crosssearchwhat-assetwhat-handwhat-infinitywhat-mathwhat-packagewhat-paperwhat-tree
| | Macro views

Hot fuss

Swimming through sick lullabies
Choking on your alibis
But it’s just the price I pay
Destiny is calling me
Open up my eager eyes
‘Cause I’m Mr. Brightside

(The Killers, Hot Fuss, 2004)

Negli ultimi due anni abbiamo sentito e letto molto spesso dei rischi che un’inflazione elevata e duratura può causare all’economia e al potere d’acquisto di tutti noi. Tuttavia, molta meno attenzione è stata riservata alla seconda grande variabile macroeconomica, ovvero la crescita. Recentemente, si è tornati a parlare del rischio di una nuova ondata di inflazione, ma allo stesso tempo, anche di un’attività economica in frenata: tale combinazione di alta inflazione e crescita stagnante viene definita appunto stagflazione (crasi dei termini stagnazione e inflazione), per cui sono tornati sotto la lente degli investitori gli anni ’70 e ’80 quando gli alti deficit di bilancio del governo degli Stati Uniti, la politica monetaria accomodante, l’embargo petrolifero e la fine del gold standard hanno contribuito ad infiammare i prezzi al consumo, ma anche a rallentare la crescita. Nello scritto di oggi cerchiamo di fare luce sulle variabili che rendono il ritorno di un regime stagflattivo sempre più probabile, a prescindere dall’espansione della base monetaria. Nel dettaglio esamineremo dunque sia gli elementi che contribuiscono a mantenere alta l’inflazione che quelli che contribuiscono a rallentare la crescita economica della locomotiva americana.

Elementi che contribuiscono a sostenere l’inflazione

Il primo punto su cui vale la pena ragionare è la resilienza del mercato del lavoro, in tutto il mondo occidentale:

  • Spirale salari-prezzi: in tutto l’occidente, i salari reali son tornati positivi secondo la tipica spirale dei livelli dei prezzi in salita che alimentano a loro volta la crescita delle buste paga per i lavoratori (si veda il grafico qui sotto, riferito alla Germania)
  • Forza lavoro in ritirata: negli Stati Uniti si osserva che la partecipazione alla forza lavoro è crollata di oltre 8.2 milioni di persone (3 punti percentuali), e rimane ben al di sotto del livello pre-pandemia; la mancanza strutturale di manodopera ha perciò costretto le aziende a rivolgersi ad un bacino di lavoratori più ristretto, con molti impiegati che hanno cambiato lavoro chiedendo salari più elevati. Il grafico qui a lato mostra come un anno fa, il differenziale tra l’aumento dei salari tra i cosiddetti “job switcher” in grigio e “Job stayer” in arancione era ai massimi mai registrati con il 2.5% dei lavoratori americani – circa 4 milioni – che cambiava lavoro in media ogni mese da gennaio a marzo 2022 ovvero un turnover annualizzato di circa il 30% della forza lavoro.
  • Creazione di nuovi posti di lavoro ancora molto sostenuta: seppur in calo, rimane su livelli decisamente più elevati rispetto allo spartiacque storico dettato dall’emergenza pandemica del COVID-19 (grafico in basso).
  • Pressione sindacale: la spirale inflattiva che ha visto crescere i salari al tasso più alto mai visto da inizio millennio, è sostenuta inter alia dagli scioperi che proprio in queste ore stanno agitando importanti settori produttivi americani come quello dell’automotive, si pensi ai casi di General Motors, Ford e Stellantis: la United Auto Workers ha fatto sapere di prevedere un ampliamento delle proteste per massimizzare man mano la pressione sulle aziende in assenza di compromessi considerati accettabili; le Union americane hanno richiesto aumenti salariali del 40% in quattro anni, migliori benefit e riduzioni della settimana lavorativa. Lo stesso presidente Joe Biden ha spezzato una lancia in favore dello sciopero dei dipendenti delle case automobilistiche, affermando che «nessuno vuole uno sciopero, ma i profitti record non sono stati condivisi equamente e i lavoratori meritano la loro giusta parte». Last but not least, il mese scorso ha preso piede una negoziazione storica tra la Teamsters Union e il colosso UPS, terminata con un risultato davvero sorprendente: USD 170,000 di stipendio annuale e benefit per i trasportatori, su un orizzonte di 5 anni. Il grafico qui sotto mostra come oggi più che mai negli ultimi 15 anni gli scioperi possano diventare un serio problema in primis per le aziende dei paesi anglosassoni: il numero di giorni di sciopero è al livello più alto dai primi anni 2000 sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti.

Un ulteriore fattore a supporto della tesi di uno scenario stagflattivo è rappresentato dalla politica fiscale iper-espansiva: grazie agli stimoli fiscali erogati dal governo americano durante la pandemia, la ricchezza reale delle famiglie ha raggiunto dei livelli tali da consentire un consumo elevato di beni, sostenendo al contempo il rialzo dei prezzi degli stessi (grafico che segue).

Nel suo blog, ad inizio agosto, Ray Dalio (Fondatore e CIO di Bridgewater) ci aiuta a visualizzare lo stato attuale delle famiglie americane. La coppia di grafici riportati qui sotto mostra la ricchezza reale delle famiglie (linea blu) insieme ai livelli reali di attività e passività che la compongono: come si può vedere, i debiti reali (linea rossa) sono rimasti piatti dal 2018 mentre le attività reali (linea verde) sono aumentate, con conseguente aumento del patrimonio netto su livelli storicamente elevati in relazione al PIL.  

Le implicazioni di una politica fiscale iper-espansiva sono state oggetto di discussione anche durante il recente simposio dei banchieri centrali a Jackson Hole: in una ricerca accademica, presentata al summit, intitolata “L’inflazione come limite fiscale”, gli autori Bianchi e Melosi argomentano che senza vincoli sulla spesa fiscale, gli aumenti dei tassi renderanno il costo del debito più costoso e spingeranno più in alto le aspettative di inflazione. Questo perché, se in una prima fase lo shock di spesa positivo associato ad un aumento degli oneri fiscali, provoca pressioni inflazionistiche, successivamente il rialzo dei tassi innesca una recessione, che venendo combattuta dalle autorità governative con un aumento della spesa pubblica, genererà ulteriori sprazzi inflazionistici. In questo caso, non solo la banca centrale non è in grado di abbassare l’inflazione, ma aumentando i tassi rischia di sostenere un livello dei prezzi ancora maggiore, alimentando la stagnazione economica: questo risultato è stato ribattezzato “stagflazione fiscale”.

Infine, un’ultima variabile che sta alimentando le paure di stagflazione è la dinamica sostenuta dei prezzi delle materie prime:

  • Il petrolio la settimana scorsa ha toccato i massimi degli ultimi 10 mesi dopo che l’Amministrazione di Informazione Energetica degli Stati Uniti (EIA) ha detto che le scorte globali di petrolio rischiano di ridursi a seguito della decisione dell’Arabia Saudita di prolungare la sua produzione volontaria di 1 milione di barili al giorno fino alla fine di quest’anno, in un contesto in cui le scorte di barili della riserva petrolifera strategica americana sono ai minimi dal 1985. Il rialzo del prezzo è avvenuto rapidamente se si pensa che il 12 marzo 2023 il contratto WTI scambiava in area USD 67 al barile e al 15 settembre circa 36% al di sopra, a USD 91 al barile.
  • Dall’inizio della pandemia i prezzi dell’elettricità negli Stati Uniti sono aumentati del +31%, registrando nel 2022 il più grande aumento annuale della spesa per l’elettricità (grafico qui sotto). Inoltre, in ordine sparso: 
    • La gomma è in rialzo di oltre +10% nel corso dell’ultimo mese
    • La carne bovina è ai massimi storici, in rialzo di oltre il +40% da inizio anno
    • Lo zucchero è sui livelli massimi da 10 anni, in aumento di +35% rispetto gennaio 2023
    • Il succo di arancia è quasi raddoppiato anno su anno, mentre il cacao è in aumento di oltre il +50% nello stesso periodo

Elementi che contribuiscono a rallentare la crescita

  • Un poco usuale apprezzamento del dollaro in corrispondenza alla crescita del prezzo delle commodities: Il grafico sotto mostra come, nel 2021 e 2022, sia avvenuto un insolito movimento tra i prezzi delle materie prime che sono saliti congiuntamente all’apprezzamento del dollaro. La concomitanza di tali sviluppi, secondo una ricerca della Bank of International Settlement (BIS) ha aumentato significativamente il rischio di stagflazione e, coerentemente con questo, l’inflazione è aumentata in tutto il mondo (linea blu – grafico di destra), mentre la crescita economica è diminuita nel corso dello scorso anno (linea rossa). La ricerca della BIS su 22 economie mondiali, mostra come l’aumento dei prezzi delle materie prime e l’apprezzamento del dollaro aumentino il rischio di una crescita debole insieme a un’inflazione più elevata nelle economie non dipendenti dalle esportazioni di materie prime principalmente attraverso 2 canali: (i) costi della vita e della produzione; e (ii) condizioni finanziarie, cioè il livello dei tassi di interesse che determina l’accesso al credito. Un aumento dei costi dato dall’aumento dei prezzi delle materie prime esercita una pressione inflattiva sulle famiglie e aziende, il che riduce il reddito disponibile e quindi i consumi per le prime e gli investimenti per le seconde. A ciò si aggiunge che la crescita dei prezzi erode la capacità di rimborso del debito dei paesi importatori di materie prime e quindi la loro affidabilità creditizia, portando, perciò, ad un inasprimento delle condizioni finanziarie.
  • Dollaro up combinata alle commodities up è una coincidenza non comune per i mercati finanziari data l’abituale correlazione inversa che esiste tra i prezzi delle materie prime e la banconota americana, che posiziona il comportamento attuale delle due classi di investimento su un livello di correlazione positiva sui massimi da 20 anni a questa parte (grafico in basso, area rossa).  
  •  Condizioni di accesso al credito: al centro del ciclone c’è senza dubbio il settore immobiliare, un ambito economico in cui non si muove una foglia senza che ci sia almeno un pizzico di leva finanziaria… Partiamo dunque da qui: il blog macroeconomico “The Kobeissi Letter” riporta un’osservazione anomala per quanto riguarda gli affitti a New York, che rimanda palesemente ad un ambiente stagflattivo: a fronte di un calo del 14% della domanda per nuovi affitti rispetto all’anno scorso, il canone mensile medio per un appartamento si situa su livelli record, in rialzo del +7% rispetto all’anno scorso, o +35% sugli ultimi due anni. Inoltre, la stessa casa di ricerca ricorda che, anche se i tassi sui nuovi mutui si situano su livelli record degli ultimi 20 anni (al 7.5%), il tasso di interesse medio effettivamente pagato oggi sui mutui in essere, grazie a 15 anni di droga monetaria è di 3.5%: risulta improbabile quindi che i proprietari di immobili vendano le proprietà che hanno acquistato finanziandosi su livelli vantaggiosi, innescando di conseguenza una riduzione dell’offerta di immobili sul mercato che a sua volta può sostenere i prezzi.

La domanda a questo punto sorge spontanea? Come se ne esce? Quando se ne esce? Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale ha dimostrato che su un campione di oltre 100 shock inflattivi dagli anni ’70 in poi, quasi 1 su 2 non ha visto una traiettoria disinflazionistica lineare a distanza di 3-5 anni, ma al contrario l’inflazione dopo tre anni si situava o ad un livello strutturalmente più elevato o addirittura ripartiva con un’altra ondata (come evidenziato nel grafico), più forte della prima: per risolvere lo shock di inflazione, il tasso reale dettato dalle politiche monetarie è stato in media di 1 punto percentuale superiore rispetto al tasso reale osservato pre-shock.

Vengono quindi riportate sotto le evidenze attuali per gli USA e l’Europa: mentre in America (primo della coppia di grafici riportati qui sotto) il tasso reale è superiore ai livelli del periodo pre-pandemico ma sotto ai livelli del 2007 (i.e. 1.6% vs. 4%), in Europa la rilevazione risulta esser ancora in territorio negativo e quindi accomodante nei confronti del surriscaldamento dei prezzi.

Quanto alle ricadute nell’ambito degli investimenti, le implicazioni derivanti dal mutato equilibrio economico risultano molteplici e di complicata declinazione nell’allocazione dei propri asset nei decenni che arriveranno. Le obbligazioni del tesoro americane, ad esempio, sono diventate più volatili dell’oro per la prima volta in 45 anni, mentre il premio di rischio su asset azionari risulta azzerato, specialmente quando rapportato al rendimento offerto dal comparto obbligazionario. Pertanto, prediligere gli asset reali all’interno del proprio universo investibile rispetto agli asset nominali come le obbligazioni, includendo una parte di materie prime, risulta esser uno schema di gioco diverso, per certi versi innovativo rispetto a ciò a cui siamo abituati ma su cui vale senza dubbio la pena riflettere, per tentare di preservare il proprio potere di acquisto nel tempo.

Nei dieci anni pre-COVID l’inflazione è stata in media dell’1.8%, pertanto risulta difficile attendersi che l’inflazione raggiunga una media così bassa nel decennio a venire specie in un contesto come quello attuale dove le economie sviluppate stanno affrontando una crisi debitoria senza precedenti, un processo apparentemente irreversibile di deglobalizzazione, all’interno di un contesto geopolitico sempre più divisivo e antagonista, senza dover menzionare limiti cronici come il peggioramento della disuguaglianza all’interno della società, l’invecchiamento della popolazione ed un accesso limitato alle risorse naturali essenziali. Un brillante futuro insomma… dietro le spalle.

Approfondimento a cura di Mattia Segre e Nicola Lampis

Lugano, 24 settembre 2023

    Visioni non convenzionali dal mondo della finanza: ogni settimana, analisi e approfondimenti per stimolare riflessioni.

    scrivendomi alla newsletter acconsento al trattamento dei miei dati e dichiaro di aver preso visione della Privacy Policy