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99 red balloons

99 decision street
99 ministers meet
To worry, worry, super-scurry
Call out the troops now in a hurry
This is what we’ve waited for
This is it boys, this is war
The president is on the line
As 99 red balloons go by
(99 Red Ballons, Nena, 1960)

Che le principali banche centrali si trovino in un cul-de-sac per quanto riguarda il precario equilibrio tra crescita e occupazione da un lato, e l’inflazione ai massimi degli ultimi 40 anni dall’altro, è un tema che è stato oggetto di diverse riflessioni da parte della stampa internazionale, nonché dei principali centri studi e commentatori storico-economici. Tra questi, alcuni sostengono che la fossa se la siano scavata proprio le stesse autorità monetarie, inondando il mondo di liquidità in una fase emergenziale senza prevederne in maniera efficace gli effetti inflattivi che sarebbero andati ad amplificarsi a causa dei colli di bottiglia sul lato dell’offerta, nell’istante successivo di forte ripresa dell’attività economica (i.e. “supply shock”).

Inoltre, la recente corsa al rialzo dei tassi da parte dei primari istituti monetari centrali, ha attirato non solo le critiche delle parti più fragili delle società civile, ma altresì dei vertici anche moderati del mondo politico occidentale: non c’è bisogno di guardare oltreoceano all’arci-regolatore radicale Sen. Warren o alla postura autarchica di Erdogan per accorgerci che l’indipendenza dei banchieri centrali stia venendo chiamata in causa.

Il Financial Times, ad esempio, riporta un retweet del primo ministro finlandese Marinn che recita: “C’è qualcosa di profondamente sbagliato nelle idee prevalenti di politica monetaria quando le banche centrali spingono le economie in recessione per proteggere la propria indipendenza”. Anche Macron recentemente ha affermato di esser “preoccupato dagli esperti e dai funzionari monetari europei che sostengono che sia necessario distruggere la domanda europea per meglio contenere l’inflazione”.

Con lo scritto di oggi, proveremo a inquisire i fattori principali per cui, nonostante lo sforzo restrittivo delle banche centrali, i livelli di inflazione medi dei prossimi anni rischiano ancora una volta di sorprendere al rialzo le previsioni degli esperti sovra riportate (i.e. si ricorda che la FED, ad esempio, dà impiego a 21,000 persone, tra cui 400 professionisti con titolo PhD, per un totale di USD 2.6 miliardi di stipendi annui). Settembre, infatti, ha registrato il settimo mese di fila in cui l’inflazione è rimasta al di sopra dell’8% in US.

Uno dei fattori scatenanti può esser proprio la dinamica per cui i consumatori americani hanno visto la propria ricchezza aumentare durante la pandemia, sia per un tema di “risparmio forzato” essendo costretti alle mura domestiche, ma anche come conseguenza diretta dell’elicottero fiscale (i.e. stimulus checks a firma DJ Trump).

La ricchezza aggregata degli americani, infatti, è aumentata del +37% tra il primo trimestre 2020 ed il primo trimestre 2022, un aumento record da quando la FED ha iniziato a tenere traccia di questo genere di dati nel 1989. Questo tasso di aumento si registra dai minimi del Covid fino al massimo recente, ma anche se partiamo dai livelli pre-pandemici, un aumento del patrimonio complessivo del +30% su due anni non si era mai registrato prima di questo periodo (grafico in basso).

E, almeno questa volta, sembrerebbe che non solo la vetta della piramide sociale abbia beneficiato di questa dinamica economica che ha la portata di un aggiustamento tettonico, bensì anche la fetta di popolazione che si colloca nel 50% inferiore della piramide della ricchezza, come testimoniato dal grafico sotto : se dal 1989 al picco pre-2008, la ricchezza del 50% più povero è passata da USD 773 miliardi a USD 1,4 trilioni, aumentando, quindi, in poco meno di 20 anni, di oltre 620 miliardi di dollari, questa coorte è stata devastata dalla crisi finanziaria e dal crollo immobiliare che ne hanno affossato il patrimonio a USD 190 miliardi.

A fine 2019, la ricchezza era finalmente ritornata ai massimi storici registrati in precedenza, intorno ai USD 2 trilioni; da allora, il patrimonio del 50% più povero è aumentato di USD 2,4 trilioni, di fatto raddoppiando in meno di 3 anni.

Va infine notato che questo gruppo di famiglie tende a spendere una percentuale maggiore del proprio reddito (i.e. maggior propensità al consumo) rispetto a famiglie più patrimonializzate; quindi, non dovremmo sorprenderci che i consumatori continuino a spendere a fronte di un contesto economico incerto: probabilmente il consumatore statunitense non è mai stato così preparato per un periodo di inflazione elevata (e una potenziale recessione). Anche il premio Nobel Michael Spence, riprendendo uno studio del Brookings Institute, afferma che decine di milioni di persone sono entrate a far parte della classe media negli ultimi anni, e che il livello di equilibrio dei prezzi negli anni a venire rischia di esser sostanzialmente più elevato, anche a causa di una dinamica di invecchiamento della popolazione: secondo il professore di Stanford, nonostante un aumento della longevità, questa dinamica andrà a declinarsi in una diminuzione della forza lavoro, e maggiori livelli di dipendenza sulla classe di giovani lavoratori (i.e. piramide invertita), senza una diminuzione corrispondente dei livelli di domanda aggregata.

Se da un lato i consumatori sono equipaggiati finanziariamente per navigare almeno la prima fase di incremento del costo della vita, la maggior parte delle aziende americane si sta adoperando per passare al consumatore l’aumento dei costi innalzando i prezzi: guardando al margine operativo aggregato dell’indice azionario americano S&P 500 si constata che, nonostante l’inflazione galoppante, i livelli di profittabilità rimangono intonsi, almeno per quanto rilevato sino al secondo trimestre 2022. Quindi, mentre i consumatori sono stati costretti a pagare prezzi più alti per benzina e beni alimentari, le aziende sono state in grado di trasferire gli aumenti dei costi a consumatori “piu’ tolleranti”: è lecito naturalmente chiedersi  come si comporteranno le aziende nei trimestri a venire: abbasseranno i prezzi una volta che i loro costi diminuiranno, riusciranno sempre a scaricare gli aumenti sul consumatore finale oppure, l’opzione piu’ probabile, inizieranno a comprimere ricavi e marginalità man mano che il consumatore esaurirà le scorte di risparmi in eccesso.

L’economista Matt Stoller, la cui ricerca specializzata nell’ambito degli oligopoli di mercato trova pochi pari, sostiene che quasi il 60% dell’aumento nei livelli dell’inflazione è stato incanalato nei profitti aziendali; il grafico sotto corrobora questo punto di vista e riporta che almeno metà del rialzo dei prezzi da parte di corporate America è servito per aumentare i profitti.

Il grafico sotto, infine, evidenzia come dopo la pandemia le aziende hanno generato oltre duemila dollari di extra-profitti per persona. Stoller sostiene che sia indubbio che vi sia dunque una relazione, non meglio esplorata da parte dell’appartato economico-accademico circa la pricing power delle aziende piu’ grandi rispetto al livello dei prezzi praticati (“winner takes all”).

Una timida ammissione in questo campo la fa la FED di San Francisco lo scorso giugno 2022, riconoscendo che metà dell’aumento dei prezzi è causato dai colli di bottiglia sul lato dell’offerta: minor quantità di prodotto disponibile e prezzi maggiorati che sono una dinamica tipica dei mercati monopolistici. Nulla di nuovo, almeno su questo fronte, rispetto a quanto è stato studiato sui libri di scuola. Dopo aver analizzato il ruolo dei consumatori e dei governi all’interno del quadro inflazionistico attuale, resta da valutare il ruolo dei governi: l’economista Napier sostiene che il potere di controllare la creazione di moneta è passato dalle banche centrali ai governi, tramite uno strumento nuovo ma estremamente potente; l’emissione di garanzie statali sul credito bancario. La crisi del Covid ha aperto la strada, l’attuale crisi energetica sta delineando un contesto praticamente identico: da febbraio 2020 la percentuale dei nuovi prestiti con garanzia statale nell’Eurozona risulta come segue,

  • Germania 40%
  • Francia 70%
  • Italia > 100%

Il sistema economico degli ultimi 40 anni è stato costruito sul presupposto che l’erogazione del credito fosse controllata attraverso il livello dei tassi di interesse, fissati in maniera autonoma dalle banche centrali; nel momento in cui i governi prendono il controllo della creazione di credito privato attraverso il sistema bancario garantendo i prestiti, le banche centrali vengono di fatto surrogate dalla loro funzione originale. Napier presenta banche centrali e governi su schieramenti opposti in questo preciso momento storico: le banche centrali a difendere il valore del denaro, per evitare derive sudamericane; i governi sulle posizioni esposte dal/dalla premier finlandese Marin, preoccupati di evitare che una recessione faccia capolino e con essa che il consenso elettorale si sposti verso l’opposizione. Per Napier, chi uscirà vincente da questo braccio di ferro, sono naturalmente i governi, contribuendo dunque in modo importante a mantenere i livelli dei prezzi sostenuti.  

Si va dunque a delineare un killer loop dove le aziende trasferiscono gli aumenti dei costi ai consumatori che continuano a spendere i propri risparmi, le banche continuano a prestare forti di garanzie statali, la domanda aggregata dunque non flette e nemmeno si distrugge, l’inflazione continua dunque a restare elevata.  Tutto questo ancora prima di considerare esternalità negative (la guerra, cambiamenti climatici) o fattori endemici (la diminuzione della forza lavoro su scala globale piuttosto che shortage di materie prima per intere regioni come ad esempio l’Europa manifatturiera).

Come scrive Zoltan Pozsar, analista di Credit Suisse, tra i più lucidi osservatori della transizione che stiamo vivendo, veniamo da un mondo a bassa inflazione che aveva tre pilastri: cheap labour, manodopera a basso costo che manteneva la crescita del salario nominale “stagnante” negli Stati Uniti, cheap goods merci cinesi a buon mercato che aumentavano i salari reali, cheap energy grazie a gas naturale russo a basso costo che alimentava l’industria tedesca e l’Europa in generale. Impliciti in questa “trinità” c’erano due giganteschi blocchi geostrategici e geoeconomici. Niall Ferguson chiamò il primo di questi blocchi, risultante dalla sinergia sino-americana, con il fortunato neologismo di “Chimerica”.  L’altro, risultante dalla compenetrazione russo-europea, potrebbe essere definito “Eurussia”. Un sistema in cui tutte le parti cooperavano commercialmente oltre che finanziariamente, traendone mutuo vantaggio. Tutto funziona finché c’è armonia tra i diversi attori coinvolti. Armonia che oggi evidentemente è venuta meno. E che difficilmente tornerà a fare capolino.  

Nel libro che in chiusura consigliamo, Niall Ferguson, racconta come le tappe dell’ascesa della moneta siano intrecciate proprio con gli eventi politici, militari e socioeconomici, nonché con la creazione e lo scoppio storicamente ricorrente di bolle finanziarie. Una lettura preziosa in un momento di crisi globale del rapporto tra Stato, mercati, capitalismo, moneta e istituzioni finanziarie.

Lugano, 30/10/22

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