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| | Filantropia

Sympathy for the devil

Please allow me to introduce myself
I’m a man of wealth and taste
I’ve been around for a long, long years
Stole million man’s soul an faith
And I was ’round when Jesus Christ
Had his moment of doubt and pain
Made damn sure that Pilate
Washed his hands and sealed his fate

Sympathy for the devil, 1968
The Rolling Stones, Beggars Banquet album

Con la diffusione su scala globale della filantropia e delle nuove modalità di donazione e volontariato, oltre all’ascesa dell’imprenditoria sociale e dell’impact investing, stanno sempre più emergendo anche in quest’ambito questioni di natura etica, che interessano ad esempio la filantropia come terreno di concorrenza tra individui e governi oppure la filantropia come leva per l’esercizio di soft power. Saranno proprio questi i temi al centro del nostro approfondimento odierno.

Nel terzo settore convivono due filosofie prevalenti: una corrente lavora per migliorare la vita delle persone ma accetta la società in cui viviamo più o meno così com’è; l’altra cerca di cambiare le condizioni che portano alla sofferenza affrontando le cause, non i sintomi.

Da questa prospettiva, possiamo affermare che i governi portano avanti interventi filantropici che mirano a migliorare la vita dei beneficiari, senza cambiare lo status quo, mentre i singoli filantropi hanno l’ambizione di eliminare le cause delle sofferenze umane e rivoluzionare la società. In entrambi i casi, quando si parla di filantropia internazionale o di interventi di supporto allo sviluppo transnazionali, gli sforzi non si basano solamente sulla donazione di fondi ma anche sul consolidamento del cosiddetto soft power.

I concetti di “soft power” e “hard power” sono stati introdotti dallo scienziato politico Joseph Nye per descrivere due diverse forme di influenza e potere esercitate dagli attori internazionali, come gli Stati o le organizzazioni umanitarie. L’hard power si riferisce al potere coercitivo di un attore, ed è dunque basato sulle sue capacità di esercitare pressioni o influenze attraverso mezzi tangibili e costrittivi: può dunque prevedere interventi lungo plurime direzioni come ad esempio la forza militare, l’economia, la capacità industriale o la dimensione demografica. L’hard power implica spesso la minaccia o l’uso effettivo della forza per ottenere ciò che si desidera.

Il soft power, d’altra parte, si riferisce alla capacità di influenzare gli altri attraverso mezzi non coercitivi o persuasivi. Questo tipo di potere si basa sulla capacità di attrarre e convincere gli altri ad adottare le proprie idee, i propri valori ed i propri modelli culturali.  

Entrambi i tipi di potere possono essere utilizzati dagli attori internazionali per raggiungere i propri obiettivi, ma operano su piani diversi e possono essere combinati per creare una strategia complessa di influenza e controllo. Per capire meglio cosa si intende per soft power in contesto filantropico prendiamo in prestito un concetto di natura geopolitica.

La scuola del realismo[1], influenzata dalle opere di Morgenthau e Waltz, interpreta le interazioni tra gli Stati attraverso una lente cinica e asciutta: gli attori internazionali sono unità razionali che cercano di massimizzare i propri interessi di sicurezza e potere. Sono diversi i principi del pensiero realista in geopolitica che si possono applicare alla filantropia e alla cooperazione internazionale:

  • Anarchia internazionale: manca un’autorità centrale sovranazionale su cui fare affidamento per risolvere i conflitti. Potremmo cedere alla tentazione di credere che le Nazioni Unite siano un buon meccanismo per la gestione dei conflitti tra Stati o all’interno degli stessi. D’altronde, le ben note agenzie specializzate come UNICEF, UNHCR, UNESCO, OMS, FAO, IFAD sono dedite alla lotta per la difesa dei diritti umani, come quello alla salute e quello della sicurezza alimentare, o dell’educazione. Sono le agenzie presenti nei luoghi più caldi della cooperazione internazionale, dunque in zone di conflitto, di confine, zone afflitte da emergenze croniche o da catastrofi naturali. I budget stanziati annualmente da tali agenzie internazionali per risolvere problemi locali sono consistenti eppure non risolvono i problemi alla radice. Per quale motivo? Sicuramente perché le cause sono complesse, ma anche perché sono organismi finanziati dagli stessi Stati che causano le suddette crisi politiche, economiche e sociali. Un organismo imparziale e sovranazionale potrebbe essere uno strumento affidabile nella gestione delle crisi, ma l’architettura del sistema internazionale non ne permette l’esistenza.
  • Cinismo sulla cooperazione: gli esponenti della corrente realista sono spesso scettici riguardo alla possibilità di cooperazione duratura tra gli Stati. Anche se la cooperazione può verificarsi, spesso è guidata dall’opportunità e dalla convenienza, piuttosto che da un sincero desiderio di pace e stabilità. Così come in altri settori, anche la filantropia e la cooperazione internazionale sono influenzate da interessi nazionali, divergenze culturali e di valori, mancanza di cooperazione sincera e di impegno duraturo da parte degli attori internazionali.
  • Determinismo strutturale: il realismo considera le dinamiche di potere come largamente influenzate dalla struttura del sistema internazionale. Questa può includere la distribuzione del potere tra gli Stati e le loro interazioni basate su tali rapporti di potere. Gli Stati più potenti vorranno essere in prima fila quando si tratta di concertare operazioni di cooperazione internazionale a sfondo filantropico, ma gli interventi saranno calcolati affinché non modifichino lo status quo e siano fonte di aumento di prestigio.

Una delle prime applicazioni maldestre della filantropia come strumento di esercizio di soft power è rappresentata dall’istituzione del Food for Peace (FFP), ad opera del presidente degli Stati Uniti John Dwight D. Eisenhower nel 1954. L’obiettivo del FFP era la sperimentazione di un meccanismo multilaterale per la gestione degli aiuti alimentari nelle emergenze e nei contesti di sviluppo. Il programma, gestito dall’USAD (United States Agricultural Department), dall’USAID (United States Agency for International Development) e dall’Ufficio degli Stati Uniti per il coordinamento degli affari umanitari, intendeva promuovere la sicurezza alimentare nei Paesi beneficiari prevalentemente localizzati in Africa, Medio Oriente, Sud e Centro America, da attuare mediante l’invio di aiuti diretti rivolti alle popolazioni che soffrono la fame e la malnutrizione.

Programmi post-disaster con un approccio top-down, in contesti instabili e indeboliti come quelli citati, non solo hanno risultati limitati, ma possono causare un impatto negativo a lungo termine sia dal punto di vista sociale che economico, creando un danno al Paese nel quale si vuole intervenire. Un tale approccio richiede infatti un’attenta valutazione iniziale e un continuo monitoraggio per determinare se le iniezioni di risorse stanno avendo effetti inflazionistici e quindi prevedere gli effetti negativi. Questo sforzo preliminare è alla base del tentativo di affrontare le molteplici cause che determinano l’insicurezza alimentare nel contesto dell’azione umanitaria.

Il FFP non raggiunse gli obiettivi sperati, anzi; pochi anni dopo, operando sotto l’egida della FAO, la sperimentazione del programma alimentare fu approvata dall’Assemblea generale dell’ONU (nel 1961) e venne fatto un ulteriore sforzo con l’istituzione del World Food Programme (WFP).

Il WFP è un ottimo esempio di organizzazione governativa che utilizza la filantropia come strumento di soft power. I contributi finanziari dei Paesi membri o dei donatori privati hanno l’intento di combattere la fame e la povertà. Applicando una lente critica, però, questo tipo di donazione appare piuttosto come un tentativo di smaltimento delle eccedenze alimentari e non è risolutivo, poiché non intende eliminare le cause della crisi alimentare degli Stati in cui opera, anzi finisce col procurare danni ai mercati locali, in quanto di fatto rende vano lo sforzo di coltivazione di cereali che avrebbero un costo superiore a quello donato da un governo terzo. Inoltre, modifica le abitudini alimentari locali, inserendo cibi non tradizionali, a discapito di varietà di prodotti autoctoni.

Un esempio più virtuoso nello stesso settore è invece la Rice K-Belt Initative, lanciata dalla Corea del Sud nel 2023 e avente come beneficiari i governi di Cameroon, Gambia, Ghana, Guinea Bissau, Kenya, Senegal e Uganda, allo scopo di fornire assistenza tecnica e attrezzature per migliorare la coltivazione del riso. Il governo coreano ha stanziato un budget di USD 80 milioni con l’obiettivo iniziale di raccogliere circa 2.000 tonnellate prodotto nei primi otto paesi partner africani nel primo anno, aumentando a 10.000 tonnellate entro il 2027, una quantità sufficiente per nutrire circa 30 milioni di persone all’anno. Durante la riunione del G7 tenutasi a Hiroshima nel maggio 2023, il Presidente della Corea del Sud, Yoon Suk Yeol, ha promesso di fornire ulteriore supporto alle nazioni che affrontano una crisi alimentare attraverso vari piani di assistenza allo sviluppo e di raddoppiare le contribuzioni della Corea del Sud al WFP a 100.000 tonnellate di aiuti alimentari all’anno, sufficienti a nutrire circa sei milioni di persone. In questo caso, sono stati progettati dei meccanismi per far sì che gli Stati africani non dipendano nel lungo termine da un aiuto esterno, ma possiamo comunque rilevare un ricorso all’utilizzo di soft power: resta infatti una collaborazione di natura puramente assistenzialista, che non avrà alcun effetto se non accrescere la reputazione del governo coreano.

La filantropia, come vediamo, comporta la donazione di risorse per promuovere cause umanitarie, sociali, culturali o ambientali. Questo tipo di azione può influenzare positivamente la percezione e l’immagine di chi la esercita sulla società civile e su altri attori internazionali. Ciò contribuisce a costruire rapporti proficui e a guadagnare stima e rispetto da parte di altri governi e delle loro popolazioni. Un governo, tramite la filantropia, può influenzare una cultura, mentre costruisce un’immagine positiva di sé a livello globale: la promozione dell’istruzione, della sanità o la lotta contro la povertà, possono riflettere valori culturali e umanitari. La filantropia può favorire la cooperazione internazionale e la diplomazia attraverso l’interazione con organizzazioni internazionali, governi e organizzazioni della società civile, così come può influenzare positivamente l’opinione pubblica anche a livello domestico.

ONU: tra filantropia, diplomazia e interessi

L’ONU fa ricorso alla filantropia e alla cooperazione con organizzazioni filantropiche come strumenti di soft power per affrontare una serie di questioni globali, come la povertà estrema, la fame, la salute, l’istruzione, l’ambiente e i diritti umani. L’UNICEF, il Programma Alimentare Mondiale (WFP) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sono solo alcuni esempi di agenzie ONU che lavorano in collaborazione con enti filantropici per fornire assistenza umanitaria in situazioni di emergenza dovute a crisi alimentari, conflitti e catastrofi naturali. Però è opportuno ricordare che la filantropia, poiché monodirezionale e sempre applicata da agenzie del nord globale nei confronti del sud globale, può apparire come una forma di neo-colonialismo. D’altronde i Paesi che ricevono aiuti dalla comunità internazionale sviluppano una profonda dipendenza da questi ultimi.

La Repubblica Democratica del Congo è uno dei paesi africani con la più grande presenza di presidi delle Nazioni Unite. L’ONU dal 2010 mantiene una missione di peacekeeping chiamata MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo) per affrontare il conflitto armato, la violenza e le sfide politiche ed umanitarie nella regione. La MONUSCO è stata una delle missioni di peacekeeping più grandi e costose delle Nazioni Unite. Nel decennio che va dal 2010 al 2020, il budget totale a disposizione della MONUSCO è stato di circa USD 9 miliardi.

Se guardiamo ai fondi investiti per la protezione civile, il monitoraggio dei diritti umani, il disarmo e il rientro dei gruppi armati, così come l’assistenza umanitaria, rimarremo stupiti della percentuale di gruppi armati nella zona ovest del paese, dove c’è massima concentrazione delle missioni ONU, con attacchi ciclici e ripetuti, che portano alla morte di migliaia di persone ogni mese. Dovremmo essere stupiti anche del fatto che il 73% della popolazione vive in uno stato di estrema povertà, e che nonostante UNICEF insieme a USAID, Banca Mondiale e governo tedesco abbiano mobilitato, nel 2022, USD 408 milioni per affrontare le condizioni critiche di salute e malnutrizione infantile, a partire dallo stesso anno, ci sia stato un incremento del 30% proprio dei casi di malnutrizione infantile[2]. La forza dell’ONU in ambito filantropico non sta nel raggiungimento degli obiettivi e nella risoluzione dei problemi, quanto piuttosto nella narrativa che si è sviluppata intorno alla reputazione che ha costruito nei decenni, grazie proprio al ricorso alla soft power: l’esistenza dei conflitti rafforza l’immagine di una ONU coesa a sostegno della popolazione, dalla parte del bene, del giusto. La realtà non potrebbe essere più distorta: le agenzie dell’ONU sono note, soprattutto agli operatori sul campo, per la burocrazia e la lentezza nelle decisioni e nelle azioni. La necessità di coordinare gli sforzi tra un gran numero di Stati può sicuramente ritardare le risposte alle crisi umanitarie o agli interventi di sviluppo, ma la realtà è che il conflitto di interessi è il vero freno. Ogni Stato membro dell’ONU persegue i propri interessi nazionali che possono essere di natura economica, politica, strategica o umanitaria. Quando gli interessi nazionali di uno Stato entrano in conflitto con quelli di un altro, può essere difficile raggiungere un consenso su come affrontare una crisi o un conflitto specifico. Ad esempio, gli Stati membri possono avere interessi diversi sull’accaparrarsi le risorse naturali di una regione o nella stabilità di un paese in crisi.

Il conflitto in Siria è stato uno dei casi più evidenti in cui gli interessi nazionali e regionali dei membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno ostacolato il dipanarsi della risposta umanitaria. Mentre la comunità internazionale era divisa sulle azioni da intraprendere, Stati Uniti, Russia e Cina, ovvero 3 dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, hanno utilizzato tale potere per bloccare risoluzioni volte a porre fine al conflitto. Questo ha comportato ritardi nella risposta alle gravi crisi umanitarie e nella protezione delle popolazioni civili in Siria. Il sistema di veto del Consiglio di Sicurezza, d’altronde, consente ad alcuni Paesi di impedire l’adozione di risoluzioni nell’interesse della comunità internazionale qualora siano contrari ai propri interessi specifici.

Inoltre, a causa della diplomazia bilaterale e dei blocchi regionali a cui i governi appartengono, gli Stati membri spesso conducono negoziati bilaterali che possono portare ad accordi che vanno oltre le risoluzioni dell’ONU e che quindi ne influenzano la capacità di implementare misure e soluzioni convenute. Il conflitto in Yemen è l’esempio più chiaro in quest’ambito. Iniziato nel 2014 quando i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, hanno rovesciato il governo yemenita sostenuto dall’Arabia Saudita, ha successivamente visto l’Arabia Saudita e altre nazioni arabe formare una coalizione militare per sostenere il governo riconosciuto a livello internazionale del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. I disordini si sono rapidamente intensificati, causando una grave crisi umanitaria con carestie, malnutrizione, epidemie e sfollamenti di massa. Nel contesto di questo conflitto, le relazioni bilaterali tra gli Stati membri dell’ONU hanno influenzato la risposta globale in diverse maniere:

  • La rivalità regionale tra l’Iran e l’Arabia Saudita ha avuto un impatto significativo sulla situazione in Yemen e ha reso estremamente difficile per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU l’adozione di misure efficaci per porre fine al conflitto[3];
  • Molti paesi fornitori di armi, tra cui Stati membri dell’ONU, hanno continuato a venderle alle parti in conflitto in Yemen. Questo ha alimentato il conflitto e ha reso complessa la messa in atto di un embargo sulle armi o la promozione di un cessate il fuoco[4];
  • Tentativi di negoziazione per porre fine al conflitto si sono spesso svolti a livello bilaterale tra le parti coinvolte, con interventi occasionali di mediatori internazionali. Questo ha portato a progressi lenti e limitati nel processo di pace, poiché le parti cercavano di proteggere i propri interessi.[5]

In generale, il conflitto in Yemen ha dimostrato come le dinamiche di diplomazia bilaterale e le relazioni internazionali complesse possano influenzare negativamente gli sforzi dell’ONU, principale attore che incarna i principi della filantropia e della cooperazione internazionale pacifica, per rispondere in modo efficace a una crisi umanitaria.

Disruptive philanthropy

La società gioca un ruolo fondamentale in questo ambito, ancora una volta. La filantropia deve essere apolitica, ma quando viene promossa dagli Stati perde inevitabilmente questo connotato. La filantropia, se concepita come strumento politico, non riuscirà mai a raggiungere obiettivi soddisfacenti dal punto di vista sociale. Se utilizzata come strumento di soft power rispecchia il meccanismo dell’efficienza, risponde alla domanda “did we do things right?”, quando invece nella sua versione pura, disinteressata, rispecchia il meccanismo dell’efficacia, rispondendo alla domanda “did we do the right thing?”.

Promuovere la filantropia come uno sforzo non governativo può essere un’arma a doppio taglio: a differenza dei governi democratici e dei politici che devono rendere conto agli elettori, i mega-donatori non sono responsabili nei confronti di nessuno. Le loro opinioni, credenze e ideologie private finiscono per plasmare la società. Sono loro a decidere contro quali malattie combattere, quali scuole sono necessarie, quali politiche sociali promuovere, quali ricerche e tendenze artistiche sostenere.  Alcuni studiosi come Aaron Horvath and Walter W. Powell, due sociologi di Stanford, definiscono questa pratica come disruptive philathropy, ovvero filantropia dannosa, poiché i filantropi non dovrebbero entrare in competizione con i governi per raggiungere obiettivi sociali. Ma come possiamo affidare ai governi l’arduo compito di risolvere un problema che loro in primis non hanno alcun interesse a risolvere? La filantropia solo se applicata con l’obiettivo di migliorare sé stessi e la realtà circostante, in modo scevro da interessi particolari, privati o pubblici che siano, può raggiungere l’unico obiettivo che dovrebbe avere: alleviare le sofferenze altrui.

Approfondimento a cura di Beatrice Marzi

Lugano, 10 settembre 2023


[1] Il realismo è una teoria delle relazioni internazionali che si concentra sulla centralità del potere e degli interessi nazionali nello scacchiere globale. Secondo questa prospettiva gli Stati sovrani sono attori che agiscano in modo razionale per perseguire i propri obiettivi di sicurezza e sopravvivenza. Il realismo enfatizza la natura competitiva delle relazioni internazionali e la tendenza degli Stati a cercare il massimo potere possibile per garantire la loro sicurezza. Questa teoria critica l’ottimismo riguardo alla cooperazione internazionale duratura e sottolinea la presenza di conflitti e rivalità tra gli Stati.

[2] UNICEF, Country Office Annual report 2022, “Democratic Republic of the Congo – Update on the context and situation of children”, 2022, si veda: https://www.unicef.org/media/136736/file/Democratic-Republic-of-the-Congo-2022-COAR.pdf

[3] Consiglio di Sicurezza ONU, “Final report of the Panel of Experts on Yemen”, Gennaio 2021, si veda: https://reliefweb.int/report/yemen/final-report-panel-experts-yemen-s202179-enar

[4] Global Conflict Tracker, Centre of Preventive Action, “War in Yemen”, Luglio 2023, si veda: https://www.cfr.org/global-conflict-tracker/conflict/war-yemen

[5] Consiglio di Sicurezza ONU, “Negotiated Political Settlement Only Way to End War, “Turn the Tide” in Yemen, Special Envoy Tells Security Council”, Giugno 2021, si veda: https://reliefweb.int/report/yemen/negotiated-political-settlement-only-way-end-war-turn-tide-yemen-special-envoy-tells

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