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La B-Zona

(foto: El Presidente, serie tv Amazon Prime, 2020)

«Dal Sud non può venire nulla di importante.
La storia non è mai stata prodotta nel Sud.
L’asse della storia parte da Mosca passa per Bonn,
attraversa l’Oceano fino a Washington e poi arriva
a Tokyo. Quello che accade a sud non conta.
Lei sta sprecando il Suo tempo».
«Signor Kissinger, Lei non sa niente del Sud».
«No, e non me ne importa nulla».
«Lei è un tedesco wagneriano.
È una persona molto arrogante».

(Dialogo tra Henry Kissinger e il Ministro degli Esteri del Cile Gabriel Valdés, giugno 1969)

Con la vittoria al ballottaggio sull’ormai ex presidente Bolsonaro ed il ritorno sulla scena mondiale di Luiz Inácio Lula da Silva, cogliamo l’occasione per guardare a quanto avviene in America Latina, dove le conseguenze economiche del Covid-19, della guerra d’Ucraina, del rialzo dei tassi negli Stati Uniti, l’inflazione galoppante e l’insoddisfazione verso le risposte delle élite stanno provocando una nuova svolta a sinistra: il Brasile, infatti, segue infatti Colombia, Cile, Perù, Honduras, Argentina e Messico in questo corso.

Senza scendere nel dettaglio delle vicende politiche, spesso complesse e a tratti contraddittorie stante il quadro di eterogeneità e frammentarietà della regione, con lo scritto di oggi prendiamo spunto dagli esiti del ballottaggio brasiliano per svolgere alcune riflessioni di carattere generale sul subcontinente americano. In particolare, cercheremo di capire se vi sono quelle caratteristiche che, accomunando America Latina ed Europa, facciano pensare ad esiti simili in un contesto di recessione e bassa crescita. Ipotesi che sul web viene ormai sintetizzata dall’hashtag #Eurozuela.

Italia ed Europa del Sud finiranno come il Sudamerica! Così scriveva Giulio Sapelli un anno fa. Secondo lo storico torinese, infatti, “l’America Latina è un continente che da circa cinquant’anni anticipa processi internazionali profondissimi. Essi si determinano in quella formazione economico-sociale particolarissima prima del loro apparire in altre formazioni economico-sociali differenziate, ma su taluni aspetti sempre più simili: la trasformazione della povertà in marginalità, la trasformazione delle città e delle metropoli da agorà sociali e politiche in spazi di segregazione sociale e di elaborazione di nuovi stili di vita delle classi alte e di dominio sociale capitalistico” (Cfr. Sapelli, G., Nella storia mondiale. Stati mercati guerre, ed. Guerini e associati, 2021).

Parlare di America Latina potrebbe voler dire, dunque, trovare al suo interno elementi da cui trarre spunto per reagire a quello che oggi appare un modello in decadenza. Procedendo, dunque, per linee generali, il quesito su cui far luce è perché l’America Latina, nonostante le risorse minerarie ed agricole nonché una tendenza demografica positiva, non riesca a svilupparsi o lo faccia molto lentamente rispetto ad aree del mondo meno ricche.

Individuiamo almeno tre fattori che ci sembrano i più rilevanti.

Fattori geopolitici.

L’America Latina è da circa duecento anni il “cortile di casa” degli USA, espressione che nasce con la dottrina formulata nel 1823 dall’allora presidente degli Stati Uniti James Monroe, poi ribadita da Theodore Roosevelt con il suo Corollario nel 1904.

LA DOTTRINA MONROE
Nei primi anni dell’Ottocento anche le colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina ottennero l’indipendenza. Nel 1823, quando Monroe pronunciò il suo discorso, in tutto il continente erano ancora in possesso di Stati europei solo il Canada inglese, l’Alaska russa, Cuba, Repubblica Dominicana e Portorico della Spagna (oltre alla Bolivia, che si sarebbe resa presto indipendente) e pochi altri territori.
Gli Stati Uniti non volevano che i Paesi colonizzatori riconquistassero le colonie che avevano perso. Il loro timore era dovuto al fatto che dal 1815 l’Europa aveva ritrovato una sua stabilità, grazie alla sconfitta di Napoleone, ed era quindi nelle condizioni di interessarsi di nuovo delle Americhe. Con il Corollario alla Dottrina di Monroe di Roosevelt gli Stati Uniti dichiaravano di avere il diritto di interferire negli affari dei Paesi americani per evitare altri interventi dell’Europa.

Con la formula d’effetto l’America agli Americani, Monroe voleva raggiungere l’obiettivo di una esclusione dell’Europa, in particolare delle vecchie potenze coloniali, dal continente americano ponendo gli USA a difesa delle ex colonie europee e della loro indipendenza ed esercitando un ruolo egemonico su di esse.

Non solo, la stessa connotazione degli USA quale potenza egemone a livello globale è avvenuta solo dopo l’esercizio di controllo e gestione, diretta o indiretta, dei Paesi a sud del Rio Grande. Gli Stati Uniti, infatti, hanno reso l’America Latina l’incubatrice passiva di quanto poi riproposto nel resto del mondo: globalizzazione, libero mercato, decentramento di realtà produttive poi divenute multinazionali sono alcuni dei tanti modelli che hanno visto una prima attuazione proprio in seno al subcontinente.

Per riportare un esempio, il primo a fare le spese della dottrina Monroe fu il Messico che perse circa il 55% del proprio territorio e che divenne banco di prova di una metodologia di espansione applicata poi a livello mondiale. La Repubblica messicana fu sottoposta ad una progressiva erosione della propria sovranità ad opera dei coloni statunitensi che sconfinavano e, diventati parte attiva nelle dinamiche politiche del territorio occupato, promuovevano movimenti indipendentisti che poi chiedevano l’annessione agli USA, finendo così col compromettere l’originaria estensione territoriale del Messico.

Grafico tratto da Limes.

Con il Corollario di Roosevelt furono poi le aziende americane a muoversi con sempre maggiore disinvoltura nel subcontinente, elargendo denaro alle amministrazioni in cambio di autonomia incondizionata sul territorio, con il fine ultimo di ottimizzare i guadagni di attività produttive, non reinvestendo in loco e rimpatriando i profitti (Cfr. Locatelli, N., Monroe è morto, la dottrina vige ancora, in Limes, n. 12, 2019.).

La condizione di subordinazione latino-americana, infine, fu consolidata con la diffusione di studi antropologici e la diffusione di Ong. I primi venivano finanziati con lo scopo di attestare e divulgare scientificamente l’inferiorità manifesta dei latinos rispetto ai nordamericani anglosassoni. Le seconde avevano il fine di rimodulare la società latino-americana diffondendo la consapevolezza della sua subordinazione culturale ed economica rispetto alla posizione di potenza di Washington.

A seguito della fondazione della CIA con la presidenza Eisenhower (1953-1961), colpi di stato e consulenze economiche (dal Guatemala al Paraguay fino al Cile e all’Argentina) si susseguirono poi per testare e affinare all’interno di questi Paesi modelli politici ed economici utili alla ridefinizione di un equilibrio mondiale a guida USA.

A questo si aggiunge un’importante costante storica: a rendere possibile l’adeguamento agli interessi nordamericani dei Paesi del Sud del Rio Grande contribuirono molto spesso le oligarchie locali propense alla salvaguardia del proprio status elitario e di conseguenza ad assecondare gli interessi di Washington e delle multinazionali. In questo modo, si è generata una rete clientelare capace di estromettere il grosso delle popolazioni dalla vita economico-politica, trasformando le stesse in attore passivo dell’intero sistema dominante. Clientelismo e corruzione che oggi, nonostante la storia, permangono quasi a rappresentare un fattore endemico e ben radicato nella cultura della regione (Cfr. Bavone, W., Latinoamerica, Bertoni Editore, 2020).

Fattori economici.

Molti economisti hanno affrontato la questione dell’arretratezza dell’America Latina e la risposta è pressoché univoca. L’America Latina non è stata in grado di recuperare il ritardo rispetto alle economie sviluppate e ad altre economie emergenti a causa della bassa produttività. Le politiche di spesa elevata hanno ostacolato la produttività. Incoraggiare la regione a spendere di più continuerà a trattenerla.

In America Latina, negli ultimi 60 anni gli investimenti in capitale, lavoro e istruzione sono stati molto inferiori a quelli delle economie emergenti asiatiche a più rapida crescita, ma maggiori rispetto alle economie avanzate. Tuttavia, mentre la produttività nell’Asia emergente è cresciuta a un tasso medio annuo del 2,1% (e dell’1,3% nei paesi sviluppati), per l’America Latina la cifra era pari a zero. La produttività rimane la stessa di 60 anni fa. A causa di queste differenze di produttività, il divario nel tenore di vita tra i paesi ricchi e l’America Latina è ancora maggiore di quanto non fosse un secolo fa. La povertà nella regione è notevolmente diminuita, ma il 10% più ricco guadagna 22 volte di più del 10% più povero, rispetto a solo nove volte di più nelle economie sviluppate dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). L’erosione della classe media rende più difficile l’adozione delle riforme politiche ed economiche necessarie per promuovere la crescita.

Perché la produttività non è avanzata? I governi in genere svolgono un ruolo smisurato nell’economia. L’innovazione e la creazione di nuove conoscenze, essenziali per la crescita della produttività, sono guidate dalla concorrenza. Per decenni i governi latinoamericani hanno favorito l’espansione del settore pubblico e l’aumento del numero delle imprese statali. Tali politiche, insieme alla sostituzione delle importazioni, al protezionismo e alla limitazione degli investimenti esteri, hanno impedito una sana concorrenza.

Nei mercati interni, le normative eccessive, la burocrazia, i mercati dei capitali e i sistemi finanziari carenti, nonché le rigide leggi sul lavoro che impediscono ai lavoratori di trasferirsi in aziende o settori più produttivi, hanno creato alti costi di ingresso per le nuove imprese.

Il reddito nella regione è concentrato nelle mani di poche grandi aziende che detengono un monopolio o una posizione dominante in particolari settori economici. Sono spesso in tutto o in parte di proprietà statale; molti di loro sono servizi pubblici o sfruttano risorse naturali. Queste società hanno solitamente accesso privilegiato a finanziamenti a tasso agevolato e a vari incentivi fiscali e non sono interessate a innovare o ad avere una gestione più moderna ed efficiente. Invece di competere sul mercato con beni e servizi migliori, queste imprese sfruttano il loro potere economico cercando rendite, applicando prezzi ben al di sopra dei costi e approfittando della mancanza di concorrenza. Tali società di solito hanno uno stretto rapporto con la classe politica influenzando i meccanismi di ricambio.

Altre aziende latinoamericane sono per lo più piccole. Pochissimi hanno più di 50 dipendenti. Gran parte del mercato del lavoro è costituito da liberi professionisti o microimprenditori individuali. Quasi la metà della forza lavoro ha un lavoro informale, senza rete di sicurezza e con scarso accesso ai finanziamenti. Solo il 40% delle persone in America Latina ha un conto bancario, rispetto a oltre il 90% nell’OCSE.

Il risultato è una mancanza di economie di scala e di scopo. Non vi è alcun incentivo a innovare e applicare nuove tecnologie o learning by doing, cosa normale per le grandi aziende competitive. La maggior parte delle micro e piccole imprese ha una produttività molto bassa e non è integrata nel commercio internazionale e nelle catene del valore globali.

Come risultato di tutte queste dinamiche, le grandi economie della regione come Brasile, Argentina, Cile e, in una certa misura, Messico, stanno attraversando un processo che gli economisti chiamano “deindustrializzazione prematura” mentre aumentano la dipendenza da materie prime, l’esplorazione di risorse naturali e servizi a bassa produttività. Questa tendenza, a sua volta, sta portando a cicli boom-bust di crescita economica e volatilità fiscale causata dalla dipendenza dalle materie prime. I paesi producono meno, ma la spesa pubblica aumenta, portando a un debito pubblico insostenibile. Anche durante le fasi del boom, i governi non sono stati in grado di ridurre il debito pubblico e spendere in modo più razionale (Cfr. Palermo, T.L., Examining Latin America’s ‘puzzle’ of low growth, in GIS Report, 02.12.2020).

Senza riforme e con la spesa pubblica in aumento, i paesi dell’America Latina rimarranno poveri.

Fattori culturali.

Tuttavia, vi è un altro aspetto poco considerato che ha determinato le attuali condizioni dell’America Latina. Ancora nel 1850, la differenza tra il reddito pro capite dell’America latina e quello del Nord America non era grande. La maggior parte delle tecnologie che il mondo conosce ora non era stata inventata e l’economia dell’Europa occidentale era più forte di quella di entrambi i continenti del Nuovo Mondo, i quali dipendevano da essa per la maggior parte delle loro produzioni. Tuttavia, per certi aspetti, alcune regioni di entrambi i continenti godevano di un tenore di vita più elevato dell’Italia meridionale, di parti della Spagna e del Portogallo.

Secondo il filosofo americano Michael Novak, il motivo fondamentale per cui dal 1850 in poi le strade tra Nord e Sud America si dividono va rintracciata in una diversa visione del mondo dovuta all’affermarsi nel Nord del mondo del protestantesimo che contrastava, soprattutto nel continente americano, con una teologia cattolica derivante dalla dominazione spagnola e rimasta al suo stato premoderno. Secondo Novak, le due culture vedono il mondo in modo molto diverso: l’etica aristocratica cattolica dell’America Latina pone maggiormente l’accento sulla fortuna, l’eroismo, lo status rispetto all’etica protestante del Nord America, che valorizza la diligenza, la regolarità e l’ambizione a cogliere le opportunità (Cfr. Novak, M., Why Latin America is poor, in The Atlantic, 1982).

TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE E GREAT RESET
Pochi sanno che la Teologia della Liberazione è alla radice del “Nuovo Cristianesimo” di Klaus Shwab, il quale incontrò Dom Helder Câmara negli anni ’70.
Nel libro di memorie “The World Economic Forum: A Partner in Shaping History – The First 40 Years 1971-2010” Schwab ricorda che era Henry Kissinger a selezionare i relatori e gli ospiti per gli incontri d’affari dell’élite globalista riunita a Davos. Nel 1974 alla conferenza europea del gruppo, che è oggi il WEF, partecipò anche Dom Helder Câmara. In tale sede il vescovo latino-americano portò la critica della teologia della liberazione agli assetti di potere disegnati dall’élite mondiale, presentandosi come «il portavoce di quei due terzi dell’umanità che soffrono per l’ingiusta distribuzione delle risorse della natura». Questa denuncia ebbe un effetto dirompente, sostiene Schwab, sull’élite.
Per capire l’ascendente di Helder Câmara sull’élite di Davos bisogna tener conto anche del concetto di “Capitalismo  degli Stakeholders” propugnato dal WEF e  le proposte a base di economia inclusiva e superamento della proprietà privata, lotta alla fame ed alla povertà e di rispetto dell’ambiente.  

Punto importante è che qui si afferma una particolare forma di teologia negli anni Sessanta dopo il Concilio Vaticano II: la Teologia della Liberazione, elaborata dal vescovo brasiliano Dom Helder Pessoa Câmara, assieme agli ex teologi francescani Leonardo Boff e Gustavo Gutierrez. Câmara fu tra i primi ad introdurre la formula per la quale “Dio ama preferenzialmente i poveri” ma fraintendendone il senso in chiave politico-sociologica. Dietro tale, in apparenza nobile, formula teologica, si cela il paradigma ideologico per il quale la povertà è una condizione esclusivamente sociale. In realtà, la Tradizione cristiana non ha mai inteso la povertà come una condizione spirituale meritoria in senso sociologico: Dio ama l’umiltà più che la povertà in sé e quest’ultima, la povertà intesa come rinuncia ai beni terreni, aiuta ad essere umili quando è volontaria. D’altro canto, la povertà può essere anche “di spirito”, ossia umiltà pur nella ricchezza, ed essere lo stesso gradita a Dio.  Nulla o poco c’entra l’aspetto sociale della questione, che può venire in auge solo come un momento subordinato a quello spirituale, il quale è e resta quello principale. Cristianamente l’aspetto sociale della povertà, della rinuncia, non deve essere negato ma soltanto messo al suo giusto posto che è secondario e derivato, nel senso che è solo una conseguenza della scelta cristiana sacramentalmente vissuta (Cfr. Copertino, L., Cristianesimo, proprietà e Great Reset, ed. Radio Spada, 2022). Fedeli alla loro impostazione, i teologi della liberazione ritengono che, appunto, la liberazione decisiva per l’America Latina passi per il socialismo: la liberazione dalla proprietà privata.

Da tutto ciò possiamo trarre dei parallelismi con l’Europa?

Seguendo più o meno lo stesso ordine di fattori, individuiamo alcune caratteristiche che possono far temere che il ventilato processo di sudamericanizzazione possa inverarsi soprattutto nel sud Europa.

Fattori geopolitici.

Il dato a nostro avviso rilevante è il cambio di prospettiva che la potenza egemone ha sul Vecchio Continente con la fine della Guerra Fredda.

L’impressione è che l’Europa abbia perso importanza con lo spostamento verso oriente nelle dinamiche strategiche. In realtà, nella grande partita per il dominio mondiale, l’Europa rimane fondamentale, pur essendoci territori economicamente più rilevanti. Per essere il perno del pianeta, infatti, bisogna dominare l’Europa: grazie a questo gli Usa sono considerati la prima potenza del mondo pur non controllando l’Asia. Del resto, i cinesi, quando pensano di insidiare l’egemonia americana seguono due direttrici: la via del controllo degli snodi marittimi e arrivare in Europa attraverso la Via della Seta, in particolare verso la Germania. Perché sembra vi sia un disimpegno nei confronti dell’Europa? Perché il contesto è cambiato rispetto alla Guerra Fredda quando la battaglia tra i due poli USA e Urss aveva come fronte decisivo la cortina europea. Oggi, lo iato tra l’importanza del continente e l’atteggiamento americano è che il nemico principale degli USA è ad oriente, la Cina. Il dilemma statunitense, dunque, è come tenere l’Europa e, contemporaneamente, affrontare il nemico strategico.

Grafico tratto da Limes.

In quest’ottica rientra il ruolo della Russia. Se la grammatica strategica prevederebbe di non affrontare due nemici contemporaneamente ma di favorire lo scontro tra loro, è però altrettanto vero che la Russia, privata dello stigma di grande nemico e libera di penetrare economicamente e politicamente in Europa, costringerebbe l’America a dedicare ancora più attenzione al nostro continente. Nelle menti di Washington, tuttavia, l’Europa non è un blocco unico. Vi sono una Vecchia Europa, quella centro-meridionale, caratterizzata dalla riottosità a seguire le imprese militari statunitensi e a contribuire alle spese militari della Nato nonché da una diplomazia che guarda amichevolmente ad est, e una Nuova Europa, quella dei paesi centro-orientali tra i quali primeggia la Polonia, il cui nucleo è fatto da Paesi provenienti dall’ex Patto di Varsavia e bellicosamente antirussi. Poiché gli Stati Uniti hanno la necessità di frapporsi tra Mosca e Berlino e di impedire allo storico nemico della Guerra fredda di estendere la sua influenza in Europa, negli anni hanno spostato di circa 1.500 chilometri verso est il fronte dell’Alleanza Atlantica e, da alcuni anni ma in modo ancor più evidente oggi con il conflitto ucraino, la superpotenza intende delegare ai paesi centro-orientali tale opera di contenimento. Tutti segnali di una perdita di rilevanza strategica del sud Europa al pari dell’America Latina che ha, appunto, un ruolo secondario nell’agenda di Washington (Cfr. Fabbri, D., La fatale storicità della Nuova Europa, in Limes n. 12, 2017).

Fattori economici.

Nell’ottica sopra descritta, la bassa produttività, indicata tra le principali cause del lento sviluppo latino-americano, è tra le più probabili conseguenze della crisi energetica conseguente al processo di decoupling energetico tra Ue e Federazione russa. Questo processo sta mettendo in crisi la gran parte delle grandi imprese manifatturiere forzandole alla sospensione della produzione per spostarla altrove nel mondo. La crisi ucraina, con il combinato disposto di diffusione di panico ed esasperazione degli attriti internazionali, si configura sempre di più come causa di una fuga di capitali dal Vecchio Continente verso porti più sicuri. Ad esempio, la tedesca Basf, la principale società chimica al mondo, qualche settimana fa ha dichiarato che ridurrà permanentemente la propria base produttiva in Europa. La capacità produttiva che lascia l’Europa viene portata nei Paesi che hanno bassi costi energetici, tra cui gli Stati Uniti. Le decisioni delle imprese che chiudono stabilimenti per gli alti costi energetici hanno conseguenze di medio lungo termine e hanno appena cominciato ad avere impatti sull’economia.

«Non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo Gnl a un prezzo quattro volte superiore a quello al quale vende agli industriali americani», ha dichiarato i 12 ottobre il Ministro francese, Bruno Le Maire. «La guerra in Ucraina – ha aggiunto – non deve sfociare in una dominazione economica americana e a un indebolimento dell’Unione europea». Di fronte alle conseguenze della guerra in Ucraina, alle tensioni con la Russia, e agli scioperi nelle raffinerie francesi, Le Maire ha spiegato che «un indebolimento economico dell’Europa non è nell’interesse degli Stati Uniti e per questo dobbiamo trovare rapporti economici più equilibrati tra i nostri alleati americani e il continente europeo».  È notizia di questi giorni che il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, dopo aver dato via libera all’acquisizione di una quota del 24,9% nel porto di Amburgo da parte del gigante dello shipping cinese, Cosco, si sta muovendo per arginare questo pericolo disallineandosi alle direttive strategiche anticinesi degli USA e annuncia la sua visita a Pechino con al seguito una delegazione di imprenditori di alto profilo che vede rappresentanti di aziende quali Adidas e Volkswagen.

Tuttavia, se nelle crisi precedenti, sia nel 2008 che nel 2014, l’economia americana aveva poi trainato anche l’Europa nella ripresa, questo non sarà possibile che si ripeta senza che venga trovata in breve tempo una soluzione al problema dell’energia a basso costo. Altrimenti è probabile si realizzi qual mutamento di paradigma per cui il Vecchio Continente rischia di assumere progressivamente le caratteristiche dei Paesi in via di sviluppo nei confronti del dollaro e degli Usa.

A questi problemi, si potrebbero aggiungere l’aumento della polarizzazione e l’instabilità politica data dalle inevitabili tensioni sociali conseguenti allo smantellamento del sistema di produzione capitalistica fondata sul salariato di massa, che aveva anestetizzato il conflitto di classe con la creazione dello Stato sociale, e alla proletarizzazione del ceto medio. La crisi energetica in corso se da un lato porterà all’insostenibilità di una serie di produzioni industriali, dall’altro, gli Stati, già fortemente indebitati, si troveranno sempre più in difficoltà nel finanziare la spesa pubblica sociale.

In quest’ottica va letta anche la crisi dei sistemi politici, sempre meno democratici (si parla di postdemocrazia) e sempre più inclini a sperimentare e attuare politiche di controllo sociale apparentemente innocue, ad esempio, senza scomodare quanto successo con la pandemia, quella del sistema di ingresso a Venezia mediante QR Code. Come osserva il sociologo britannico Colin Crouch, siamo in una fase postdemocratica in quanto per colpa delle continue emergenze ma anche delle nuove tecnologie e dei social, non vi è più partecipazione al governo della cosa pubblica, ma si afferma sempre di più un’oligarchia autoreferenziale più interessata a creare legami economici e a conservare la propria posizione elitaria che a sviluppare programmi per il rilancio della politica (Cfr. Crouch, C., Combattere la postdemocrazia, Ed. Laterza, 2020).

Chiudiamo questo scritto suggerendo la lettura di Manodopera, romanzo della scrittrice cilena Diamela Eltit che racconta l’inquietudine dell’uomo moderno, imbrigliato nelle maglie del sistema capitalistico. Diviso in due parti, perno del libro è il non-luogo del supermercato in cui si muovono i protagonisti dei due racconti in cui si compone e tra le cui corsie emerge il feticismo delle merci, il controllo sui corpi, gli effetti inesorabili di un mondo dove tutto si vende e si compra. È anche l’occasione per descrivere le logiche ciniche della sopravvivenza, dove ciò che conta è il contratto di lavoro e l’occhio implacabile del supervisore. Nonostante la loro rabbia nei confronti del sistema-supermercato, tuttavia, i personaggi non appaiono mai fuori dalla sua logica, ma ne sono anzi inglobati e spersonalizzati. Con questo romanzo la Eltit racconta anche una disfatta storica, quella di un paese, il Cile, che passa dall’essere la speranza dei lavoratori con Salvador Allende a diventare il paese più liberista dell’America Latina.

Lugano, 06/11/2022

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