“Trust is like a mirror,
you can fix it if it’s broken,
but you can still see the crack
in that mother fucker’s reflection.”
(Lady Gaga – Telephone)
(foto: Black Mirror, serie Netflix, 2011)
«Ecco qua. Fino a dove si spingerà? Nessuno sa. Nella notte della civiltà è scoppiata la società, e ora è l’uomo civile, sociale e ben educato a esplodere» (Laurent Obertone, Guerriglia. Il tempo dei barbari)
Nell’ultima Side View di geopolitica prima della pausa estiva abbiamo toccato due argomenti: la tenuta dell’ordine interno delle società occidentali e l’utilizzo dell’AI, da un lato come strumento di controllo e condizionamento, dall’altro come elemento potenzialmente determinante la futura supremazia militare nel confronto tra le potenze[1].
Con lo scritto di oggi, cercheremo di mettere a tema i medesimi argomenti in rapporto alla crescente sfiducia nelle istituzioni e ai sempre più evidenti movimenti centrifughi[2]: dalle proteste nelle piazze, al calo di affluenza alle urne fino al proliferare dei movimenti populisti. Sintomi che, pur essendo sempre stati abbastanza ricorrenti nelle dinamiche interne delle società occidentali, oggi diventano particolarmente allarmanti per la loro magnitudine.
Se con l’uscita dalla pandemia avremmo dovuto assistere ad un ritorno alla vita normale, abbiamo, invece, assistito all’invasione russa dell’Ucraina, all’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime, a una maggiore insicurezza alimentare globale, a tassi di interesse alle stelle, al fallimento delle banche, all’emergenza climatica e a un ritiro dalla globalizzazione a causa della nuova Guerra Fredda con la Cina. Nell’Edelman Trust Barometer 2023[3], vediamo come queste pressioni macro si manifestano a livello individuale in una serie di paure che vanno dall’inflazione alla guerra nucleare. Queste si aggiungono all’onda lunga delle fratture sociali conseguenti la crisi finanziaria del 2008-2009, alla perdita di posti di lavoro a causa dell’automazione e all’impatto del continuo richiamo allo stato di emergenza climatica. La conseguenza è, appunto, un calo della fiducia nelle istituzioni ed una polarizzazione acuta nella società con una marcata tendenza verso una profonda crisi di fiducia interpersonale: individui sempre più soli, sebbene più connessi, preoccupati, stressati, in situazione di precarietà con un crescente tracollo della salute mentale e una crescita dei suicidi[4].
Potremmo dire che i sistemi improntati al winner takes all, dove le élite economiche dominano anche le istituzioni pubbliche mediante il sistema delle cosiddette revolving doors, “porte girevoli”, hanno generato la percezione della politica come orientata ad assecondare gli interessi solo di una piccola porzione di privilegiati[5].
REVOLVING DOORS
Si tratta di un sistema, perlopiù statunitense, che vede la commistione tra pubblico e privato data dal moltiplicarsi dei ruoli ricoperti da una stessa persona che possiamo vedere dappertutto: prima in un’università, poi in un’azienda, poi in una fondazione, poi in politica. Mantenendo, ovviamente, tutti i legami intatti e un’agenda coerente in ognuno di questi passaggi. Alla base del fenomeno ci sono una serie di cause riconosciute. Il governo ha interesse a reclutare personale dall’industria, in quanto ne trae molti benefici in termini di esperienza, influenza e sostegno politico. Parimenti, il settore privato trae benefici nel reclutare o lavorare con individui provenienti da una carriera governativa: accesso diretto a politici influenti, politiche pubbliche favorevoli, informazioni riservate, appalti.
Proviamo a scendere un po’ più nel dettaglio di questa crisi, senza pretese di esaustività, data la sua complessità. Nell’Edelman Barometer si evidenzia come la continua perdita di fiducia nei media sia una delle eredità della pandemia. Il Covid, infatti, ha potenziato una crisi già in atto: la fiducia nelle fonti di informazione è in calo già dal 2019 (fiducia nei media tradizionali dal 66% al 58%, nei social media dal 44% al 39%). Nelle democrazie, una media di meno del 40% degli intervistati ritiene che i media siano onesti e giusti. In precedenti ricerche, Edelman Barometer ha riscontrato che la fonte di informazioni più credibile proviene dal datore di lavoro.
La conseguenza di queste forze interconnesse, in particolare la scarsa fiducia nel governo, l’ingiustizia sistemica e la mancanza di valori comuni, è una caduta da un livello accettabile di dibattito sociale a un livello critico di frammentazione. A livello globale, quasi due terzi degli intervistati osservano una mancanza senza precedenti di civiltà e rispetto reciproco nella società. Con la polarizzazione, l’ideologia diventa identità: maggioranze schiaccianti, tra coloro che hanno forti sentimenti riguardo a una questione, si rifiutano di vivere vicino o addirittura di dare una mano alle persone con cui non sono d’accordo. C’è un impatto tangibile sul posto di lavoro, con solo il 20% degli intervistati che afferma di essere disposto a lavorare accanto a una persona che è fortemente in disaccordo con il loro punto di vista. Man mano che le opinioni divergenti si radicano, nessuna istituzione gode più di fiducia: solo il 26% delle persone si fida del governo e solo il 35% dei media. Le piattaforme dei social media rafforzano la polarizzazione, creando le cosiddette echo chambers, che personalizzano le informazioni degli utenti, allineandole alle loro convinzioni pregresse.
Come siamo arrivati a questo punto?
Sebbene, come affermava Hannah Arendt già nel lontano 1967, la veridicità e l’onestà non sono mai state annoverate tra le virtù di un politico e le bugie sono sempre state considerate strumenti necessari e giustificabili di politici e statisti, la novità di quest’epoca sembra essere il maggior livello di confusione tra il pubblico, non più in grado di distinguere tra fatti, invenzioni e opinioni[6]. Mentre in passato le bugie erano solitamente dirette contro singoli individui e, soprattutto, esternamente in operazioni di disinformazione contro i nemici, oggi le bugie vengono percepite come diffuse internamente dai mass media per ingannare tutti. L’effetto paradossale è che spesso chi racconta la verità sui fatti a livello nazionale viene inteso dal pubblico come più pericoloso e ostile dei nemici esterni.
È opinione comune far risalire al populismo di Donald Trump e alla disinformazione che egli avrebbe sistematicamente praticato in campagna elettorale, nonché successivamente alla campagna sulla Brexit, come ai momenti in cui si sarebbe resa manifesta tale erosione tra fatti e opinioni nel discorso pubblico, il prevalere delle emozioni sul pensiero razionale, con il disprezzo verso la scienza e gli esperti. L’esposizione alla disinformazione porta ad una maggiore polarizzazione, che a sua volta diminuisce l’impatto delle informazioni fattuali in un circolo vizioso.
In realtà, siamo all’ultimo passo di una logica da tempo radicata nella storia delle idee.
La post-verità
Il 16 novembre 2016, Oxford Dictionaries annunciavano che il termine “post-verità” veniva scelto come la parola dell’anno, definendolo come un termine “relativo o che denota circostanze in cui i fatti oggettivi hanno meno influenza nel plasmare l’opinione pubblica rispetto al ricorso alle emozioni e alle convinzioni personali”[7]. Potremmo farne risalire l’origine ai lavori dei cosiddetti pensatori postmodernisti che contribuirono ad animare il ‘68 francese, da Foucault a Deleuze, da Lyotard a Derrida e Baudrillard[8].
Questi iniziarono a screditare la “verità” come una delle tante “grandi narrazioni” di un potere autoritario da mettere in stato di accusa e, pertanto, doveva essere respinta come repressiva. Secondo questi autori, la verità è sempre condizionata dal contesto storico e sociale, è sempre parziale e “in discussione” piuttosto che essere completa e certa. Per farla breve e tagliando con l’accetta: questi pensatori hanno lavorato all’affermazione di una nuova ortodossia intellettuale che permette solo “verità” sempre plurali, spesso personalizzate e, inevitabilmente, relativizzate. In altri termini, tutte le affermazioni sulla verità sono relative alla particolare persona che le fa e, pertanto, non è possibile stabilire alcuna verità universale.
Questa postura intellettuale si è negli anni diffusa in tutta la società. Verso la metà degli anni Novanta, i giornalisti rifiutavano l’idea di “obiettività”; sempre in quegli anni, il branding andava a costituire il core business delle nuove industrie creative finendo per essere considerato molto più importante dell’attività di progettazione, sviluppo e produzione del prodotto, facendo sì che l’economia fosse riconfigurata attorno a qualunque cosa il consumatore finale fosse disposto a credere. Nelle economie occidentali, questa cultura promozionale è diventata stile di vita. Allo stesso modo, anche il campo politico ha vissuto sviluppi paralleli, allineati anch’essi alla tendenza verso la “post-verità”. A raccontare tale fenomeno e ad aiutarne la comprensione è il film documentario della BBC HyperNormalisation del regista britannico Adam Curtis, uscito nel 2016: il film mostra come i governi, l’élite finanziaria e gli utopisti tecnologici, a partire proprio dagli anni ’70, avrebbero rinunciato alla complessità del “mondo reale” per sostituirlo con una più semplice, a tratti distopica, spettacolarizzazione: basti pensare alle performance dei politici sempre più sovrapponibili a quelle delle pop star[9].
Facciamo sommessamente notare come, ad esempio, la messa in discussione dell’esistenza stessa di maschio e femmina sia in ultima analisi l’esito di questo percorso.
Andiamo oltre e, una volta stabilito l’ambiente culturale di una verità declinante in cui ci muoviamo, iniziamo a trattare gli aspetti più strategici. In tal senso, decadimento della verità e diffusione della disinformazione sono elementi che si intrecciano nell’ambito della sicurezza nazionale.
Introduciamo quindi i concetti di manipolazione e guerra cognitiva: questi si basano su un approccio multidisciplinare che combina scienze sociali e nuove tecnologie per alterare direttamente i meccanismi di comprensione e il processo decisionale al fine di destabilizzare o paralizzare l’avversario, nel tentativo di vincere la guerra prima della guerra[10].
Manipolazione e guerra cognitiva
Come ben evidenziano i teorici delle relazioni internazionali di scuola realista, l’arena geopolitica è un sistema anarchico in cui gli stati cercano di controbilanciarsi in termini di potenza relativa ovvero di allearsi con altri per sopravvivere. In un’era di grande competizione come quella che stiamo vivendo, vi sono prove evidenti che suggeriscono come vi siano potenze in grado di svolgere un ruolo attivo nel plasmare il discorso politico interno ai Paesi avversari per destabilizzarne le basi istituzionali e indebolirne la capacità percepita di proiettare potere. In definitiva, anche questo è realismo: diminuire il potere relativo degli Stati avversari sulla scena mondiale. Naturalmente, l’uso di flussi di informazioni per destabilizzare un nemico non è un fenomeno nuovo. Gli analisti in questo campo amano citare la frase (forse abusata) di Sun Tzu: “Vincere cento volte in cento battaglie non è l’apice dell’abilità. Sottomettere il nemico senza combattere è l’apice dell’abilità”[11], per mostrare l’efficacia di queste operazioni.
Le operazioni di influenza, quindi, hanno due ruoli chiave: seminare discordia e indebolire la volontà delle nazioni di perseguire politiche interne ed estere che consentano loro di raggiungere gli obiettivi nazionali. E in secondo luogo, segnalare al mondo le perdite relative dei propri avversari per accelerare l’abbandono dell’alleanza e i rischi di riallineamento.
Nel 1999, due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, pubblicarono un saggio di grande spessore Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione tradotto in Italia per iniziativa del Generale Fabio Mini nel 2001, in cui spiegavano come nel mondo moderno fosse possibile affiancare alla guerra militare tradizionale altre forme di conflitto non convenzionali in grado di ottenere risultati analoghi[12].
Tuttavia, per quanto l’azione sul cervello sia sempre stato un elemento caratterizzante del pensiero strategico, con l’affermazione di James Giordano secondo cui “il cervello umano è diventato il campo di battaglia del 21° secolo” si intende una nuova era di cui il fenomeno guerra assume appunto un nuovo aspetto, dovuto al progresso delle neuroscienze e delle neurotecnologie[13].
La rivoluzione digitale ha esacerbato la concorrenza nel dominio dell’informazione e gli obiettivi non si limitano più ai decisori politici e militari: le popolazioni sono suscettibili di manipolazioni su larga scala e possono essere sfruttate per influenzare le decisioni.
La verità cede quindi il posto ad una sorta di balcanizzazione della realtà che a sua volta offre un terreno fertile alla manipolazione grazie alle idee di condizionamento delle masse già sviluppate in passato con il lavoro di studiosi come Gustave Le Bon, autore di un saggio dal titolo esplicativo Psicologia delle folle(1895) e messe abbondantemente alla prova all’inizio del Novecento e all’emergere di concetti come quello di noosfera, nell’accezione data dal filosofo gesuita Pierre Teilhard de Chardin, per delineare una sorta di coscienza collettiva potenziata oggi dalla iperconnessione degli individui tramite internet.
NOOSFERA
Teilhard de Chardin (1881-1955), filosofo, scienziato e teologo francese, si interessò a molteplici tematiche, tra cui l’evoluzione della materia, il rapporto tra scienza e fede, la cosmologia.
La sua visione è stata esposta nel saggio Il fenomeno umano, in cui Teilhard descrive la storia dell’evoluzione della Terra e degli esseri viventi che la abitano, dal Big Bang alla noosfera: una dimensione di coscienza collettiva in cui l’umanità è destinata a evolversi. Per Teilhard de Chardin la noosfera è quindi un “insieme di tutte le menti umane, come se fossero unite in una stessa rete“, una sorta di “campo unificato” in cui tutte le nostre menti si collegano e interagiscono.
L’utilizzo dei big data e la manipolazione degli algoritmi di social media consentono di intossicare l’ambiente informativo di un Paese, di polarizzarne, radicalizzarne e fratturarne la società non solo da parte di agenti esterni ma anche di raggiungere livelli sofisticati di propaganda e manipolazione come strumenti di controllo e omologazione da parte delle élite governative che intendano condizionare internamente l’opinione delle popolazioni generando a loro volta radicalizzazione nei movimenti di opposizione.
In tal senso, pensiamo all’impatto di fenomeni promossi dalle élite come Black Lives Matter e cancel culture. La mutazione sistemica dovuta all’utilizzo dei big data, che Shoshana Zuboff ha definito “capitalismo della sorveglianza” rischia di portare a una violazione dei diritti fondamentali dei cittadini e al superamento della democrazia, dello stato diritto e all’imposizione di un nuovo ordine collettivo. Alex Pentland, direttore dello Human Dynamics Lab all’interno del Media Lab del Mit, finanziato da Google, Cisco, Ibm, Twitter, Deloitte, Verizon, dalla Commissione europea, nonché consulente del World Economic Forum e della stessa Google afferma: “Per la prima volta nella storia, la maggioranza dell’umanità è interconnessa. Di conseguenza possiamo “estrarre realtà” dalla nostra infrastruttura wireless. In sintesi, siamo in grado di raccogliere e analizzare dati sulle persone con un’ampiezza e una profondità in precedenza inimmaginabili”. Come convincere gli umani a partecipare? Pentland ritiene che il metodo migliore sia il “principio dell’influenza sociale” attraverso una società mediata dai computer nella quale la visibilità reciproca diviene l’habitat dentro cui ci confrontiamo a vicenda, producendo pattern sociali basati sull’imitazione e sul conformismo, che possono essere manipolati per ottenere una confluenza. L’uniformità si ottiene innanzitutto facendo leva sulla comodità, il piacere e il divertimento[14].
Il dato importante che spesso sfugge, infatti, è che l’era moderna delle operazioni di informazione non cerca più semplicemente di influenzare ciò che la gente pensa, ma piuttosto come le persone pensano. Ciò avviene influenzando attraverso la proliferazione di contenuti per riformattare i neurotrasmettitori. Combinando i decennali studi sulle neuroscienze e le nuove tecnologie digitali si può stimolare il corpo umano a produrre neurotrasmettitori, come la dopamina o l’adrenalina, grazie a immagini, suoni, video. Uno degli esempi più eclatanti è dato dall’applicazione TikTok. Secondo un dossier prodotto dalla Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, a firma di Emanuel Pietrobon, l’impatto di un’esposizione prolungata a TikTok sulla psiche sembra essere molto dannoso. Le prime ricerche sul tema suggeriscono l’ipotesi di una super-psyop con cui la Cina sta utilizzando intenzionalmente contenuti inappropriati generati in Occidente per “corrompere le menti” delle giovani generazioni per indebolire gli altri popoli.
TikTok funziona con il nome di Douyin in Cina. È di proprietà della stessa società cinese ByteDance. Rispetto ai contenuti che gli utenti occidentali vedono su TikTok, ciò che promuove in Cina è completamente diverso: la maggior parte dei contenuti che Douyin promuove in Cina è legata alla tecnologia, all’architettura, alla musica e ad interessi simili che aumentano la creatività degli utenti e aiutano a migliorare le loro competenze. In altri paesi, invece, non esiste alcuna politica di controllo e TikTok promuove contenuti che possono diventare rapidamente virali e generare entrate per l’azienda. L’impatto potenziale di un’esposizione prolungata a TikTok sulla psiche degli utenti potrebbe essere straordinariamente nocivo. Sondaggi condotti tra adolescenti hanno rivelato una correlazione tra social media e depressione, autolesionismo e suicidio. I dati dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie mostrano che quasi 1 adolescente su 4 ha affermato di aver preso seriamente in considerazione l’idea di suicidarsi nel 2021, quasi il doppio rispetto al livello di dieci anni prima. I sospetti della comunità medica sono tali che da tempo parla di TikTok in termini di cocaina digitale[15]. Questo è solo uno dei tanti segnali di allarme che può provocare la non comprensione di questi fenomeni e l’assenza di adeguate contromisure.[16]
Frammentazione della società: uno scenario possibile.
In chiusura, proponiamo una riflessione su quel che potrebbe accadere in un contesto di forte frammentazione e crisi di legittimità istituzionale svolta dall’analista Aurelien, tradotto dal blog L’Italia e il mondo di Giuseppe Germinario.
Aurelien prende in considerazione l’ipotesi di un possibile collasso dello Stato e della società. In particolare, se la legittimità di uno Stato è data da un insieme di fattori, tra cui l’abitudine all’obbedienza verso istituzioni tradizionalmente ritenute legittime e, in sostanza, dalla capacità dello stesso di proteggere i propri cittadini, in molte società occidentali, sempre più abbruttite dalle conseguenze sociali di un liberismo sfrenato e dalla globalizzazione incontrollata, lo Stato ha sempre più difficoltà a fornire un livello accettabile di protezione. Le aree di povertà e a forte tasso di immigrazione sono lasciate a loro stesse o, addirittura, circoscritte in ghetti recintati modello banlieue, alimentando ulteriore sfiducia nelle istituzioni.
Lo Stato potrebbe gradualmente perdere il controllo di alcune aree, tenuto conto che nessun Paese occidentale dispone delle forze di sicurezza necessarie per sconfiggere una seria sfida in massa alla legittimità dello Stato. In caso di disordini, l’unica cosa che potrebbe fare è quella di circoscrivere alcune aree, in particolare quelle ove risiede il governo e cercare di difenderle, chiudendo uffici e centri commerciali. Questa è stata proprio la tecnica utilizzata in Francia durante la rivolta del Gilets Jaunes nel 2018/19. Tuttavia, secondo l’autore, difficilmente il tipo di decadimento cui stiamo assistendo porterà a conflitti violenti di tipo rivoluzionario, piuttosto ad una sorta di apatia e disimpegno e alla ricerca di vie per ovviare a ciò che lo Stato non è più in grado di ottemperare, in quanto nessuno intende davvero sostituire con una progettualità diversa l’attuale élite al potere. Non possono farlo elementi privati, la cui prosperità dipende dall’esistenza dello Stato, tanto meno lo vogliono le bande criminali che, di fatto, hanno un ruolo parassitario rispetto al potere costituito.
Il futuro è dunque quello di un potere estremamente distribuito e per capire cosa si intende l’autore suggerisce di guardare all’Africa. Qui, tendenzialmente, i governi hanno un controllo effettivo della capitale e dei centri principali, con un minore grado di influenza su ciò che accade altrove. Laddove possibile possono sorgere costellazioni locali di potere politico ed economico, con un aumento degli episodi di violenza, degrado delle comunicazioni stradali e ferroviarie e disfunzioni nei sistemi di distribuzione.
Attenzione però: a differenza dell’Occidente ad alto tasso di individualismo neoliberista, l’Africa è ancora dotata di risorse di solidarietà sociale e di resilienza, di reti familiari e tribali e di sofisticati meccanismi di governance informale[17].
A chiusura di questa analisi suggeriamo un romanzo del francese Laurent Obertone, Guerriglia. Il tempo dei barbari, ed. SignBooks (2022), che ipotizza il crollo della Francia in soli tre giorni. Dalle periferie parigine al resto del Paese, contemporaneamente, viene sconvolta dalle rivolte dalla popolazione immigrata (di prima e seconda generazione). Il governo, incapace di reagire, si preoccupa solo di sfornare un discorso non offensivo per nessuno. L’autore si basa su scenari ipotetici ma verosimili, prefigurati dai servizi segreti francesi con i quali è stato in stretto contatto per due anni. Un romanzo a tratti horror che però mette in evidenza le debolezze della nostra società.
Approfondimento a cura di Gilberto Moretti
Lugano, 17 settembre 2023
[1]Cfr. Moretti, G., Ex Machina, in brightside-capital.com, 09.07.2023.
[2] Sul tema vedi anche: Pezzoli, A., Violet Hill, in brightside-capital.com, 24.10.2021; Segre, M., We suck young blood, in brightside-capital.com, 31.10.2021; Segre, M., Bambolina barracuda, in brightside-capital.com, 12.06.2022.
[3] Edelman è la più grande società di consulenza in comunicazione e relazioni pubbliche a livello globale, con più di 60 uffici nel mondo e oltre 6000 persone. Attraverso strategie di comunicazione, aiutiamo imprese e organizzazioni a far crescere, promuovere e proteggere i propri brand e a rafforzare le proprie relazioni con gli stakeholder più importanti.
[4] Cfr. Case, A., Deaton, A., Morti per disperazione e il futuro del capitalismo, ed. Il Mulino, 2021.
[5] Cfr. Foa, M., Il sistema (in)visibile. Perché non siamo più padroni del nostro destino, ed. Guerini e Associati, 2022.
[6] Cfr., Arendt, H., Verità e politica – La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, ed. Bollati Boringhieri, 2004.
[7] Cfr. Calcutt, A., The surprising origins of ‘post-truth’ – and how it was spawned by the liberal left, in The Conversation, 18.11.2016.
[8] Cfr. Zhok, A., Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, ed. Meltemi, 2020.
[9]Cfr. HyperNormalisation (2016) – FULL DOCUMENTARY – by Adam Curtis, https://www.youtube.com/watch?v=VzqDMnUG4kk
[10] Cfr. Le Guyader, H., Weaponization of neuroscience, in innovationhub-act.org, 05.12.2020.
[11] Cfr. Sun Tzu, L’arte della guerra, ed. Feltrinelli, 2013.
[12] Cfr. Liang, Q., Xiangsui, W., Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG edizioni, 2001.
[13] Cfr. Lucania, P., Guerra cognitiva e dominio umano, in Brainfactor, 12.02.2022.
[14] Cfr. Zuboff, S., Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, ed. Luiss University Press, 2019.
[15] Cfr. Pietrobon, E., Guerra cognitiva. La nuova minaccia ibrida, Dossier Machiavelli, n. 42 luglio 2023.
[16] Cfr. Garman, L., I’m sorry, but the West is losing the cognitive war, in Defence Connect, 30.03.2023.
[17] Cfr. Germinario, G. (a cura di), Aurelien, Andare a pezzi lentamente…e poi?, in italiaeilmondo.com, 01.09.2023.