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Erdogain

(foto: da InsideOver)

«Il passato è un’interpretazione. Il futuro un’illusione. Il mondo non si muove lungo il tempo come se questo fosse una linea retta, che procede dal passato verso il futuro. IL tempo si muove attraverso di noi e dentro di noi secondo spirali infinite.»  (Le quaranta porte, Eli Shafak)

Domenica 28 maggio Recep Tayyip Erdogan è stato riconfermato Presidente della Turchia vincendo il ballottaggio contro lo sfidante, Kemal Kilicdaroglu.

Da un punto di vista geopolitico, l’importanza del voto turco è data dal confronto che ha visto vincere un fronte di tipo eurasista che guarda alla transizione verso un mondo multipolare e un altro più disponibile invece al riallineamento occidentale e atlantista, in un paese formalmente nella Nato e che, in tale organizzazione, conta il secondo esercito più potente dopo quello degli Stati Uniti.

La prima cosa che colpisce del voto turco è che a pesare non sono stati i fattori da noi ritenuti più determinanti in una competizione elettorale, come l’economia, la pace e la salute. La lira turca resta ai minimi contro il dollaro, l’inflazione è alle stelle e i prezzi schizzano in alto ogni giorno di più, il commercio risente del clima internazionale conflittuale, i soldati turchi sono impegnati in operazioni in varie regioni del Medio Oriente e del Nordafrica e, infine, il devastante terremoto che ha fatto un numero altissimo di vittime anche per l’incuria nella realizzazione dei piani edilizi. Fattori che nelle democrazie occidentali sarebbero costati la rielezione di chiunque.

L’Impero Ottomano, entrato progressivamente in crisi nel XIX secolo, si dissolse all’indomani della Prima guerra mondiale (1914-18), a cui aveva partecipato a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria.
Fu nel quadro di questa dissoluzione, sancita dal Trattato di Sèvres del 1920, che nacque la moderna Turchia. Dopo aspri scontri , in particolare con i Greci respinti dal generale Mustafa Kemal, i confini del nuovo Stato furono fissati nel 1923.Nello stesso anno fu proclamata la repubblica, di cui Mustafà Kemal divenne presidente, detto Atatürk, cioè «padre dei Turchi». A lui vengono attribuite alcune riforme radicali che hanno modificato la Storia della Turchia. Infatti, egli eliminò le imposizioni tradizionali sull’abbigliamento, laicizzò il paese, latinizzò i caratteri dell’alfabeto, favorì l’istruzione proiettando la Turchia sempre più vicina all’Europa.

Perché qui è andata diversamente?

Per meglio comprendere le ragioni e la portata di questo risultato, abbiamo intervistato Federico De Renzi, turcologo e islamista, dal 2005 al 2012 collaboratore come analista politico della rivista di geopolitica Limes, dal 2015 consulente scientifico della rivista di analisi politica in lingua inglese Mediterranean Affairs e attualmente anche responsabile dell’area Turan per il Centro Studi Eurasia Mediterranea.

In via preliminare, che Turchia è quella che si è presentata alle urne il 14 e poi il 28 maggio?

La Turchia negli ultimi vent’anni, dominati dal partito del presidente Giustizia e Sviluppo (Adalet Kalkınma Partisi, AKP), è diversa da quella degli anni di fondazione della Repubblica, e rispecchia il profilo personale del presidente Erdoğan.

Sebbene la vulgata rappresenti la Turchia come fondata sui principi del laicismo kemalista, in realtà è un paese a maggioranza musulmana sunnita che laico davvero non è mai stato. Erdoğan, che ricordiamo è un uomo del popolo, è esattamente l’espressione di questa non laicità o mancata laicità o, se preferiamo, parziale laicità.  Il suo percorso è emblematico.  Erdoğan, che in gioventù si era unito all’Unione Studentesca Nazionale Turca, un gruppo anticomunista, nel 1976 diventa capo della sezione giovanile di Beyoğlu del Partito della Salvezza Nazionale, per poi venire nominato presidente della sezione giovanile di Istanbul. Il Partito della Salvezza Nazionale (Millî Selâmet Pertisi, MSP), un partito di ispirazione islamista guidato dal suo mentore Necmettin Erbakan (1936-2011), fu poi bandito in seguito al colpo di Stato del 1980 del generale Kenan Evren.

KEMALISMO
È l’ideologia espressa dalla rivoluzione di Kemal Ataturk. Le basi del kemalismo sono le sei frecce: repubblicanesimo, lacismo, nazionalismo, secolarismo, statalismo e rivoluzione. Il kemalismo mirava a trasformare la Turchia in un paese moderno occidentale

Nel 1983, Erdoğan entra a far parte del Partito del Benessere (Refah Partisi), che accoglie i membri del disciolto Partito della Salvezza Nazionale e divenne prima presidente della sezione di Beyoğlu nel 1984 e poi di Istanbul nel 1985.

Quando inizia la sua ascesa al potere?

La sua esplosione politica si ebbe in occasione della sua elezione a sindaco di Istanbul e da allora ha continuato a fare politica attiva a livelli sempre più alti. Ha avuto vari ruoli all’interno della dirigenza turca perché era conosciuto ed ha sempre coltivato legami a livello internazionale soprattutto grazie all’appartenenza alla confraternita Naqshbandiyya, dalla quale proveniva buona parte del corpo dirigente del Partito del Benessere e dei partiti suoi predecessori. Questa è una delle confraternite sufi più diffuse nel mondo islamico, soprattutto nella sua parte orientale: in Anatolia, Siria, Iraq, India, Pakistan, Indonesia e nell’Asia Centrale la presenza dell’ordine ha sempre avuto effetti sulla formazione delle élite politiche, sull’educazione e soprattutto sulla vita spirituale di migliaia di uomini e donne. È in questo milieu socioculturale che Erdoğan ha fatto tutta la sua carriera e costruito il suo successo.

Possiamo dunque dire che, nonostante il percorso di modernizzazione e laicizzazione avviato da Mustafa Kemal Ataturk, è sopravvissuta sottotraccia una maggioritaria adesione all’Islam?

Assolutamente sì. Già negli anni ‘50 la Turchia non era più un paese nazionalista ma riponeva tutta la sua politica estera e di difesa sull’alleanza con gli Stati Uniti. Tuttavia, pian piano si è andata trasformando proprio grazie alla componente islamica, soprattutto dagli anni Settanta. Durante questi anni, infatti, l’Islam visse una sorta di riabilitazione politica perché i leader laici di centro destra percepivano la religione come un potenziale baluardo nella loro lotta ideologica contro i leader laici di centro sinistra. Un piccolo gruppo di difesa che divenne estremamente influente fu il “Cuore degli intellettuali” (Aydınlar Ocağı), un’organizzazione che, composta da un gruppo di intellettuali e professori universitari, sosteneva che la vera cultura turca era una sintesi delle tradizioni preislamiche e dell’Islam turco. Questa sintesi turco-islamica verrà incarnata da Turgut Özal (1927-1993), il quale, con il suo Partito della Madrepatria (ANAP, Anavatan Partisi) nel 1983 rappresentò l’inizio della rottura con il passato kemalista. Le elezioni ebbero una grande rilevanza perché furono le prime dopo il colpo di Stato militare del 1980 e la successiva promulgazione della Costituzione (1982), in una Turchia caratterizzata da violenti scontri interni tra forze estreme di destra e di sinistra a cui si aggiunse, tra il 1977 e il 1980, l’emergere della guerriglia nazional-comunista ad opera del PKK (Partîya Karkeren Kurdîstan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan). La vittoria di Özal, facilitata dalla sospensione di tutti i partiti di governo, e dall’arresto dei loro capi (Süleyman Demirel, Bülent Ecevit e lo stesso Erbakan) sarebbe stata decisiva per l’avvio di quel processo di trasformazione, tanto in politica interna, quanto in politica estera, in cui centrale risultò essere la progressiva riabilitazione dell’Islam sia nella sfera privata dei cittadini che in quella pubblica.

Il modo poi di porsi di Özal nei confronti della giunta militare, che lo considerò un valido argine alle derive rivoluzionarie dei movimenti socialisti o comunisti, in un certo senso legittimò il voto datogli dalla nuova classe media non legata direttamente ad Istanbul o a Smirne, ma piuttosto alle province anatoliche (Le tigri anatoliche) e, come tale, lontana dalle élite laiche kemaliste e legata alla tradizione religiosa e mistica delle confraternite sufi a cui sia Özal che Erdoğan appartenevano. Questo fu un fattore fondamentale ai fini della ripresa economica, lo aiutò a presentarsi con tratti apparentemente ambivalenti in Turchia, in cui si era usi giudicare un politico in quanto modernista laico oppure tradizionalista religioso.

Quando questa componente islamica inizia a far prevalere una politica rivolta ad est e meno all’Occidente?

La Turchia voleva davvero entrare in Europa per i rapporti storicamente profondi e le sincere aspirazioni a conseguire standard di modernità di tipo europeo e occidentale. In tal senso, la Turchia ha sempre avuto una naturale proiezione europea oltre che asiatica.

Questo è cambiato negli ultimi anni, quando Erdoğan ha cominciato a vedere che le richieste di ingresso nell’UE non venivano esaudite. Dal 2005, con l’apertura del gasdotto Blue Stream comincia a intessere relazioni sempre più amicali non solo con la Federazione Russa ma anche con gli Stati nazionali abitati da popolazioni turciche dell’Asia centrale nati dal “suicidio” dell’URSS. Questi rapporti si sono rafforzati nel corso degli anni con l’apertura di scuole e la promozione di attività culturali ed economiche.

La Turchia ha in Eurasia una presenza culturale ed economica fortissima. Da circa 15 anni ha fondato il Consiglio turco (2009), oggi Organizzazione degli Stati turchi, che rappresenta l’evoluzione dei vertici tra Paesi turcofoni avviati nel 1992 ed è uno strumento prezioso per espandere l’influenza turca e rafforzare la cooperazione in Asia centrale. Per Ankara è anche un modo per cercare alternative di politica estera, stante il fallimento del suo ingresso nell’UE, l’accerchiamento nel Mediterraneo con l’asse tra Francia, Cipro, Grecia e Israele, ma anche gli effetti economici legati alla pandemia. Esso comprende Paesi come Uzbekistan, Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan. Non solo, conta come osservatori Paesi come il Turkmenistan e l’Ungheria, (considerato paese “turco-cristiano”) coerentemente con la politica di apertura ad Oriente portata avanti da Orbán. Nel 2021, anche l’Afghanistan ha ufficialmente chiesto lo status di osservatore. È evidente che le differenze tra gli Stati partecipanti siano tante e che le motivazioni di ciascuno di essi superino la sola tradizione turca, ma siano legate a esigenze di sicurezza.

Quindi una proiezione verso l’Asia c’è sempre stata. Questa ha subito un’accelerazione repentina dal 2014, quando la Turchia ha capito che con le ostilità in Ucraina a seguito dei fatti di piazza Maidan, e poi ancora con l’escalation di violenze dovute alla guerra civile in Siria poteva giocare su più tavoli, soprattutto per quanto riguarda gli hotspot nel Mediterraneo nella gestione dei flussi di profughi da scenari di conflitto, in particolare appunto Sira e Libia, come arma di pressione nei confronti dell’Europa.

Secondo il tuo punto di vista, Erdogan scioglierà questo nodo di ambiguità spostandosi definitivamente verso la prospettiva eurasista?

Ci sono delle forze importanti in campo, soprattutto da parte dell’Occidente liberal, che mal digeriscono le ambiguità di Ankara.

Pensiamo al Turkish Democracy Project, il think tank fondato da John Bolton con il chiaro obiettivo di provocare il regime change in Turchia e che ha appoggiato la coalizione di opposizione uscita sconfitta dalle urne. Di questa associazione fa parte, peraltro, il sen. Giulio Terzi Sant’Agata, diplomatico ed ex ministro degli esteri del Governo Monti, approdato ora tra le file del partito del Premier Meloni.

Finché la Turchia stava nel seminato e faceva il mastino della Nato era tutto ok. A partire dal 2012 con guerra siriana e in seguito con la guerra in Ucraina, la Turchia ha capito dove stare. Con la riconferma di Erdogan, la Turchia andrà sempre più verso oriente.

Addirittura, quasi un anno fa, il tema dell’inutilità per Ankara di restare nella Nato ha animato il dibattito parlamentare, rendendo palese la volontà molti di staccarsi strategicamente da essa. Lo stesso Ministro degli interni Suleyman Soylu in campagna elettorale si era spinto a definire traditore chiunque mostrasse sentimenti e tendenze filoccidentali. Questi si è battuto pubblicamente contro i diritti LGBT e l’influenza culturale statunitense.

La Turchia di Erdoğan ha vinto le lezioni su questo, sull’intensificarsi del rapporto con la Shangai Cooperation Organization (SCO), che coinvolge Russia, Cina, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan, e più in generale con i paesi BRICS, forte di un appoggio popolare impermeabile alla propaganda occidentale. Tale impermeabilità è dovuta principalmente alla scarsa diffusione dell’inglese e dall’essere lo Stato turco capace di produrre autonomamente softpower, basti pensare che in buona parte del Medioriente si guardano serie tv prodotte in Turchia.

Infine, l’appoggio all’AKP al ballottaggio da parte di Sinan Oğan è emblematico di un sistema di relazioni anche personali che vanno in questa direzione. Oğan, infatti, prima di fondare il partito con cui è arrivato terzo, viene dal Partito del Movimento Nazionalista (Milliyetçi Haraket Partisi, MHP), ai più noto come Lupi Grigi, movimento noto per l’ideale del panturchismo e della difesa dell’Islam turco, ha studiato in Azerbaigian a Baku e poi a Mosca, parla russo, ha scritto libri in russo. Ha dato l’appoggio ad Erdoğan perché ha capito le tendenze in corso e, in un certo senso, ha dato un colpo definitivo alle aspirazioni atlantiste di rottura con l’Eurasia.

In questo processo di riorientamento quanto ha pesato il fallito golpe del 2016? È vero che Erdoğan è stato avvisato dai russi?

Sembrerebbe di sì. Che vi sia una componente filo turca nell’apparato del Cremlino è noto. L’attuale Ministro della difesa russo Sergej Shoigu e il portavoce del Presidente della Federazione Russa Dimitry Peskov hanno forti legami con la Turchia. Shoigu stesso parla turco e appartiene all’etnia tuvana di ceppo turco mentre Peskov ha avuto incarichi diplomatici ad Ankara. Il rapporto tra élite turca con alcuni esponenti della Federazione Russa è stato, quindi, un fattore in più che ha aiutato la Turchia a riorientarsi e a salvare la carriera politica di Erdogan.

Fethullah Gulen, nato nel 1941 a Pansier in Turchia, è un importante studioso dell’Islam, per la prima parte della sua vita è stato un Imam. Il movimento Hizmet di Gulen vanta milioni di seguaci in Turchia. Si crede che numerosi sostenitori di Gulen occupino posizioni di potere in Turchia, nella polizia e nella magistratura turca.
Gulen, che vive in esilio negli Stati Uniti, sostiene l’adesione della Turchia all’UE.

Indubbiamente, il presidente Erdoğan con questa vittoria ha avuto un rafforzamento che parte dal golpe 2016, dietro al quale c’erano apparati militari culturali e politici legati alla visione della Turchia iperatlantista degli anni 50/60, soprattutto nei reparti dell’aviazione, non a caso addestrati negli Stati Uniti.

Alcuni aspetti contingenti, tra cui la guerra siriana, hanno complicato la situazione: Erdoğan era amico di Assad e, purtuttavia, la Turchia ha avuto un atteggiamento ambiguo appoggiando il gruppo armato jihadista salafita di al-Nusra in chiave anticurda.

Nel 2015, l’abbattimento del Sukoi 24 da parte di due F16 turchi aggravò ulteriormente la situazione, poi normalizzata dal 2016, quando furono arrestati i due piloti con l’accusa di essere membri del movimento che fa riferimento a Fetullah Gulen. A proposito di aviazione legata agli USA. Dopo questo episodio, russi e turchi hanno iniziato i pattugliamenti congiunti in Siria (gli uni contro l’Isis, gli altri contro i curdi). Questo ha portato ad una stabilizzazione del conflitto siriano.

Da tenere in considerazione che i profughi siriani possono avere facilmente la cittadinanza turca e votano AKP.

Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?

Sicuramente, Erdogan dovrà affrontare con questa vittoria nuove sfide, soprattutto interne. Dovrà affrontare il problema dell’inflazione: i prezzi dei beni primari e degli affitti è alle stelle da circa due anni. Parlando dell’inflazione su base annua, a marzo ha toccato il 50% (si veda grafico nella pagina successiva). C’è una stabilizzazione, non sembra ancora un’iperinflazione strutturale. Questo grazie al buon rapporto con la Russia da cui acquista il 45% del gas. Gli sconti sull’energia russa hanno certamente rappresentato un sollievo per la tenuta del Paese. Tuttavia, Erdoğan dovrà affrontare la sfida più dura dei suoi vent’anni al potere, da un punto di vista monetario la Turchia ha adottato un approccio poco ortodosso e ha ridotto i tassi di interesse nella convinzione che ciò avrebbe frenato l’aumento dei prezzi. Queste scelte hanno un costo. Fisico innanzitutto. Erdogan è alla quinta esperienza di presidenza e non è più lo stesso di 5 o 10 anni fa. È molto affaticato e, a quanto sembra, pure malato. Ulteriore incognita è che non si intravede chi potrebbe essere il suo successore.

Turkey Inflation Rate

Per chiudere, un romanzo con cui poter avvicinare con leggerezza il mondo dei sufi che abbiamo visto contare molto nella formazione delle elite turche. Nel libro Le quaranta porte della scrittrice turca Elif Shafak, edito da BUR Rizzoli, il lettore viene condotto dentro due storie apparentemente lontane e distinte, da un lato sul piano temporale del presente, nel mondo occidentale, con la storia di Ella, una casalinga quarantenne che apparentemente vive una vita felice, piena degli impegni legati alla famiglia. Dall’altro c’è il piano temporale dell’Anatolia del XIII secolo, dove si sviluppa la storia del derviscio errante Shams-i Tabrīzī, un sufi dalla mente illuminata, e del suo incontro con il poeta Rumi, lo “Shakespeare dell’Islam”. In entrambe le storie il protagonista principale è l’amore e la capacità di cambiare la propria vita per poterlo raggiungere e vivere in pienezza.

Approfondimento a cura di Gilberto Moretti

Lugano, 04/06/2023

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