(foto da: Man of tai chi, film 2013)
«L’arroganza americana ha infine avuto la meglio sulla sua grandezza. Avete sperperato il vostro sangue e le vostre ricchezze per quale scopo? … Per la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale? Per la sovranità di Taiwan? Il mondo non è abbastanza grande per il vostro governo e quello di Pechino?» (2034, Elliot Ackerman e James Stavridis)
Come abbiamo raccontato nella precedente Side View “Green Goblin”, alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite a Glasgow si è discusso di come combattere il riscaldamento climatico abbassando le emissioni di CO2, mediante provvedimenti che vanno nella direzione della sostituzione delle fonti energetiche fossili (carbone, petrolio e gas) con fonti di energia più pulite come l’energia eolica, solare e idroelettrica. Obiettivi raggiungibili solo con tecnologia avanzata e progressiva digitalizzazione, come recita il programma stilato a Davos.
Tuttavia, c’è un ostacolo poco discusso ma significativo nel perseguimento di questi obiettivi: senza una catena di approvvigionamento che attraversi Taiwan, uno degli hotspot geopolitici più caldi del mondo, passare rapidamente all’energia verde sarà quasi impossibile.
Ingredienti essenziali per il funzionamento dei sistemi di energia rinnovabile, infatti, sono i semiconduttori. Realizzati con elementi come silicio o germanio, i semiconduttori facilitano lo sfruttamento, la conversione e il trasferimento di energia rinnovabile alla rete elettrica. Senza questi chip vitali, l’efficienza delle tecnologie verdi è limitata e il loro valore diminuisce.
Con lo scritto a quattro mani di oggi, quindi, cerchiamo di analizzare il problema Taiwan, sia dal punto di vista geopolitico che “geotecnologico” ed economico.
Dal punto di vista geopolitico, la questione taiwanese è uno dei grandi nodi irrisolti del XX secolo. Ufficialmente conosciuta come Repubblica di Cina (ROC), Taiwan è un’isola separata dalla Cina dall’omonimo stretto (o di Formosa, nome dato dai portoghesi all’isola intorno alla metà del 16° secolo), e comprende anche tre arcipelaghi: Penghu (a ovest dell’Isola, quasi al centro del canale), Kimnen e Matsu (antistanti alle coste cinesi, le prime verso sud e le seconde verso nord).
L’isola di Taiwan fece parte dal 1895 della dominazione giapponese in Cina e vi rimase per tutta la prima metà del XX secolo, mentre sul continente divampava la guerra trai comunisti di Mao e i nazionalisti di Chiang Kai-shek. Quando il Partito Comunista Cinese conquistò la Cina continentale non riuscì a eliminare i nazionalisti di Chiang Kai-shek. Questi, infatti, si ritirarono a Taiwan (e in alcune isole minori), che da allora è rimasta fuori dal dominio del PCC.
È governata indipendentemente dalla Repubblica Popolare Cinese dal 1949 ma Pechino considera Taiwan parte integrante del proprio territorio, così come recita lo slogan “una sola Cina”: la Repubblica di Cina e la Repubblica Popolare Cinese, infatti, non sarebbero due entità distinte ma rappresenterebbero le due fazioni che si contesero il paese nel corso della guerra civile, giuridicamente mai conclusa e, pertanto, da definire mediante la riunificazione entro il 2050, secondo i desiderata del PCC.
Sono solo 23 i Paesi che riconoscono l’indipendenza di Taiwan e tra questi non vi sono gli Stati Uniti. Il mancato riconoscimento è il risultato della politica aperturista inaugurata negli anni 70 dall’amministrazione americana che, sotto la guida dell’allora presidente Nixon e del suo consigliere Kissinger, riallaccia i rapporti con Pechino, troncati a seguito dalla rivoluzione comunista, con l’obiettivo di esercitare pressione nei confronti adell’Unione Sovietica. Dal canto suo, la Cina rischiava di essere accerchiata da URSS, India e Giappone e, secondo la grammatica strategica, Mao temeva più Mosca della lontana Washington. Pechino otteneva così il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu mentre Taipei accettava la possibilità di una futura unificazione pacifica sul modello “un paese due sistemi”.
Ufficialmente, la “riunificazione” dovrebbe essere raggiunta pacificamente, tuttavia, nell’espansione e nell’equipaggiamento delle sue forze armate, la Cina si è concentrata specificatamente sulla costruzione della sua capacità di sottomettere Taiwan se mai tentasse di dichiarare l’indipendenza.
Negli anni 2000, con l’acuirsi dello scontro tra Cina e USA, la questione taiwanese diventa di capitale importanza: la posizione, l’economia e la sicurezza dell’isola sono essenziali per gli interessi americani, e se Taiwan dovesse diventare parte della Cina, come insiste Pechino, la Cina diventerebbe immediatamente una potenza del Pacifico, controllando alcune delle tecnologie più all’avanguardia del mondo. Inoltre, avrebbe la capacità di bloccare le spedizioni di petrolio in Giappone e Corea del Sud, leva che potrebbe utilizzare per chiedere la chiusura delle basi militari statunitensi in entrambi i paesi. In effetti, Pechino sarebbe probabilmente in grado di raggiungere il suo obiettivo: costringere gli Stati Uniti a lasciare l’Asia.
Vediamo, dunque, nel dettaglio la questione legata ai semiconduttori che rendono il dossier taiwanese particolarmente importante in quanto può tagliare fuori gli Stati Uniti da tutta la filiera produttiva (i.e. dall’estrazione e lavorazione delle terre rare fino alla fabbricazione di microchip ad alta potenza di calcolo).
Taiwan Semiconductor Manufacturing Co, l’azienda più grande al mondo per quanto riguarda la produzione di chip con clienti quali Apple ed Intel, è infatti responsabile per circa il 60% dei ricavi mondiali dell’industria, eclissando Samsung, secondo nella lista, con un rapporto di circa 3 a 1. Questo posizionamento di leader di mercato innervosisce le potenze sulle sponde opposte del pacifico per motivi diversi:
- gli Stati Uniti hanno richiesto e sussidiato ingenti investimenti da parte di TSMC su suolo domestico per poter arginare il rischio derivante da una possibile invasione; inoltre alcune fonti non ufficiali citano un piano di autodistruzione degli impianti principali da parte di TSMC qualora i cinesi dovessero cercare di prendersi l’Isola;
- i cinesi avrebbero l’ambizione di rendersi autonomi in questo campo ma fino ad ora gli sforzi intrapresi per appropriarsi del know-how tecnologico sono stati vani, nonostante il colosso nazionale SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) abbia attirato alcuni executive da TSMC. Inoltre, l’amministrazione Trump aveva posto SMIC sulla black list rendendole impossibile, anche tramite pressioni sul governo olandese, l’acquisto della tecnologia denominata “litografia ultravioletta estrema” da ASML, società olandese che produce i macchinari necessari alla fabbricazione dei chip di ultima generazione di cui TSMC ha il monopolio. Tuttavia, anche se avessero il via libera ad acquistare i macchinari di ASML, per iniziare a produrre ci vorrebbero high performance chips in scala.
Quando si tratta delle tecnologie di fabbricazione più avanzate, dunque, oggi Taiwan supera persino gli Stati Uniti: ad esempio, il 92% della capacità mondiale per la produzione dei “nodi” di 10 nanometri o meno si trova attualmente nell’isola. La fabbricazione di circuiti integrati (IC) è probabilmente l’operazione di produzione più complessa mai sviluppata ed è anche una delle filiere più fragili: la produzione richiede dei parametri molto stringenti sia per la purezza delle materie prime, sia per il “livello di precisione subatomico” nel quale vengono eseguite molte delle fasi del processo di fabbricazione. La produzione di chip, infatti, coinvolge una complessa rete di aziende che li progettano o li realizzano, oltre a quelle che forniscono la tecnologia, i materiali e i macchinari per produrli. Il grafico sotto elaborato da BCG/SIA fornisce un dettaglio del processo manifatturiero, che non è unidirezionale con ciclo unico.
Le fasi dalla 1 alla 4 possono essere “ripetute centinaia di volte con sostanze chimiche diverse per creare più strati, a seconda delle caratteristiche del circuito desiderate” (BCG/SIA). Inoltre, per le tecniche di fabbricazione più avanzate di circuiti integrati possono esser necessari dai 2 ai 3 mesi per completare la fabbricazione di un wafer. Questo non è un business “plug and play”, essendo necessario un alto livello di conoscenza umana e abilità tecnica per poter operare. Quindi, anche se la Cina si trovasse domani in possesso dell’infrastruttura fisica intatta nelle foundries di Taiwan, molto probabilmente non avrebbe le competenze per farle funzionare immediatamente.
Inoltre, analizziamo di seguito il posizionamento delle due super potenze sovra citate lungo la filiera dei semiconduttori, schematizzata qui sotto:
- Design: questo segmento crea il 50% del valore aggiunto. Gli US dominano questo segmento, mentre la Cina non ha praticamente voce in capitolo.
- Fabbricazione (Foundries): questo segmento crea il 24% del valore aggiunto, ed è dominato da Taiwan, con una quota di mercato risibile da parte della Cina.
- Semiconductor Manufacturing Equipment: Questo è il segmento a più contenuto tecnologico e rappresenta l’11% del valore aggiunto. Anche tale categoria è dominata dagli Stati Uniti, con quote significative detenute anche da una società giapponese e da una olandese. La Cina non ha una quota reale in questo mercato.
- Per quanto riguarda il packaging (6% del valore aggiunto), la Cina ha una modesta fetta di mercato.
Pertanto, anche in caso di decoupling delle due superpotenze sulla questione dei semiconduttori, da una parte gli USA sarebbero in una posizione migliore rispetto al dragone per riposizionarsi lungo la filiera, e dall’altra la Cina, invadendo Taiwan, non accelererebbe in maniera significativa l’autosufficienza in questo ambito. La filiera produttiva dei semiconduttori è, oltretutto, alquanto disparata a livello geografico, per via della specializzazione di alcune aziende in alcuni processi specifici: il tipico processo di produzione di semiconduttori prevede che il prodotto semi-lavorato attraversi i confini di vari paesi decine di volte lungo l’arco di un centinaio di giorni, dei quali 12 sono solo di transito tra le varie catene produttive.
Se per quanto riguarda la produzione di chip la Cina sembra esser arginata, si notino le seguenti considerazioni su un’altra area di competizione strategica dove invece la Cina può godere di un posizionamento relativo al momento più forte:
- Dal punto di vista delle terre rare, il dominio cinese rimanda ad un posizionamento di tipo economico e strategico aggressivo, dato che il dragone ha inondato il mercato globale di terre rare a prezzi agevolati, schiacciando i concorrenti, scoraggiando nuovi operatori, ed avvantaggiandosi di questa posizione dominante (i.e. embargo nei confronti del Giappone a causa di una disputa marittima del 2010).
- Tuttavia, anche se ora la Cina è titolare del 60% della produzione annuale, detiene il 36% delle riserve mondiali ed è la potenza dominante in questo mercato, nei decenni che precedono gli anni ’80, erano gli Stati Uniti a prevalere. La situazione è stata alterata in seguito alle pratiche di offshoring innescate dalle crescenti pressioni ambientali sul suolo domestico, nonché dai costi di manodopera più bassi che altrove.
- Gli intrighi strategici si infittiscono ulteriormente, in quanto MP Materials, società americana che ha ottenuto una miriade di sussidi e finanziamenti da parte del governo per riqualificare la miniera di Mountain Pass e migliorare le capacità estrattive e produttive di terre rare dell’industria americana, ha come azionista nonché cliente strategico una società cinese, la Shenghe Resources, che è attiva nella lavorazione, distribuzione e raffinazione delle terre rare. Questo connubio, secondo la MP Materials, è dovuto al fatto che la capacità estrattiva e produttiva ancora non è scalabile nei paesi occidentali, fatta eccezione per l’australiana Lynas Corporation, che ha ricevuto USD 30M dal Pentagono per costruire un impianto di lavorazione delle terre rare leggere in Texas.
Infine, un’area dove possiamo ragionevolmente aspettarci un intensificarsi degli investimenti da parte degli USA, un inasprimento della retorica e interventi dei regolatori è sicuramente quella della produzione di celle per i veicoli elettrici, dove il grafico a fianco parla da sé.
In conclusione, credendo che il tempo giochi a favore della Cina e che gli Stati Uniti siano entrati in una fase terminale di declino, il presidente cinese Xi Jinping non sembra aver alcun motivo per cedere sugli interessi fondamentali dichiarati di Pechino ma neanche per lanciarsi in uno sconsiderato assalto militare a Taipei. Un attacco a Taiwan rischierebbe di causare ingenti danni militari e sanzioni economiche punitive, per non parlare di significative battute d’arresto tecnologiche, poiché un conflitto armato USA-Cina metterebbe in pericolo le operazioni di TSMC.
Lo stretto nesso tra geopolitica e tecnologia limiterà certamente la libertà di manovra di Taiwan e renderà la competizione USA-Cina sempre più tesa. Tuttavia, la sfida principale di Taipei sta nel resistere a una conclusione a cui la Cina vuole arrivare senza combattere. Il suo riassorbimento di fatto nella Repubblica Popolare potrebbe essere solo una questione di tempo e la ragione è nei dati demografici di Taiwan: come riportato da Asia Times, l’isola ha il tasso di natalità più basso di ogni altra entità politica al mondo e, a meno di rimedi, rischia di svanire nel corso dei prossimi 50 anni.
Tuttavia, lo scenario peggiore non va escluso, come racconta un romanzo appena uscito.
Il romanzo che chiude questa Side View è 2034, scritto a quattro mani da Elliot Ackerman, (già autore di cinque bestseller, ha servito nei marine in Iraq e Afghanistan prima di lavorare con Obama alla Casa Bianca) e dall’ammiraglio James Stavridis, che ha guidato diverse flotte americane prima di assumere la carica di Comandate supremo delle forze alleate della Nato dal 2009 al 2013. Si tratta di un thriller geopolitico che prendendo spunto dalla realtà dello scontro USA-Cina, immagina come i rapporti tra i due paesi possano deteriorarsi a causa di un incidente nel Mare cinese e trascinare le nazioni in una terza guerra mondiale.
Lugano, 12/12/2021
Fonti:
Kissinger, H., Cina, Mondadori, 2018
Limes n. 9/21 “Taiwan, l’anti Cina“
Giuliani, F., Perché la questione taiwanese è così importante, in InsiderOver 21.02.2021
Goldman, D., The Taiwan issue will fade away – literally, in Asia Times, 26.10.2021