(Petrolio, docu-film, 2016)
«L’assenza di sofferenze, il soddisfacimento dei bisogni della vita e, come conseguenza, la libertà di scegliere le proprie occupazioni, ossia il proprio modo di vita, apparivano a Pierre, adesso, come l’indubbia e suprema felicità dell’uomo. Soltanto adesso, in quel luogo, Pierre aveva pienamente apprezzato, per la prima volta, il piacere di mangiare quando aveva voglia di mangiare, di bere quando aveva voglia di bere, di dormire quando aveva voglia di dormire, di stare al caldo quando aveva freddo, di conversare con qualcuno quando aveva voglia di parlare e di ascoltare una voce umana. Il soddisfacimento dei bisogni – cibo buono, pulizia, libertà – sembrava a Pierre, adesso che era privo di tutto questo, un’assoluta felicità…»
(L. Tolstoj, Guerra e Pace)
Con l’arrivo dei mesi invernali e l’aggravarsi delle tensioni geopolitiche con la Russia, il problema dell’approvvigionamento energetico diventa sempre più pressante e per capirne la portata è utile fare il punto della situazione. Per questo motivo, l’odierna Side View è un’intervista ad uno dei maggiori esperti italiani di geopolitica ed energia. Parliamo, infatti, con Demostenes Floros, analista geopolitico ed economico, docente presso il Master in Relazioni internazionali d’impresa Italia-Russia dell’Università di Bologna e Senior Energy Economist presso il Centro Europa Ricerche. Per le edizioni Diarkos ha pubblicato il saggio Guerra e Pace dell’Energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione russa e Nato (2020) ed è tornato in libreria in questi giorni con Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità.
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L’intervista è stata realizzata poche ore prima del sabotaggio del Nord Stream, ma data l’importanza dell’evento, abbiamo aggiunto una domanda su quanto avvenuto.
Iniziamo con una fotografia della situazione (prima del sabotaggio n.d.r.).
Partirei con lo spiegare in maniera generale, ma non generica, quelle che sono state le cause degli aumenti del prezzo del gas naturale nel mercato regionale europeo. Una piccola precisazione in premessa: quando si parla del gas naturale, dobbiamo sempre tenere in conto che esistono tre mercati regionali a livello globale: quello del Nord America, quello europeo e quello asiatico. Questi tre mercati hanno caratteristiche diverse tra loro per quanto attiene i produttori, le scorte, la domanda, la regolamentazione dei prezzi e dei contratti. Certamente, la nascita del gas naturale liquido (GNL) e la capacità di poterlo esportare a livello globale sta un poco alla volta uniformando questi tre mercati regionali verso un unico mercato globale che, però, non esiste ancora o perlomeno non esiste con le medesime caratteristiche con le quali esiste il mercato del greggio.
Fatta questa premessa, concentriamoci sul mercato europeo del gas naturale. Nel primo Rapporto sulla Transizione Energetica che il CER (Centro Europa Ricerche) ha pubblicato il 17 febbraio 2022 abbiamo individuato tre macro-cause per spiegare questo incremento.
1. I fattori di mercato. Con ciò, intendiamo da un lato la crescita della domanda di gas che nel 2021 in Europa è stata di circa +6% e, dall’altro, una significativa difficoltà nel lato dell’offerta con scarsa presenza di scorte. Nell’Unione Europea, infatti, vi è un calo della produzione continuo e costante da ormai quindici anni a questa parte e difficilmente questo trend subirà un’inversione di tendenza. La maggior parte degli analisti si è concentrata su questo punto. Tuttavia, noi abbiamo osservato che, nonostante un aumento della domanda e un calo dell’offerta, è difficile giustificare un aumento del prezzo del 400%, per cui è evidente che esistono altri fattori.
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2. I fattori geopolitici. Anzitutto, la cancellazione del progetto South Stream (SS), che purtroppo era di grande interesse per il nostro Paese in quanto lo avrebbe reso hub energetico del gas naturale quanto meno per l’Europa del centro-sud e per i Balcani. Il progetto è stato cancellato nel 2014, quindi ciò che stiamo vedendo oggi in Ucraina dal punto di vista dell’analisi energetica ha almeno un decennio alle spalle per non dire due, ritornando ai primi anni duemila alla costruzione di un gasdotto che unisce la Federazione Russa con la Turchia che sia chiama Blue Stream e che vede l’Eni presente al 50% in una joint venture paritetica con Gazprom. In secondo luogo, il blocco del Nord Stream 2 (NS2) che doveva già essere in azione da almeno due anni e mezzo a questa parte. Ricordiamo che il NS2 viene lanciato in conseguenza della cancellazione del nostro SS con la gioia dei tedeschi perché fa della Germania il vero hub gasifero in Europa, superati anche dal Turkish Stream, una condotta che ripercorre il SS sotto il Mar Nero ma giunge non più in Bulgaria bensì in Turchia, con regole diverse in quanto la prima destinazione è in UE la seconda no.
3. Il terzo fattore ha a che fare con la transizione energetica e cioè con i limiti delle rinnovabili. Per limiti intendiamo quelli dati dalla densità di potenza, non paragonabile a quella delle fonti fossili, e dall’intermittenza: se non c’è il sole non possiamo utilizzare energia se non attraverso un processo di stoccaggio ad oggi ancora molto lontano dall’ottimo. C’è poi il tema dei certificati di emissione di CO2 che ha visto un incremento di prezzo anche a causa di azione speculativa.
Se dovessimo però indicare la causa principale dell’aumento di prezzo, senza alcun dubbio individueremo il cambiamento nella modalità di acquisto della materia prima del gas naturale, che ha a che vedere con questioni geopolitiche: prima il gas naturale vedeva il trattato con contratti cosiddetti take or pay di lungo periodo (anche trentennali) dove il prezzo era ancorato al prezzo del greggio o derivati più greggio, in cui il peso poteva cambiare in base al produttore russo o algerino o norvegese, dove si aveva un adeguamento del prezzo del gas con due trimestri di ritardo rispetto a quello del greggio per cui si poteva capire quando conveniva acquistare più gas quando il prezzo scendeva. Questo modello è stato abbandonato in favore di un modello gas to gas dove il prezzo è determinato dal gioco della domanda e dell’offerta. In Europa abbiamo al centro di questo modello il cosiddetto TTF, quindi, la borsa di Amsterdam che indica il prezzo non di importazione della materia prima, non quello che Gazprom fa ad Eni, ma quello al quale Eni rivende all’ingrosso e che poi a cascata arriva poi nelle nostre bollette. Questo cambiamento è totalmente ascrivibile a responsabilità dell’UE, nato da richieste dell’UE, su pressioni statunitensi. Richieste avvenute durante l’ultimo decennio e sempre più pressanti e avanzate apertamente. Ricordo che, partecipando a diversi Forum sull’energia e non solo sull’energia, come quello eurasiatico di Verona, che quest’anno si svolgerà per ovvie ragioni a Baku in Azerbaigian, ho avuto modo di vedere questo e posso riportare la contrarietà della Federazione Russa a questi cambiamenti, tant’è che il responsabile finanziario e contrattuale della Gazprom, Sergey Komlev, ci aveva messi apertamente in guardia sulle possibili conseguenze di questi cambiamenti.
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L’Europa ha fatto una scelta sciagurata che nessuno in campagna elettorale ha avuto il coraggio di affrontare come tema anche perché l’Europa dipende dall’estero per il 60% dei proprio consumi di energia totali a differenza degli Stati Uniti che sono diventati esportatori netti per l’1% da un anno e mezzo a questa parte, e noi abbiamo voluto fortemente questa scelta sapendo di entrare in un mercato oligopolistico gestito fondamentalmente da tre multinazionali: la russa Gazprom, la norvegese Statoil e la Sonatrach algerina (dove la Gazprom ha un peso preponderante), da cui le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti e che sono indubbiamente peggiorate dopo il 24 febbraio 2022.
La guerra, quindi, ha di fatto solo accelerato una situazione già in essere?
I prezzi iniziano ad aumentare da marzo 2021. Nel nostro rapporto CER vediamo un incremento anomalo, continuo e costante da marzo 2021, quindi è errata la considerazione di chi dice che i prezzi aumentano tra il terzo e il quarto trimestre 2021. È vero che il 21 dicembre del 2021, per quanto attiene l’anno precedente, noi tocchiamo il massimo perché la Gazprom non dà offerta aggiuntiva, ma nessuno va a monte del problema: Gazprom non dà offerta aggiuntiva perché i contratti non lo prevedevano e perché avevamo chiesto noi di modificare quei contratti. Tanto è vero che lo stesso Putin, durante il suo intervento di fine anno, ad un giornalista italiano risponde: “Ci avete imposto i contratti di mercato, questi sono i contratti e adesso pagate”.
Andiamo ora a toccare alcuni concetti su cui i media insistono, ovvero la questione degli stoccaggi e quella del price cap come soluzione: cosa ne pensa?
Facciamo un piccolo passo indietro, perché noi ci troviamo nella primavera del 2021 con un livello insolitamente basso degli stoccaggi. Ora, i più attenti si sono spinti ad affermare che avevamo avuto un inverno più rigido e una primavera più fresca che avevano determinato un calo superiore alla media degli stoccaggi. Questo è vero! Tuttavia, a ciò si dovrebbe aggiungere un parziale abbandono dei contratti take or pay di lungo e lunghissimo periodo – dove il fornitore ti doveva dare da contratto una quantità certa di gas naturale – in favore dell’acquisto spot. Venendo alla situazione attuale, quest’anno abbiamo un livello di scorte che, come dicono i giornali, è altissimo: in Italia siamo oltre 84/85%. Insomma, per tempi e quantità siamo in linea con quanto avvenuto nel decennio precedente se escludiamo l’anno 2021: niente di nuovo, abbiamo semplicemente fatto quello che dobbiamo fare tutti gli anni.
Il livello delle scorte è però una condizione necessaria, ma non sufficiente per scavallare l’inverno. Ad esempio, i tedeschi hanno sei mesi di stagione fredda e le loro scorte coprono due mesi. Attenzione, infatti, alle parole utilizzate dal ministro dell’energia tedesco qualche giorno fa: se tutto va bene la Germania arriverà con le scorte praticamente esaurite alla primavera prossima, ma il medesimo problema lo avremo anche nella stagione 2023-2024 perché dovremo andare a riempire scorte partendo da un livello ancora più basso senza poter contare sulle forniture russe nel frattempo – temo – azzerate. Quando dice “se va tutto bene” intende dire: se le riduzioni dei consumi saranno effettivamente tali, se l’inverno sarà particolarmente mite e se i fornitori alternativi alla Federazione Russa continueranno a produrre ed esportare al massimo delle loro capacità, che sono quelle attuali. Ci sono molti “se” a monte, con tutte le conseguenze economiche e sociali di una riduzione dei consumi sulla manifattura. Qui possiamo entrare nel merito con dei dati sul nostro paese le cui spie rosse partono già dal primo trimestre 2022, quindi sui prezzi 2021 a guerra non ancora estesa all’intera Ucraina.
Aggiungo un ulteriore elemento geopolitico di cui non parla nessuno: un fattore preoccupante è il livello delle scorte dell’Ucraina. L’Ucraina ha un livello bassissimo di scorte, sotto il 30% (anche se ci sono molti punti interrogativi sui dati visto che è un paese in guerra) però necessita di almeno 6-8 Gm3 per avere scorte sufficienti per l’inverno e 8-12 mld di USD per pagare queste scorte. Se l’Ucraina non ha questo denaro – e non lo ha – glielo dobbiamo dare noi. La domanda è molto semplice: se l’Ucraina non riesce a riempire le proprie scorte e in alcune zone del paese ha già iniziato a nevicare la scorsa settimana, come si riscalderà il prossimo inverno? Negli ultimi mesi/paio d’anni, l’Ucraina ha visto reimportare gas dai paesi limitrofi, vuoi dalla Polonia vuoi dalla Germania, ma si trattava di gas russo. Se l’Ucraina non riesce a scaldarsi, con ogni probabilità inizierà a spillare il gas che oggi passa per l’unica condotta attiva nel proprio territorio e che arriva in Europa e soprattutto in Italia attraverso una serie di gasdotti che trasportano, ad oggi, circa 40 mln di m3 che passano per l’Ucraina, arrivano in Austria e poi da noi. Se ciò avvenisse, ed è già avvenuto in passato dal 2009 al 2014, i russi se ne accorgeranno immediatamente e potranno, contratti alla mano, interrompere il flusso, peggiorando la nostra situazione. Questo è uno scenario negativo che non possiamo escludere.
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E arrivo al tema del price cap. Noi non abbiamo ancora capito cosa intende l’UE per price cap. Mi spiego. Prima ho fatto una distinzione tra prezzo dell’importazione di Eni da Gazprom e prezzo di vendita di Eni al grossista che è il TTF. Questo price cap cosa riguarda? Il prezzo dell’importazione e dunque al gas russo e non agli altri? Oppure il TTF? Le due cose variano. Lo vogliono mettere a tutta Europa o solo ad una parte? La Spagna, ad esempio, ha già un proprio price cap, ma lo ha per ragioni tecniche riconducibili alla penisola iberica non esportabili al caso italiano, che ha diversi punti di confine che vanno dalla Francia sino alla Grecia, e non è applicabile perché in tal caso il rischio è che nei punti di confine il gas esca per ragioni di prezzo, cioè vada venduto laddove ha un margine maggiore di prezzo. Il problema che la penisola iberica non ha perché non è collegata con il resto dell’Europa tramite gasdotti: ecco perché la Spagna ha potuto implementare una sorta di price cap che comunque è un prezzo di 4/5 volte superiore a quello precedente il 2021.
Secondo problema quando ipotizziamo di parlare di un price cap: i paesi del Mediterraneo lo vogliono, fatte salve le distinzioni di cui parlavo della penisola iberica, quelli continentali, a partire dall’Olanda non lo vogliono per ovvie ragioni economiche, la Germania è un continuo passo avanti e uno indietro, mentre la Francia sta giocando sul fatto che il nucleare è la prima fonte che utilizza nel proprio paniere energetico (il 36%), l’Ungheria ha stipulato un secondo contratto con Gazprom che probabilmente le permetterà di superare l’inverno senza problemi. C’è quindi un problema anche sull’effettiva applicazione del price cap. Concludo, come abbiamo scritto nel libro, avanzando una proposta in grado di limitare i danni della speculazione e che si traduce in un price cap non al prezzo TTF bensì alla volatilità del medesimo. Molto semplicemente, se le oscillazioni del TTF superano una certa soglia, le contrattazioni si bloccano come avviene nelle principali Borse del mondo. Dall’inizio dell’anno il numero delle contrattazioni si sono ridotte drasticamente sino quasi ad annullarsi (erano diverse migliaia a inizio anno), quindi in una Borsa del genere la volatilità può essere estrema: poco liquida, agiscono pochi operatori. Senza dimenticare il problema delle coperture: sempre più esose nel corso degli ultimi mesi che, quasi fosse un paradosso, stanno facendo scappare gli operatori, per cui abbiamo delle contrattazioni ridotte al lumicino.
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Parlava di pressioni statunitensi addirittura decennali: qual è il loro obiettivo? A parte quello di disaccoppiare l’Europa dalla Russia.
I problemi sono tanti. È chiaro che l’obiettivo principale è rompere il rapporto energetico tra Federazione Russa e UE, con tutto quello che ne consegue da un punto di vista economico e commerciale. E questo obiettivo appare purtroppo raggiunto, e dico purtroppo perché a me pare che Federazione Russa e UE presentino da un punto di vista economico delle complementarità non indifferenti: non a caso all’ultimo forum economico del 2021 di Verona erano arrivati a partecipare 35 paesi e 1400 imprese. Deve esserci un interesse materiale perché arrivino a presentarsi un numero del genere di imprese ad un forum nato nel 2008. L’obiettivo è scaricare gran parte della crisi sull’Unione Europea e ciò può avvenire e sta già avvenendo attraverso un processo di deindustrializzazione. Torniamo ai dati sui consumi di gas naturale del 2021 e 2022. Al 31 luglio 2022, relativamente al nostro sistema manifatturiero che è fortemente gas intensive, guardando ai consumi di gas naturale osserviamo un -9,1%. Abbiamo, altresì, un -5,6% alla voce riscaldamento, +6% sull’elettricità, ma quello che preoccupa è proprio l’impatto sulla manifattura. Si potrebbe eccepire che è una conseguenza del 24 febbraio. Ebbene no! Se si guarda il primo trimestre 2022 si legge un -8.1%: ciò vuol dire che l’effetto del prezzo del gas naturale del 2021 ha un impatto sulla manifattura del nostro Paese e ne rallenta l’attività già evidente nel primo trimestre 2022. Non si possono, quindi, attribuire responsabilità, se non parzialmente, a quanto avvenuto il 24 febbraio. Temiamo che nel breve periodo questo processo andrà avanti per le riduzioni del consumo di gas, con conseguente riduzione dell’attività manifatturiera. Ciò significa che molte imprese non riusciranno a tenere, altre non riapriranno. Il rischio è che questi mercati verranno occupati da imprese statunitensi o asiatiche. Già si parla di possibili delocalizzazioni di imprese europee non verso l’Asia, come nei decenni precedenti, ma verso gli Stati Uniti. La stessa Emma Marcegaglia, presidente dell’Eni dal 2014 al 2020, si è accorta che i nostri imprenditori pagano l’elettricità 8 volte di più di quelli americani.
Nei prossimi mesi, il vero rischio è che il calo dell’attività manifatturiera potrà tradursi in vera e propria deindustrializzazione. Su questo è stato chiaro Il Sole24ore del 13 aprile 2022 scorso, quand’anche le cose andassero per il meglio (clima mite, scorte che tengono, fornitori che esportano al massimo) noi ci ritroveremo con i prezzi della nostra manifattura che saranno quelli di chi non utilizza più il gas naturale da tubo, quello russo, che è il più economico tra tutti ma Gnl americano, vale a dire quello più costoso. Ci sarà quindi una perdita significativa di competitività dell’Unione Europea. Il Gnl costa di più del gas russo di almeno un 15-20%. Il Sole 24 ore del 13 aprile arrivava a quantificare il differenziale di prezzo del 50%.
Avvicinandoci alla chiusura, un commento sulla transizione energetica?
Se vogliamo ridurre i consumi di gas naturale senza ridurre l’attività manifatturiera e, più in generale, i nostri consumi, dobbiamo utilizzare più petrolio e carbone visti i limiti delle rinnovabili. Tra le conseguenze, noi abbiamo una riduzione dei consumi di gas naturale e noi dobbiamo sostituirlo. E infatti, i dati ci stanno dicendo che non potendo sostituirlo con le rinnovabili, come qualcuno aveva erroneamente ipotizzato, anticipando troppo i tempi e non tendendo conto dei loro limiti tecnologici, stiamo consumando più petrolio e più carbone. Le statistiche del BP Statistical Review of World Energy 2022, usciti a fine giugno, ci dicono che già nel 2021 la UE e USA hanno consumato più carbone. L’UE stima un incremento dei consumi di carbone del 5/7% nei prossimi anni, tant’è che si sta pensando di rivedere le regole sui certificati di emissione per dare alle imprese maggior disponibilità di certificati da poter acquistare per poter emettere più CO2. Questo rappresenta non uno, ma due passi indietro nella direzione della transizione energetica. Anche i costi, oltre alla tecnologia, rappresentano un limite: a livello globale esistono stime sulla transizione energetica al 2050 che parlano di un costo che varia da 93 trilioni a 172 trilioni di USD. Il Pil mondiale è di 100 trilioni di USD circa, quindi la domanda è: chi paga? Non è una domanda peregrina, anche perché il beneficio noi non lo vediamo e non lo vedremo nelle bollette, che anzi pagano un contributo per le rinnovabili, ma in termini di aria più pulita. E questo è un bel problema quando devi spiegare alla gente il tema della transizione energetica.
Specie in un contesto inflazionistico come questo.
Dato non solo dall’energia: il problema sarà sui generi alimentari. I beni alimentari si fanno con l’ausilio di fertilizzanti, che senza gas naturale non si producono. Quindi, gli alimentari andranno su di prezzo prima ancora che per un problema energetico perché il fertilizzante costerà molto di più. Questo è un ulteriore problema che assieme all’incremento dei tassi di interesse delle banche centrali completa il quadro del disastro che abbiamo di fronte.
Quindi, sì, intravedo una situazione di grande problematicità in termini di tenuta dell’Unione Europea. Non so se avremo la forza di un altro whatever it takes con la guida tedesca della BCE, per cui la stessa tenuta dell’euro è potenzialmente a rischio.
A meno che la Germania non si accolli l’idea di guidare politicamente l’Europa verso l’autonomia strategica.
Questo presupporrebbe non solo una scelta economica di questo tipo da parte della Germania ma anche una scelta francese sul tema dell’atomica e delle politiche militari. Non vedo nessuno dei due Paesi disposto ad andare in questa direzione. Anzi, nel governo tedesco vi sono contraddizioni evidenti: i Verdi, ad esempio, rispondono ad interessi e ad esigenze che, vista la provenienza dei finanziamenti, sono più quelli di oltreoceano che quelli tedeschi.
Cosa ne pensa delle voci che raccontano di una Confindustria tedesca particolarmente arrabbiata e di alcuni deputati della SPD ormai sul piede di guerra nei confronti di Scholtz.
Confermo che la Confindustria tedesca da tempo pone in maniera chiara, con dati riguardanti l’incremento di costi stimati in 180 mld EUR, il tema di una possibile recessione stimata al -3/2 % in ipotesi della chiusura totale del gas naturale da parte della Federazione Russa. Alcuni politici tedeschi stanno ponendo il tema della riapertura del NS2, nell’ipotesi in cui ci fossero dei problemi, e ci sono: il NS1 infatti è stato chiuso, vuoi per via delle turbine o più plausibilmente perché avevano deciso di mettere un price cap sul greggio russo al G7 una settimana prima. Per cui vedo una Confindustria tedesca consapevole del problema.
Alla luce di quanto descritto fino ad ora, come legge il sabotaggio del Nord Stream?
Il sabotaggio dei gasdotti NS1 e NS2 che collegano la Federazione Russa con la Germania attraverso i fondali del Mar Baltico, bypassando Polonia e paesi Baltici, avvenuto il 26 settembre nelle acque territoriali danesi confinanti con quelle svedesi, potrebbe avere una duplice interpretazione.
Per un verso, la Russia avrebbe l’interesse ad aumentare il prezzo del gas naturale in modo da potere continuare a finanziare il conflitto in corso in Ucraina, accrescendo le tensioni economiche e sociali nei paesi UE. Di fatto, nelle ore successive al sabotaggio, il prezzo al mercato TTF di Amsterdam è effettivamente schizzato verso l’alto, passando da poco meno di 170 €/MWh il 26 settembre a quasi 210 €/MWh il giorno successivo. L’impressione però è che il mercato avesse in gran parte già scontato la chiusura delle due pipeline (il Nord Stream II non è mai entrato in funzione).
Dall’altro, il sabotaggio ha determinato la rottura – quasi definitiva – dei rapporti energetici esistenti tra Unione europea e Federazione Russa, oltre a far morire sul nascere l’ipotesi avanzata da alcuni rappresentanti della Confindustria tedesca, sostenuta da diversi parlamentari del Bundenstag, di dare semaforo verde al Nord Stream 2. E’ bene precisare che la composizione azionaria di queste infrastrutture è russo-europea. Più precisamente, Nord Stream 1 è posseduta da Gazprom 51%, Wintershall Holding 15,5%, E.ON Ruhrgas 15,5%, Gasunie 9%, GDF SUEZ 9%; Nord Stream 2 invece era inizialmente posseduta da Gazprom 50%, E.On 10%, BASF 10%, Royal Dutch-Shell 10%, OMV 10%, ENGIE 10%. Al fine di non incorrere in procedimenti disciplinari da parte dell’UE, il capitale azionario di Nord Stream II era interamente passato sotto il controllo della Gazprom, ma i precedenti azionisti si erano trasformati in finanziatori del medesimo progetto per un ammontare analogo al valore del capitale precedentemente detenuto.
In base al comunicato Istat sul commercio extra UE diffuso il 28 settembre, ad agosto 2022, il disavanzo commerciale dell’Italia con i paesi extra UE è stato pari a -5.792 milioni di euro, a fronte di un avanzo di 1.298 milioni di euro dello stesso mese del 2021. Il deficit energetico ha raggiunto, in valore assoluto, i 9.864 milioni di euro (era pari a -3.435 milioni di euro un anno prima), mentre le importazioni dell’Italia dagli Stati Uniti segnano +123% anno su anno (tenuto conto del forte apprezzamento del dollaro, trattasi di petrolio, gas naturale e prodotti agricoli). Indipendentemente dall’autore del sabotaggio, l’andamento negativo di questi dati potrebbe aumentare nei mesi a venire.
Cosa ci può dire del Baltic Pipe, che va dalla Norvegia alla Polonia inaugurato il 27 settembre 2022?
Questo gasdotto avrà una capacità di trasporto di 10 mld di mc. Quindi, da una parte la Polonia ha acquistato 10 mld di capacità di trasporto a fronte, però, dei 110 mld che perdiamo come Europa dal momento che NS1 e 2 non entrano in funzione. Questi 10 mld verranno quindi assorbiti dalla Polonia la quale riuscirà così a sostituire quasi totalmente il gas russo. Il problema è che il fornitore norvegese, che ha preso il posto della Federazione Russa come principale fornitore dell’Europa, sta già pompando ed esportando quasi al massimo delle proprie capacità. Il rischio è che questi 10 mld, che vanno verso la Polonia, verranno meno rispetto alle necessità dell’Europa continentale, creando e acuendo le tensioni all’interno dell’UE. Tensioni che, mi permetto di aggiungere, sono in aumento non solo a nord ma anche a sud, basti pensare che il gas che sta arrivando in più all’Italia dall’Algeria quest’ultima lo manda sottraendolo alla Spagna. Una situazione potenzialmente esplosiva per la tenuta dell’Unione.
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Il libro suggerito in chiusura non può che essere Crisi o transizione energetica? Ed. Diarkos. Come riporta la sinossi del libro, con l’uscita dalla pandemia, la strategia europea per la sostenibilità ha iniziato a confrontarsi con la scarsità di fonti energetiche tradizionali e con l’assenza di quelle tecnologie che permetterebbero di completare il passaggio alle fonti naturali. A questi fattori si aggiunge ora l’acuta crisi geopolitica provocata dal conflitto in Ucraina. La dipendenza europea dalle forniture di gas naturale dalla Russia obbliga a ripensare in tutta fretta le modalità di copertura del fabbisogno energetico. Le possibilità di diversificare le importazioni di energia sono tuttavia esigue e le prospettive di incorrere in una scarsità nelle forniture stanno rapidamente aumentando. I fattori geopolitici potrebbero in breve tempo divenire preminenti, qualora proprio la riconfigurazione dei mercati dell’energia rinsaldasse l’asse fra Russia e Cina, accentuando la preminenza dell’Asia nelle produzioni manifatturiere. Il conflitto ucraino accentua dunque il conflitto energetico latente, ponendo forse termine al processo di globalizzazione dei mercati. Eventualità che potrebbe trovare l’Europa del tutto impreparata.
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Lugano, 09/10/2022
Note: I grafici sono tratti dal report Geopolitica ed energia 07 22 a cura del CER (Centro Europa Ricerche).