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2023 BABEL’S CHRONICLES

(foto: High Rise – La rivolta, film 2015)

«Gli americani ci accerchiano. Hanno truppe in Giappone, Corea del Sud, Guam, Singapore e Australia. Inoltre, le Filippine e il Vietnam sono amici degli Stati Uniti. Gli americani fecero la stessa cosa con l’Unione Sovietica: la chiamarono “contenimento”. E alla fine la Rivoluzione russa è stata strangolata. Dobbiamo evitare il destino dei sovietici, ma non lo faremo all’ONU. Prima o poi dovremo rompere l’anello.» (Ken Follet, Per niente al mondo)

Stati Uniti, Cina, Russia e, in una certa misura, Europa sono generalmente ritenuti i quattro principali attori geopolitici del mondo. Stati Uniti ed Europa sono i difensori del cosiddetto “ordine mondiale liberale”, gli altri due sono visti come contestatori di quest’ordine. L’attuale leadership dem americana a vocazione idealista interpreta questa situazione come un conflitto tra democrazie e autocrazie. Tuttavia, il quadro non è di così semplice interpretazione, soprattutto in relazione ai diversi teatri e ai molteplici attori coinvolti in tale scontro. In questo scritto, dunque, cerchiamo di dar conto di quali possono essere alcune cleavages (linee di faglia)[1] attorno alle quali nei prossimi mesi potrebbero esserci delle accelerazioni nella contestazione dei rapporti di forza tra gli attori internazionali e nella transizione verso quel nuovo ordine multipolare che ormai è entrato a pieno titolo nel linguaggio comune del dibattito pubblico come realtà in formazione. La cartina di Limes rappresenta in modo evidente il mondo in base alle due categorie di ordine e caos[2].

Cartina realizzata da Limes

Il mondo dell’ordine… in transizione

È il mondo comprendente buona parte dell’emisfero settentrionale più l’Oceania e parte dell’America del Sud: configuratosi all’indomani della Seconda Guerra mondiale, è caratterizzato dall’assenza di conflitti e di fonti di instabilità. Questo modello di ordine mondiale ha subito una serie di mutamenti dal dopoguerra ad oggi. Infatti, per gran parte del periodo della Guerra Fredda (1945-1989), era un ordine bipolare, diviso nel blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti e nel campo comunista guidato dall’Unione Sovietica. Già da allora, questo sistema era accompagnato da importanti tendenze multidirezionali: il Movimento dei Non Allineati rappresentava “la terza via”; La Francia gollista seguiva spesso una linea indipendente; in seguito, con la spaccatura sino-sovietica, la Cina di Mao funzionò sia come partner che come concorrente dell’URSS, specialmente dopo che la squadra Nixon-Kissinger eseguì abilmente una grande apertura degli Stati Uniti verso Pechino nel 1971.

NAM: Non-Aligned Moviment
Il NAM viene fondato nel 1955 alla Conferenza di Bandung, in Indonesia, su iniziativa Tito, Nehru e Nasser e riunisce gli Stati che non vogliono schierarsi con le due superpotenze della guerra fredda (Stati Uniti d’America e Unione Sovietica). Membri principali sono quindi la Jugoslavia, l’India, l’Egitto. Il primo vertice si tenne a Belgrado nel 1961, con la partecipazione di 24 membri che dichiararono la loro opposizione a colonialismo, imperialismo, e neocolonialismo. Oggi raccoglie 120 Stati, la sua presidenza cambia ogni tre anni e, attualmente, è detenuta dall’Azerbaigian.

Questo sistema finisce certamente per il crollo dell’Unione Sovietica, ma una ragione determinante è anche l’aumento esponenziale della popolazione: il mondo a cogestione bipolare poteva funzionare per i due miliardi post-guerra mondiale non per il doppio raggiunto a fine anni ‘80, tantomeno per gli otto miliardi attuali. Gli anni ‘90 hanno visto gli Stati Uniti vivere il loro “momento unipolare” con il dilagare dell’ideologia liberaldemocratica e dell’american way of life senza il contrappunto di un’ideologia o di un modello che si ponesse quale alternativa, il che faceva dire a Francis Fukuyama che la storia era finita[3]. Tuttavia, a finire è stato il momento della contrapposizione ideologica non la storia[4]. La complessità del mondo se si è rivelata irriducibile a due poli lo è ancor meno ad un uno solo. In assenza di alternative, il paradigma della nuova realtà è la narrazione identitaria: si ridefiniscono i confini propri e altrui alla ricerca dell’identità perduta e di un riconoscimento di status. Oggi l’ordine mondiale è composto da due poli dominanti, Stati Uniti e Cina, e diversi attori di media e piccola dimensione come Russia, UE, Giappone, India e altri. Gli stessi principi economici promossi dall’Occidente (vale a dire la globalizzazione e il libero mercato) hanno contribuito a rafforzare i paesi che hanno messo in discussione l’ordine occidentale guidato dall’unipotenza, prima economicamente, poi militarmente. La maggior parte di loro, in un modo o nell’altro, sta esprimendo l’opinione che il quadro guidato dall’Occidente debba essere sfidato e che dovrebbero avere un posto al tavolo delle maggiori potenze. La crisi finanziaria del 2008-2009, l’ascesa della Cina con l’emergere della leadership di Xi Jinping, unita al consolidamento delle potenze eurasiatiche sotto il forum Russia-India-Cina (RIC) e delle economie emergenti sotto i BRICS come piattaforma che rappresenta le nuove forze della cooperazione sud-sud, ha evidenziato la tendenza verso un nuovo mondo caratterizzato da una multipolarità complessa.

Nel 2023, queste nazioni, più altre come l’Arabia Saudita, la Turchia, la Russia e, in misura minore, gli Emirati Arabi Uniti, proseguiranno nella sfida all’ordine mondiale esistente nel perseguire i propri interessi. Utilizzeranno le loro forze economiche e militari tangibili mentre cercano un ruolo maggiore negli affari globali.

Caoslandia

Caoslandia è il resto, cioè quel groviglio di paesi caratterizzato da instabilità, dittature, guerre, tensioni, povertà. Insomma, quasi tutta l’Africa, il Medio Oriente fino al subcontinente indiano, il Sudest asiatico e il Centro America che scende fino al Paraguay: le aree che qualche anno fa avremmo chiamato Secondo e Terzo Mondo.

Le sfide incombenti che ci riguardano più da vicino sono quelle che attraversano l’area del Mediterraneo e l’Africa e qui ci concentriamo per cogliere rapidamente alcuni degli elementi che aggiungono complessità in queste zone spesso contese e teatro di scontri tra i principali attori globali in lotta tra loro.

Il Medio Oriente martoriato

Non possiamo non partire dal terremoto che ha squassato Turchia e Siria e che rischia di essere destabilizzante anche sul piano politico in una regione già politicamente fragile. Il cataclisma che ha colpito violentemente i due Paesi aggiunge altra benzina al fuoco acceso dagli strascichi della pandemia, dalla guerra in Ucraina e dal rincaro dei generi di prima necessità[5].

In Turchia, il terremoto è arrivato nel pieno della campagna elettorale: il 14 maggio si terranno sia le elezioni presidenziali che le parlamentari. Un test cruciale per la leadership di Recep Tayyip Erdogan, la cui rielezioni non è affatto scontata dopo che il suo partito ha perso terreno in città importanti, tra cui Istanbul, nelle amministrative del 2019. C’è anche il rischio che le conseguenze devastanti del terremoto, vengano utilizzate per manipolazioni politiche e operazioni informative, sia interne che esterne. Poche ore dopo la tragedia, i canali Telegram e i think tank russi hanno pubblicato messaggi che esortano il presidente turco a cogliere l’occasione per rinnovare i colloqui diretti con il siriano Bashar al-Assad, sostenendo che questo sarebbe un buon momento per un coordinamento turco-russo. È seguita una conversazione telefonica tra Erdogan e il presidente russo Vladimir Putin. Allo stesso tempo, c’è un numero crescente di post sui social media che condividono teorie del complotto sulla possibile origine “umana” della catastrofe, possibile grazie a tecniche messe a punto in ambito militare come il discusso sistema Haarp[6], presumibilmente volta a indebolire la Turchia dopo le crescenti tensioni con i suoi alleati occidentali e, come rileva Yevgeniya Gaber, senior fellow presso l’Atlantic Council, questi tentativi di influenzare la percezione pubblica della tragedia dovrebbero essere presi sul serio[7].

Turkey Inflation Rate

La risposta che il governo saprà dare alle immediate emergenze sarà la chiave di volta per comprendere le prossime dinamiche elettorali. Il rischio molto forte per Erdogan è che un Paese già sotto pressione economica, non ancora uscito dalla crisi post pandemia e con un’inflazione arrivata a circa l’83% su base annua, possa non avere tutte le risorse occorrenti per reggere l’impatto del terremoto.

Anche se l’epicentro è stato in Turchia, il sisma potrebbe aver prodotto le peggiori conseguenze nel nord della Siria. Gli effetti del terremoto costituiranno un freno significativo alla crescita economica nel breve termine, ritardando ulteriormente gli sforzi di ricostruzione post-guerra civile nella Siria nordoccidentale e aggravando le attuali pressioni valutarie e inflazionistiche. Il terremoto ha avuto un effetto devastante sui governatorati siriani di Idlib, Aleppo, Hama e Latakia infliggendo ulteriori danni alle infrastrutture di base già martoriate da 12 anni di conflitto. Il ritmo della ricostruzione nelle aree colpite sarà lento e incoerente e le roccaforti del governo come Latakia avranno probabilmente la priorità rispetto alle regioni più irrequiete, date le limitate capacità del governo sottoposto a severe sanzioni internazionali.

I rischi umanitari della penuria di cibo e carburante rischiano di essere esacerbati dalla divisione dell’autorità politica tra le province colpite dal terremoto. L’aggravarsi della situazione potrebbe rivelarsi il detonatore di ulteriori tensioni capaci di far ripartire con maggiore violenza il conflitto. Una Turchia indebolita o una Siria ancora più instabile sono elementi in grado di rendere ancora più precario l’intero mosaico mediorientale.

Iran e le tensioni interne/esterne

Dalla morte della giovane Mahsa Amini, che ha perso la vita in circostanze poco chiare dopo essere stata arrestata dalla “polizia morale” iraniana, l’Iran ha dovuto affrontare enormi disordini interni. Le proteste iraniane hanno spinto l’Occidente a riconsiderare la possibilità di raggiungere un nuovo accordo sul nucleare con Teheran[8]. Inoltre, i paesi europei potrebbero imporre nuove sanzioni contro la Repubblica islamica dell’Iran, il che aumenterebbe i problemi socioeconomici e potrebbe alimentare la rivolta popolare. Di conseguenza, Teheran potrebbe rafforzare la sua strategia di “regionalismo” e cercare una cooperazione più ampia con i paesi asiatici, in particolare la Federazione Russa e la Cina.

Di fronte al conflitto ucraino e alle sanzioni occidentali contro Mosca, la Federazione Russa ha intensificato la cooperazione con l’Iran che si potrebbe estendere oltre nel Medio Oriente e nel Caucaso anche in altre aree strategiche. Di conseguenza, l’approccio occidentale nei confronti dell’Iran potrebbe peggiorare a causa della vicinanza strategica di Teheran-Mosca.

In tal senso, il presunto attacco israeliano contro l’installazione militare iraniana a Isfahan può essere visto come un richiamo agli Stati Uniti per un maggior impegno nella gestione del rivale iraniano, finora basato essenzialmente sul contenimento della sua espansione in Siria ed in Libano, ma senza particolari pressioni. Sebbene la Casa Bianca non abbia formalmente abbandonato le speranze di ristrutturare e rientrare nell’accordo sul nucleare del 2015, non ci sono segnali che Washington abbia un piano di riserva: le politiche della presidenza Biden sembrano essere in gran parte concentrate sul disimpegno dal Medio Oriente.

Tuttavia, secondo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in un’intervista alla CNN del 31 gennaio, la strategia di contenimento Usa non è sufficiente e ha dichiarato che la minaccia della forza potrebbe essere l’unico fattore in grado di fermare il programma nucleare iraniano[9].

L’Africa tra Russia, Cina e Turchia

GRUPPO WAGNER
Il gruppo Wagner è una compagnia militare che di fatto non esiste, perché dal 2018 in Russia i mercenari non sono ammessi. Negli anni Novanta i colossi energetici russi, privatizzati a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, iniziarono a dotarsi di propri corpi di sicurezza. Uno dei primi fu il Moran Security Group da cui si staccò poi la divisione Slavonic Corps, che reclutava direttamente personale da inviare in zone di guerra per combattere a difesa degli interessi dei governi locali, così da avere qualcosa in cambio. Quando la Slavonic Corps venne smantellata, uno dei suoi uomini, l’ex colonnello del servizio di intelligence della Federazione Russa Dmitry Valeryevich Utkin, creò una nuova compagine militare privata, il gruppo Wagner appunto. Se la guida operativa sin dall’inizio è stata quella di Utkin, a finanziare la macchina in termini economici è Yevgeny Prigozhin, magnate della ristorazione russa e chiamato “lo chef di Putin”. Oggi il gruppo Wagner è composto da un numero di combattenti che potrebbe arrivare fino a cinquantamila uomini.

Russia. Nell’ultimo decennio, Mosca ha cercato di affermarsi come una superpotenza, che compete nella stessa arena di Stati Uniti e Cina. In questo sforzo, il Gruppo Wagner è diventato uno strumento cruciale e la Russia fa sempre più affidamento sull’organizzazione paramilitare per prendere piede negli stati africani ricchi di risorse ma instabili.

La Russia vede l’Africa come un vettore sempre più importante della sua politica estera post-occidentale. Durante la guerra fredda, Mosca si era adoperata per supportare i movimenti di liberazione e diffondere il comunismo nei nuovi paesi indipendenti dell’Africa. Tuttavia, con il crollo dell’Unione Sovietica, la sua influenza sul continente è diminuita fino al 2006, quando il presidente Vladimir Putin ha deciso di rafforzare la presenza della Russia nella regione. Tra il 2015 e il 2019 Mosca ha firmato 19 accordi di cooperazione tecnica e militare con Stati africani. Questi includevano la vendita di armi, ma per lo più comprendevano servizi di consulenza e addestramento contro l’insurrezione e l’antiterrorismo.

Mappa di spartizione Turco-Russa delle Libie realizzata da Limes

Negli ultimi anni, il Gruppo Wagner è stato molto attivo in Africa attraverso rapporti transazionali. La società M-Invest di Prigozhin ha ricevuto i diritti esclusivi per l’estrazione dell’oro in Sudan. L’accordo è stato raggiunto subito dopo un incontro tra il presidente Putin e il presidente sudanese Omar al-Bashir che, prima di essere rovesciato nel 2018, aveva offerto alla marina russa una base militare sul Mar Rosso. Quello stesso inverno, il Gruppo Wagner, che aveva già 500 uomini sul campo, represse numerose rivolte locali.

Le unità del gruppo Wagner sono apparse poi in Libia nell’aprile 2019, sostenendo Khalifa Haftar. La Libia interessa alla Russia non solo per le sue risorse naturali, ma soprattutto per il suo accesso strategico al Mediterraneo. Il controllo anche di un solo porto libico potrebbe essere decisivo per il Cremlino, che al momento ha un solo punto di accesso diretto al Mediterraneo, attraverso il porto siriano di Tartus.

Gran parte della letteratura esistente sulla politica estera russa sottolinea che il desiderio di Mosca di riconquistare lo status di grande potenza è stato perseguito in gran parte sfruttando le opportunità negli stati deboli e fragili dell’Africa e ponendosi come potenza non egemone in lotta contro l’Occidente decadente.

Il rapporto ha anche evidenziato la miriade di sfide socioeconomiche e politiche che affliggono un certo numero di paesi africani. Si sostiene che l’adesione a un approccio principalmente militare alle sfide dell’insicurezza sia inadeguata ai problemi di questi paesi. Inoltre, appare improbabile che Mosca impegni risorse finanziarie da investire in settori economici, viste le severe sanzioni imposte a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. L’impatto delle sanzioni e il costo della guerra sull’economia russa probabilmente vedranno Mosca reindirizzare la sua attenzione pratica verso la garanzia della stabilità all’interno dei suoi confini e nel suo estero vicino.

Mappa dell’avanzata cinese nel territorio africano realizzata da Corriere della Sera

Nonostante il suo obiettivo di lavorare in questo nuovo mondo multipolare emergente con l’Africa, l’influenza della Russia è ancora relativamente marginale e i suoi strumenti politici sono estremamente limitati rispetto ad altri attori internazionali, tra cui la Cina [10].

Cina. L’Africa è stata cruciale per la politica estera della Cina dalla fine della guerra civile cinese nel 1947[11]. Il nuovo ministro degli esteri cinese Qin Gang ha visitato cinque paesi africani e l’Unione africana nel gennaio 2023. Wang Yi, l’ex ministro degli esteri, ha visitato 48 paesi africani e il premier Xi Jinping ha effettuato 10 visite in Africa tra il 2014 e il 2020. Risultato di questa intensa attività diplomatica è che lo Swaziland è l’unica nazione africana ancora a riconoscere il governo di Taiwan nel 2023.

Nel 1999 la Cina ha creato la sua strategia incoraggiando le aziende cinesi a investire al di fuori della Cina. Tale strategia era una dichiarazione della crescente potenza economica della Cina e ha creato una nuova ondata di impegno cinese in Africa. Era anche un’importante fonte di occupazione per i cittadini cinesi che lavoravano su nuovi progetti infrastrutturali.

La BRI ha visto un numero enorme di progetti infrastrutturali distintivi costruiti in Asia e in Africa, finanziati da prestiti cinesi le cui dimensioni, natura e origine erano spesso poco chiare. Alcuni paesi africani sono stati gravemente esposti ai prestiti cinesi durante questo periodo.

Gli investimenti cinesi hanno raggiunto il picco intorno al 2016. Da allora, i prestiti cinesi ai governi africani sono diminuiti in modo significativo, passando da 28,4 miliardi di dollari nel 2016 a 1,9 miliardi di dollari nel 2020, in parte a causa del cambiamento delle priorità nella politica interna cinese e in parte a causa dell’apparente difficoltà che i paesi africani hanno incontrato per rimborsare prestiti.

I commentatori statunitensi spesso descrivono la politica cinese in Africa come una “trappola del debito”, parte di una strategia deliberata per prestare somme ingestibili ai paesi africani, attirarli nella sfera di influenza della Cina e imporre loro impegni sleali.

Alcune nazioni africane hanno ingenti prestiti cinesi e soffrono di un debito fuori controllo, esacerbato dalla pandemia di COVID-19, dall’invasione dell’Ucraina e da alti tassi di interesse. Ma la loro situazione non può essere interamente attribuita ai prestiti cinesi.

Sebbene, dunque, tradizionalmente l’attività della Cina in Africa sia finalizzata all’risorse naturali (energetiche e minerarie) in cambio di investimenti infrastrutturali (palazzi, binari, porti, cavi in fibra ottica eccetera) e accesso delle proprie esportazioni ai mercati locali, un altro obiettivo è estendere la presenza militare. Per quanto riguarda gli aspetti strategici, la Cina pone una significativa attenzione ai paesi intorno al Corno d’Africa e al Golfo di Aden, incluso Gibuti, dove ha aperto la sua prima e unica struttura militare al di fuori della Cina. Questa scelta ha ricevuto commenti significativi, poiché sarà a sole 6 miglia da una base militare statunitense nello stesso paese. La Repubblica Popolare vuole creare una base simile anche sulla costa occidentale africana, così da poter osservare più facilmente le operazioni della Nato a cavallo dello Stretto di Gibilterra, acquisire dimestichezza con l’Oceano Atlantico e guardare con la coda dell’occhio la sponda orientale degli Stati Uniti.

Turchia. Ankara sa anche che il continente è diventato un palcoscenico vitale per la competizione tra potenze globali e regionali, e ritiene fondamentale assicurarsi una posizione di vantaggio nella corsa alle opportunità sul fronte economico e della sicurezza.

Non potendo competere con la Cina sul piano degli investimenti, la strategia della Turchia per l’Africa è basata soprattutto sul rafforzamento degli obiettivi interni di rinascita imperiale mediante la penetrazione culturale con l’istituzione di scuole e favorendo il completamento del percorso di studi dei giovani africani in Turchia. L’intento è, da un lato, favorire l’inserimento negli apparati statali dei giovani africani turchizzati, dall’altro, formare giovani facilmente assimilabili mediante politiche di immigrazione che sopperiscano al crollo della natalità: tra il 2001 e il 2021, infatti, il tasso di fertilità delle donne turche è calato da 2,38 a 1,70[12].

Tra i tanti paesi africani in cui la Turchia sta aumentando la sua influenza, Etiopia, Libia e Somalia sono i più cruciali dal punto di vista strategico.

Come la Russia, la Turchia vede l’Africa come un cliente chiave per la sua industria delle armi. Ankara ha firmato una serie di accordi per rafforzare i suoi produttori di armi e diventare autosufficiente nel settore entro il 2023, centenario della Repubblica di Turchia[13].

Aumento dell’influenza turca in Africa realizzata da Anadolu Agency

Dal punto di vista geopolitico, tre paesi sono particolarmente rilevanti nelle ambizioni africane di Ankara:

  • la prima è la Somalia, che offre una porta d’accesso all’Oceano Indiano e un accesso strategico al Mar Rosso e al Golfo di Aden. Insieme a Gibuti, la Somalia è un punto chiave per la competizione tra gli stati arabi. Nel 2017 Ankara ha aperto una base militare a Mogadiscio, TURKSOM Camp, che comprende anche un centro di addestramento militare.
  • La Libia svolge un ruolo fondamentale a causa delle ambizioni di Ankara sulle rotte e le risorse contese nel Mediterraneo orientale, nonché delle sue rivalità con altre potenze. A seguito di un accordo tra la Turchia e il governo di Tripoli sostenuto dalle Nazioni Unite, le forze turche hanno fornito addestramento e supporto alle forze armate libiche. I rivali della Turchia (Emirati Arabi Uniti, Egitto e Francia) avevano tutti sostenuto, implicitamente o esplicitamente, il governo libico concorrente con sede a Tobruk di Khalifa Haftar. Il ruolo di primo piano di Ankara in Libia è stato accompagnato dall’intensificarsi della cooperazione militare ed economica con la Tunisia e l’Algeria, quest’ultima ora il secondo partner commerciale della Turchia nel continente.
  • In Etiopia la Turchia è il secondo principale investitore dopo la Cina. Oltre alla sua posizione strategica nel Corno d’Africa, l’Etiopia è anche una porta per l’Africa orientale, dove la Turchia ha aumentato la sua attività economica, in particolare attraverso importanti investimenti in Ruanda nei settori dell’energia, della sanità e delle costruzioni.

In chiusura, come sempre, un romanzo che grazie alle distorsioni rispetto al reale corso degli eventi operate dalla fantasia letteraria ci aiuti a capire il presente. Il tema centrale di Per niente al mondo è la possibilità infinita di una catastrofe nucleare. In una breve prefazione, Follett osserva che l’ispirazione è venuta dalla sua ricerca sulle origini della prima guerra mondiale per La caduta dei giganti, il primo volume della sua Century Trilogy . Quel conflitto devastante era, secondo Follett, “una guerra che nessuno voleva”. Eppur è successo, comunque, risultato di una complessa serie di trattati, alleanze internazionali e decisioni miopi che avrebbero rimodellato il mondo e alterato la natura della guerra moderna. In Per niente al mondo, Follett ipotizza uno scenario simile, reso infinitamente più pericoloso dalla proliferazione mondiale delle armi nucleari. Il ritratto che ne risulta di un mondo che inciampa verso l’impensabile è credibilmente dettagliato e plausibile in modo allarmante.

Approfondimento a cura di Gilberto Moretti

Lugano, 12/02/2023


[1] Cfr., Lipset, S., Rokkan, S., Cleavage structures, party systems and voter alignments: an introduction, New York, 1967.

[2] Cfr. Canali, L., Caoslandia: le guerre nel mondo, in Limes n. 4/18.

[3] Cfr. Fukuyama, F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Utet, 2020 (l’edizione originale è del 1992).

[4] Cfr. Caracciolo, L., Il secolo lungo, in Limes 10/2022.

[5] Cfr. Indelicato, M., Il terremoto che rischia di cambiare il Medio Oriente, in Inside Over, 06.02.2023.

[6] Cfr. Mini, F., Owning the weather: la guerra ambientale globale è già cominciata, in Limes n. 6/2007.

[7] Cfr. Aa.Vv., Experts react: How the world should respond to the devastating earthquake in Turkey, in Atlantic Council, 06.02.2023.

[8] Cfr. Moretti, G., Atomic cocktail, in Brightside-capital.com, 20.03.2022.

[9] Cfr. Trombetta, L., Israele voleva richiamare l’attenzione degli Usa e c’è riuscito, in Limes online, 01.02.2023.

[10] Cfr. Klomegah, K., Russia’s military diplomacy in Africa: high risk, low reward, limited Impact, in Geopolitical Monitor, 02.02.2023.

[11] Cfr. Aa.Vv., What are China’s objectives in Africa, how valid is the concept of ‘debt trap’ diplomacy, and what are China’s military ambitions in the region? in Chatam House, 18.01.202.

[12] Cfr. Santoro, D., In Africa la Turchia esporta sé stessa, in Limes n. 10/2022.

[13] Cfr. Nogueira Pinto, T., Turkey’s strategy for Africa, in GIS Report, 10.08.2021.

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