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Come together

Equity o token? Quali sono le principali similitudini, e quali le maggiori differenze tra queste due classi di attivi finanziari? Quale potrebbe essere il ruolo dei token all’interno della struttura di capitale di una società quotata? Ed ancora, esistono modelli di valutazione per le blockchain? Vi sono le analogie con le tecniche ed i modelli utilizzati nel mondo della finanza tradizionale?

Queste sono solo alcune delle domande che gli investitori finanziari che si avvicinano al nascente mondo degli asset digitali stanno iniziando a porsi con sempre maggior frequenza. Nello scritto di oggi, prendendo spunto dal pensiero e dalle tesi di investimento di asset manager ed allocatori di capitale attivi in questo spazio, proviamo ad approfondire alcune tra le più importanti similitudini e differenze tra i due mondi sopra citati.

Allineamento degli stakeholders

I due strumenti più rilevanti all’interno della struttura di capitale tipica di una società sono equity e debito. L’equity, ovvero le azioni, garantiscono ai possessori un diritto (claim) sui profitti e sui flussi di cassa generati dalla società, mentre gli strumenti di debito (un prestito, oppure un’emissione obbligazionaria) garantiscono un diritto sugli asset della società, in caso quest’ultima non sia in grado di adempiere i propri impegni finanziari.

Secondo questa logica, come potremmo definire un token? Un token può essere visto come uno strumento ibrido, simile all’equity in quanto da un lato permette di partecipare all’upside finanziario legato al successo della società e, dall’altro, consente anche di accedere a benefici assimilabili a quelli di un “programma fedeltà” (sconti, premi, servizi gratuiti) per i propri clienti. I token permettono infatti di allineare gli incentivi di tutti gli stakeholder di una società in maniera unica senza, ad esempio, dover necessariamente privilegiare gli obiettivi finanziari del management o degli azionisti tramite buyback di azioni (shareholders’ capitalism): proviamo ad essere più chiari attraverso un esempio.

Più di 150 milioni di persone al mondo hanno un abbonamento Amazon Prime e tutti gli utenti pagano lo stesso prezzo per il servizio. Tuttavia, una percentuale molto minore di individui possiede azioni Amazon. Si potrebbe pensare che la maggior parte degli azionisti Amazon abbia, probabilmente, un abbonamento Prime, ma non il contrario, ovvero che la maggior parte dei membri Amazon Prime possieda azioni Amazon.

Quando si acquistano azioni Amazon è chiaro ex-ante quali sono i diritti, e gli obiettivi, dell’investitore: un claim sulla crescita dei profitti e sui flussi di cassa della società. Tuttavia, quando si acquista un abbonamento Prime, non si ha idea di cosa si può ottenere. Inizialmente, l’acquisto di un abbonamento Amazon Prime garantiva solo una consegna più rapida ed economica. Ma, in oltre dieci anni, l’utente è stato premiato con vantaggi aggiuntivi come musica, film ed e-books gratuiti ed accesso privilegiato a prodotti scontati.

AIRDROP
Nel mondo crypto si definisce airdrop una strategia di marketing che prevede l’invio gratuito di token, in piccole quantità ed anche in maniera retroattiva, agli utenti al fine di promuovere la consapevolezza di una nuova valuta virtuale

Come membro Prime, l’utente ha raccolto i frutti della crescita della rete (network growth) e dei benefici associati all’appartenenza a quest’ultima, ma il primo sottoscrittore non è stato particolarmente premiato rispetto ad un utente che si è iscritto solo di recente: entrambi, infatti, pagano il medesimo prezzo. Lo stesso, ovviamente, non si può affermare per gli azionisti Amazon, dove gli “early shareholders” sono riusciti a mettere a segno guadagni importantissimi. Il grafico sotto mette a confronto la crescita della capitalizzazione di mercato di Amazon e la crescita nel numero di utenti Prime: è piuttosto evidente la correlazione che c’è nello sviluppo delle due metriche.

Immagine tratta da Coindesk

Se l’appartenenza a Prime fosse stata “tokenizzata”, ovvero se ai partecipanti della rete fosse stato assegnato un token di membership, il diagramma di Venn “utenti – azionisti” precedentemente mostrato si sarebbe sovrapposto molto più velocemente. In qualità di early adopter, l’utente avrebbe avuto un guadagno sia in termini monetari grazie all’aumento della domanda per l’abbonamento Prime (che avrebbe sospinto al rialzo il prezzo del token), che in termini di “utilità”, man mano che venivano aggiunti vantaggi all’abbonamento Prime.

Inoltre, l’utente sarebbe diventato un forte “evangelizzatore” del brand, in quanto sarebbe stato incentivato e motivato da un punto di vista finanziario a pubblicizzarne gli enormi benefici, creando forte allineamento di incentivi e, di conseguenza, clienti più affezionati.

L’esempio sopra citato può essere esteso a numerose tipologie di business. Prendiamo Airbnb: se al primo utente che avesse messo a disposizione la propria casa fosse stato assegnato un token che gli avesse permesso di partecipare alla crescita del business, quest’ultimo sarebbe stato anche economicamente incentivato a portare a bordo nuovi clienti, accelerando la crescita della società nelle sue prime fasi. Probabilmente Airbnb avrebbe raggiunto più rapidamente il successo di cui gode oggi (ed una capitalizzazione di mercato di 107BN USD circa): tuttavia solo alcuni fondi di Venture Capital che hanno supportato la società nelle prime fasi sono riusciti a guadagnare in maniera significativa. Una struttura di capitale che avesse incluso i token, come nell’esempio precedente, avrebbe garantito, forse, un successo più rapido, sicuramente maggiore uguaglianza nella distribuzione della ricchezza.

Nel mondo degli asset digitali l’esempio principale di questa forma di allineamento di interessi azionisti – clienti è rappresentato da Binance, la società che fa capo al maggiore exchange di cryptovalute al mondo e che nel 2021 ha generato circa 20BN USD di ricavi (fonte: Bloomberg) con un Enterprise Value stimata di 300BN USD. Binance infatti ha, come le società tradizionali, equity e debito nella propria struttura di capitale, alla quale ha però aggiunto il token nativo, Binance Coin (BNB), definito per l’appunto nella tassonomia degli asset digitali come uno “utility token. Il possesso di quest’ultimo garantisce una serie di vantaggi che sono stati aggiunti nel corso del tempo, tra i quali:

  • Sconti e fees più basse sul trading
  • Possibilità di utilizzare BNB come collaterale nel trading di derivati
  • Priorità per l’acquisto di nuovi token emessi sulla piattaforma
  • Possibilità di pagare hotel e voli in Asia tramite BNB

In aggiunta a quanto sopra, il token permette “indirettamente” di partecipare alla crescita finanziaria della società: la supply totale di token è fissata ed ogni trimestre la società utilizza parte dei profitti per rimuovere token in circolazione (burn), un processo di fatto assimilabile al riacquisto di azioni (share buyback) tipico delle società quotate sui listini azionari mondiali.

Anche il mondo della finanza tradizionale sembra stia iniziando a guardare con attenzione e con maggiore interesse a questi concetti, valutando anche investimenti diretti in token. È infatti di metà febbraio la notizia che Sequoia Capital, uno dei fondi di Venture Capital americano di maggiore rilevanza con asset in gestione per 80BN USD, già investitore nel mondo degli asset digitali tramite equity, sta per lanciare un fondo da 500-600M USD focalizzato esclusivamente su token liquidi.

Categorie e modelli di valutazione

Gli asset digitali sono una categoria d’investimento relativamente nuova ed una delle domande più frequenti che si pongono gli investitori tradizionali è relativa all’esistenza, o meno, di tecniche o modelli di valutazione.

È possibile assegnare un prezzo target ad un token, come provano a fare le banche d’investimento nel mondo della finanza tradizionale con le società quotate? Quali sono le variabili da tenere in considerazione nell’analisi di una blockchain?

Una delle complicazioni nel fornire una risposta univoca alle domande sopra è certamente legata al fatto che nel mondo degli asset digitali esistono asset con caratteristiche molto diverse tra loro. Possiamo riassumere l’universo investibile in due macrocategorie principali.

Da un lato vi sono le blockchain, che possiamo intendere come l’infrastruttura, le fondamenta tecnologiche del sistema digitale sulle quali verranno poi costruite applicazioni utilizzabili dagli utenti (o le cosiddette blockchain Layer 1, delle quali abbiamo parlato qui). Per fare un parallelismo con il mondo del Web, una blockchain potrebbe essere assimilabile alla tecnologia sottostante agli applicativi che permettono di inviare mail o di scambiare dati online (es. SMTP per scambiarsi e-mail, HTTP per i siti web, TCP/IP per trasferire dati etc.).

La grossa differenza rispetto al precedente esempio, tuttavia, è che nel mondo delle blockchain è possibile investire direttamente in questo layer tecnologico tramite i token nativi della blockchain. Se invece, durante le prime fasi di sviluppo del Web a metà anni 90’ avessimo voluto “scommettere” sul successo di internet, avremmo dovuto necessariamente scegliere un’azienda, investirci direttamente e sperare di aver centrato la Google o la Amazon di turno.

Nel mondo degli asset digitali chiunque svilupperà la prossima killer app di successo dovrà necessariamente costruirla su una blockchain, e buona parte del valore generato dall’applicazione stessa verrà catturato tramite i token della blockchain, come esemplificato nell’immagine a sinistra tratta da un post pubblicato nel 2016 da Union Square Venture. Il fondo di Venture Capital americano aveva infatti, con grande lungimiranza, postulato la “Fat Protocol Thesis”, o la “tesi del protocollo grasso”, per esemplificare proprio questa dinamica peculiare delle blockchain.

Vi è poi la categoria delle applicazioni. In questo ambito esistono più sottosettori, ognuno con le proprie peculiarità e funzioni: vi sono infatti token legati ad applicazioni di Finanza Decentralizzata, al Gaming, al mondo degli NFTs ed al Web 3.0 (musica, gestione ed archiviazione dei dati, telecomunicazioni etc.).

In tema di modelli di valutazione, non vi è un unico approccio: molti gestori di fondi “prendono a prestito” le tecniche tipicamente utilizzate nella finanza tradizionale e poi le completano con tecniche nuove, in grado di catturare metriche rilevanti che caratterizzano gli asset digitali.

Tramite il primo approccio gli asset manager cercano di valutare blockchain ed applicazioni decentralizzate come se fossero una vera e propria società, utilizzando le metodologie tipiche della finanza tradizionale ovvero flussi di cassa scontati (DCF) o multipli di mercato. Nel caso delle applicazioni, i ricavi sono costituiti dalle fees pagate dagli utenti per il servizio fornito (es. per gli exchange decentralizzati, gli utilizzatori pagano una fee per ogni operazione di acquisto o vendita effettuata). Nel caso delle blockchain, invece, i ricavi sono costituiti dalle fees generate dall’acquisto di “blocchi di dati”, o spazio, sulla blockchain. 

Questa tipologia di investitori riesce quindi a creare veri e propri modelli di valutazione (come i due esposti nelle immagini di seguito), ed una differenza interessante rispetto al mondo delle aziende tradizionali è che l’evoluzione di tutte le metriche finanziarie (numero di utenti, numero di transazioni, fee media, dividendi pagati, buybacks etc.) può essere monitorata in tempo reale grazie alla trasparenza della blockchain, senza dover “attendere” la pubblicazione dei risultati trimestrali.

Ethereum, le cui metriche finanziarie annualizzate sono mostrate nel primo grafico sotto, nel 2021 ha generato 9.9BN USD di ricavi (con una crescita anno su anno di +573% – fonte: Token Terminal) a fronte di una capitalizzazione di mercato di 440BN USD esclusivamente tramite le fees pagate dagli utenti per acquisire “blocchi di spazio” all’interno della rete.

Numerose sono poi le tecniche che vengono aggiunte ai modelli di valutazione più tradizionali. La prima è quella che paragona le blockchain a delle reti. Secondo la Legge di Metcalfe (della quale abbiamo parlato qui), infatti, “il valore di una rete aumenta proporzionalmente al quadrato del numero dei suoi utenti”, ed ogni utente che possiede un pezzo della rete tramite i token è incentivato a far crescere la rete perché quest’ultima guadagna più valore. Se è vero che, ad esempio, il Bitcoin non è un asset produttivo perché non genera flussi di cassa, il modello appena esposto riesce a spiegare con buona precisione l’evoluzione della sua capitalizzazione di mercato nel corso degli anni, come mostrato nell’immagine sotto. Gli “effetti di rete” (Network Effects) riescono a spiegare l’evoluzione di prezzo anche di altre blockchain (es. Ethereum, nella seconda immagine). Secondo questa logica diventa quindi fondamentale tenere traccia del numero di nuovi utenti e del volume delle transazioni all’interno di una rete (le cosiddette metriche “on-chain”).

Molti investitori, inoltre, guardano alle blockchain come ad un investimento in start-up tecnologiche, per cui la capacità di attrarre talento nel settore IT risulta essere un altro fattore molto rilevante. Su quale blockchain stanno sviluppando applicazioni i migliori developer informatici? Quali sono le blockchain che riescono ad attrarre il maggiore capitale umano (grafico qui sotto tratto da Electric Capital)?

Vi sono poi altre metriche più “soft”, che risultano tuttavia non meno importanti: ad esempio, quanto è “forte” la community di utenti che si forma attorno ad un determinato progetto? Quanto è attiva sui social media come Twitter o su piattaforme come Discord? Per citare un case study recente, i possessori degli NFTs “Bored Apes Yacht Club” (collezione di immagini di scimmie “annoiate”) hanno creato una community così forte ed “esclusiva” che oggi annovera, tra gli altri, campioni dello sport, della musica e del mondo dello spettacolo.

È vero, questi NFT (che oggi hanno un valore unitario molto elevato, ovvero circa 300k – 400k USD) non producono flussi di cassa e ad essi non può essere assegnato un valore vero e proprio; tuttavia, proprio di recente, ai possessori degli NFT è stato assegnato, tramite un airdrop, il token Ape Coin, che garantisce ai possessori benefici legati all’accesso ad eventi speciali, alla governance del progetto ed alcuni videogiochi hanno già annunciato che ne implementeranno l’utilizzo al loro interno.

Nonostante gli asset digitali possano apparire agli investitori tradizionali come lontani dall’economia reale e con un appeal puramente speculativo, con l’analisi odierna abbiamo voluto contribuire a gettare maggior luce sulle caratteristiche etiche e sulle proprietà finanziarie di questa nuova asset class: da un lato la partecipazione alla crescita del network tramite il possesso di token rimanda ad un capitalismo più inclusivo, dall’altro man mano che l’asset class diventa più matura sarà sempre più possibile determinarne il valore tramite metriche finanziarie tangibili.

Lugano, 03/04/2022

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