presa del potere di questi giorni. Relativamente perché le resistenze ci sono, in particolare nella valle del Panjshir, abitata prevalentemente da tagiki, altra etnia iranica distinta dai pashtun, oltre al ritorno sulla scena dell’Isis nella sua ultima variante, l’Isis-K, a cui vanno imputati i recenti attentati a Kabul. Elementi di destabilizzazione che potrebbero precipitare il paese nel caos e costringere le potenze dell’area ad intervenire (Cfr. Fabbri, D., Petroni, F., Perché l’America abbandona l’Afghanistan all’oblio, in Limes).
LA VARIANTE K
ISIS-K è stata fondata nel 2015 da talebani pakistani dissidenti, è più piccola, più recente e abbraccia una versione più violenta dell’Islam rispetto ai talebani.
Come altri gruppi terroristici, l’ISIS-K ha preso di mira le forze statunitensi, i loro alleati e i civili. A differenza di altri gruppi, l’ISIS-K combatte apertamente con altre organizzazioni islamiche estremiste, come appunto i talebani.
Questo sembra essere il vero obiettivo di Washington: trascinare nel pantano afghano tutte le potenze dell’area.
Sicura che la partita con la Cina si giocherà nell’Indo-Pacifico, Washington vorrebbe costringere Pechino a impegnarsi nella stabilizzazione dell’Afghanistan, sottraendo energie al suo programma di sviluppo marittimo, e spera di mettere in crisi gli investimenti cinesi in Pakistan, lungo il corridoio delle nuove vie della seta che dal Xinjiang conduce al porto di Gwadar, qualora il caos afghano coinvolgesse Islamabad. Inoltre, conta di fiaccare le velleità neo-ottomane della Turchia, tra i principali mediatori tra americani e taliban nei colloqui in Qatar, dato che Ankara è interessata ad ampliare la sua influenza in Asia centrale: in Afghanistan vi sono delle minoranze turcofone che la possono proiettare poi verso gli uiguri in Cina.
Gli americani auspicano anche un coinvolgimento della Russia, preoccupata che l’integralismo islamico possa tracimare all’interno dei propri confini.
Una tale linea d’azione è tutt’altro che priva di senso per gli imperativi geostrategici statunitensi, in particolare tenendo conto che la discordia sarebbe strumentale per prevenire la minaccia più pericolosa alla sicurezza nazionale americana: l’emergere di una coalizione eurasiatica unificata.
IL RUOLO CRESCENTE DEL QATAR
Il Qatar sta cercando di diventare parte integrante della politica afghana sotto il dominio dei talebani, principalmente attraverso investimenti, assistenza finanziaria e partecipazione alla ricostruzione, con l’obiettivo di diventare nel tempo referente degli USA nell’area e spostare gli equilibri nel Golfo a suo favore. I talebani hanno bisogno di soldi per restare al potere. La Da Afghanistan Bank, la banca centrale del paese, aveva circa 9,5 miliardi di dollari in beni congelati dagli Stati Uniti, comprese le spedizioni di contanti, a cui i talebani non possono più accedere. Inoltre, organizzazioni internazionali come l’Unione Europea hanno tagliato gli aiuti finanziari all’Afghanistan, subordinandoli al rispetto dei diritti umani da parte dei talebani. In questa situazione, i talebani dipendono sempre più dagli aiuti finanziari del Qatar.
Tuttavia, alcuni critici della decisione del presidente Biden di ritirarsi dall’Afghanistan sostengono che ciò porterà ad un aumento dell’influenza sia economica che politica della Cina sul paese e in Asia Centrale (Cfr. Redazione, Afghanistan: quale futuro per le Nuove Vie della Seta? In www.sicurezzainternazionale.luiss.it ).
Durante il loro mandato come presidente dell’Afghanistan, sia Hamid Karzai che Ashraf Ghani erano ansiosi di ottenere che la Cina svolgesse un ruolo più importante nel loro paese, soprattutto attraverso gli investimenti e Pechino si è preparata a svolgere tale ruolo. Non ha mancato l’occasione, per esempio con un tweet del caporedattore del cinese Global Times, di rimarcare la pessima gestione del ritiro da parte di Washington , rappresentando gli USA come pessimi alleati in grado di voltare la faccia ai propri partner, messaggio diretto soprattutto a Taiwan perché comprenda che è più conveniente accettare una riunificazione consensuale anziché fidare dell’aiuto statunitense.
Questione importante evidenziata dai critici del ritiro è data dalle nuove opportunità che sembrano profilarsi per le aziende cinesi in termini di investimenti nei metalli delle terre rare, sempre più necessari per auto elettriche e pale eoliche. Investire nei metalli delle terre rare dell’Afghanistan può aumentare la quota di mercato della Cina e la sua capacità di leva nei confronti delle potenze occidentali e del Giappone. La questione delle terre rare, tuttavia, non è così semplice. Queste appartengono ad un gruppo di circa quindici elementi chimici con caratteristiche simili tra di loro e che sulla tavola periodica degli elementi occupano le caselle dei lantanidi. Praticamente impossibile da trovare isolati in natura, una volta estratti devono poi essere separati gli uni dagli altri con procedimenti chimici. Vengono poi trasformati ulteriormente e commercializzati sotto forma di ossidi. Il mercato delle terre rare è concentrato sui prodotti finali, sugli ossidi. L’80%-85% di questi ossidi sono prodotti da imprese cinesi, sia legalmente sia illegalmente, con grande impatto ecologico. Solo il 15% del totale è prodotto fuori dalla Cina, in particolare negli Stati Uniti e in Australia e Malesia.
A causa della crescente domanda di terre rare negli ultimi dieci anni, dovuta alla transizione ecologica, si stanno cercando nuovi giacimenti per avere un’offerta maggiore e più diversificata (ad es. si guarda alla Groenlandia e all’Africa). Come è noto non si tratta di elementi rari in natura. È però molto raro trovare giacimenti che si possano sfruttare con profitto. Sui procedimenti industriali che intervengono dopo l’estrazione, la Cina è ancora la dominatrice assoluta. Anche sviluppando una maggiore capacità di estrazione, poi i singoli paesi produttori dipendono di fatto da Pechino per la lavorazione. Tuttavia, per ovviare a questa situazione a marzo è stato dato l’annuncio di un accordo canadese-americano-europeo (in particolare tra l’azienda canadese NEO Perfomance Materials e la statunitense Energy Fuels, ma vi è anche l’azione autonoma della britannica Pensana Rare Earths) per la creazione di una supply chain transatlantica per le terre rare nel tentativo di costituire una catena completa alternativa. A ciò va aggiunto che i programmi verdi di Pechino impongono alla propria industria di essere più attenta che in passato ai temi ecologici. Tutto ciò, dovrebbe comportare un calo della produzione cinese e scalfirne il dominio a fronte di una crescita della domanda. Infine, in Afghanistan, fino a questo momento, l’estrazione non appare comunque profittevole. Mancano infatti tutta la rete infrastrutturale di supporto che consentirebbe l’esportazione e il trasporto nei porti del vicino Pakistan o dell’Iran e le tecnologie complesse che l’estrazione richiede (Sul tema cfr. Boscolo, M., La geopolitica delle terre rare e lo scontro commerciale con la Cina, in www.ilbolive.unipd.it/).
Un’altra importante ragione sollevata dai critici della dipartita afghana è che la possibile stabilità nel paese potrebbe aumentare l’attrattiva dell’Afghanistan come paese di transito per la Belt and Road Initiative (BRI) della Cina. L’integrazione dell’Afghanistan nella BRI migliorerebbe anche l’influenza della Cina sull’India attraverso i partner commerciali circostanti.
L’integrazione dell’Afghanistan, inoltre, impedirebbe ai talebani di sostenere gruppi radicali all’interno della Cina o dell’Asia centrale. In Pakistan, infatti, il Dragone ha investito miliardi di dollari USA nella costruzione di strade, zone economiche speciali e porti ma, a causa delle condizioni geografiche e delle tensioni con l’India nel Kashmir, la città cinese di Kashgar è ancora difficilmente collegata al corridoio e i progetti subiscono ritardi. Nel sud del Pakistan, la Cina sta sviluppando il porto di Gwadar, che diventerà un importante hub per l’energia che per essere redditizio deve fungere da terminal per il gas naturale dall’Asia centrale, attraverso l’Afghanistan (Cfr. Gili, A., Afghanistan: la partita delle infrastrutture, in www.ispionline.it; cfr. Goulard, S., Does the Belt and Road have a Future in Taliban-ruled Afghanistan? in The Diplomat 21.08.2021, www.thedplomat.com).
INDIA
È probabile che il ritiro di tutte le truppe statunitensi dall’Afghanistan acceleri le tendenze attuali nelle relazioni dell’India con Stati Uniti, Cina e Russia: maggiore cooperazione con Washington, conflitti più profondi con Pechino e più ampie fratture nella tradizionale partnership strategica con Mosca.
Per molto tempo, l’élite della politica indiana si è lamentata dei pericoli che gli Stati Uniti avrebbero determinato lasciando l’Afghanistan alla mercé dei talebani, per la promozione del terrorismo jihadista contro l’India. Tuttavia, New Delhi non ha avuto altra scelta che fare i conti con il calo del sostegno politico interno a Washington per la missione e l’inevitabilità di un Afghanistan post-americano. Gli ultimi sviluppi potrebbero intensificare le contraddizioni sino-indiane, consolidare le relazioni tra India e USA e produrre una maggiore distanza tra India e Russia.
Tuttavia, la situazione in Afghanistan non è così rosea per la Cina come sembra. Il ritorno dei talebani crea più sfide che opportunità a causa proprio delle più probabili condizioni instabili dello Stato. Nonostante la dichiarazione dei talebani che la guerra è finita, non vi è alcuna garanzia che altri gruppi etnici o religiosi, in particolare i gruppi islamisti radicali, non resisteranno ai talebani. C’è grande incertezza sul fatto che i talebani stabilizzeranno il paese o incoraggeranno una guerra civile senza fine in Afghanistan. Inoltre, i rifugiati nei paesi vicini, come l’Uzbekistan e il Tagikistan, possono aumentare la pressione sulle economie dell’Asia centrale. Questi fattori rappresentano, altresì, una minaccia per i governi filocinesi dell’Asia centrale. Infine, l’esistenza di gruppi di resistenza è probabile scoraggi le aziende cinesi dall’investire in Afghanistan.
In conclusione, lo scenario più probabile è che i gruppi di resistenza, un governo incapace di controllare appieno il territorio e la mancanza di infrastrutture renderanno difficile per la Cina ottenere nel breve termine l’integrazione dell’Afghanistan nella BRI e lo sfruttamento delle sue risorse. Piuttosto che calcolare qualsiasi nuova influenza in Afghanistan, la Cina dovrà prima proteggere i propri confini e quelli dei partner dall’estremismo e dal terrorismo.
Come di consueto, chiudiamo con un romanzo che possa darci un’ulteriore chiave di lettura del tema trattato. Per un occidentale comprendere cosa è davvero accaduto in Afghanistan sotto il dominio dei talebani può essere difficile, perché non vi è solo la condizione terribile delle donne e della mancanza di libertà a fare da sfondo, ma anche una società attraversata da sanguinosi conflitti etnici e desiderosa di pace. Una pace di cui i taliban si son resi garanti trovando il favore di una larga fetta della popolazione. Attraverso le vicende di due donne, Mariam e Laila, accomunate dall’essere le due mogli di un marito violento, Hosseini racconta la tragedia di una vita senza canto, danza, gioco, cultura, arte, libri ma fa anche un grande affresco di un popolo e di una cultura millenaria, dalla fine dell’invasione sovietica all’arrivo dei talebani.