(foto: I soliti sospetti, film, 1995)
«E ancora, un gruppo di soldati cattura una ragazza, la violenta e poi la uccide, venticinque anni esatti prima che io nascessi; questo piccolo dettaglio, a cui altri potrebbero non pensare due volte, rimarrà con me.» (Adania Shibli, Un dettaglio minore)
Nonostante la situazione sia ancora in divenire e l’analisi difficilmente possa essere puntuale come invece consentirebbe uno studio ex post, con lo scritto di oggi non possiamo esimerci da tentare una riflessione su quanto sta avvenendo in Medio Oriente.
L’irruzione in Israele da parte di Hamas ha colto tutti di sorpresa: per drammaticità ricorda l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e simmetricamente apre un nuovo capitolo del conflitto israelo-palestinese.
Nella scelta del titolo, come nostra abitudine, prendiamo spunto dalla cultura pop cinematografica e riproponiamo la domanda che suona come un refrain in uno spettacolare e ormai datato thriller poliziesco del 1995: I soliti sospetti. Il film è incentrato su un sopravvissuto ad una sparatoria che racconta gli eventi che l’hanno causata. Il sopravvissuto, Verbal Kint (Kevin Spacey), rivela che tutta la vicenda è ascrivibile alle trame di un leggendario signore del crimine turco che molti credono non esista: Keyser Söze. Alla fine del film, si scopre che il racconto di Kint è, in realtà, ispirato dai diversi elementi esposti alle spalle dell’agente che lo interroga. Quest’ultimo crede alla fantasiosa ricostruzione perché porta a identificare il fantomatico terrorista con un poliziotto corrotto a cui sta dando la caccia da tempo e lascia andare Kint. In altri termini, è esattamente ciò che vuol sentirsi dire.
Questa introduzione ci appare tanto più opportuna quanto più le principali narrazioni sul perché dell’attacco ad Israele del 7 ottobre e della sua successiva reazione che rimette la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo tendono a concentrarsi su elementi decontestualizzati ed emotivamente polarizzanti, che fanno di tutto per spingere ognuno di noi a compiere valutazioni di tipo morale. Qui, invece, vogliamo adottare un approccio realista basato sulla dinamica azione-reazione[1].
Come nell’osservazione di un quadro, partiamo da lontano, guardando lo scenario nel suo complesso per poi avvicinarci ai dettagli.
L’elemento più generale da considerare, a nostro avviso, è la situazione globale di forte squilibrio dettato dallo spostamento, più o meno graduale, dei rapporti di forza verso un nuovo ordine multipolare, dove la voce dell’occidente a guida statunitense, percepito dal resto del mondo come l’insieme delle potenze ex coloniali, non sia più l’unica a contare. Sebbene, il ruolo di egemone degli Stati Uniti sia stato finora garantito dall’esercito e dal controllo del sistema finanziario mondiale, questi due pilatri sono oggi vacillanti. In particolare, la supremazia militare statunitense è messa in discussione dalla capacità che la Federazione Russa sta dimostrando nel tenere testa alla Nato in Ucraina. Quest’ultimo punto dev’essere tenuto a mente: per il resto del mondo non occidentale il confronto bellico in Europa non è tra Ucraina e Federazione Russa, bensì tra quest’ultima e la Nato diretta da Washington[2].
Il risultato è il declino del potere di deterrenza degli Stati Uniti e la conseguente possibilità per attori regionali in competizione strategica, fino a questo momento attenti ad evitare comportamenti sanzionabili dall’Egemone, di affermare il proprio primato nelle rispettive sfere di influenza. Da qui dobbiamo partire: l’apertura di spazi di opportunità.
Scendendo più nel particolare del quadrante mediorientale troviamo la stratificazione di più livelli di complessità.
Dopo anni di impegni tra il Mediterraneo e il Golfo persico, l’operazione di riorientamento strategico di Washington verso l’Indo-Pacifico con la necessità di spostare la propria presenza militare più verso oriente in chiave di contenimento cinese, la rapida ritirata dall’Afghanistan nonché la decisione del Congresso americano circa il tetto del debito che congela gli aiuti all’Ucraina e la spaccatura interna sul punto, sono tutti fattori che si ripercuotono in negativo sulla percezione della disponibilità degli USA a supportare i propri partner, tra cui Israele.
La grave questione interna israeliana
Sebbene Israele sia una potenza militare nel quadro mediorientale, gli ultimi sviluppi politici interni ne hanno eroso la solidità. Con la rielezione di Netanyahu, Israele si è polarizzata in due fazioni che sostengono due visioni inconciliabili del proprio futuro, tanto che qualcuno ha parlato di rischio guerra civile.
Il tasso di crescita annuale della popolazione ultra-ortodossa di Israele, pari al 4%, è più alto di qualsiasi altro gruppo di popolazione nei paesi sviluppati. Alla base di questo tasso di crescita unico ci sono alti tassi di fertilità, moderni standard di vita e assistenza medica e una giovane età al primo matrimonio. La popolazione ultraortodossa di Israele è molto giovane, con quasi il 60% dei suoi membri sotto i 20 anni, rispetto al 31% della popolazione generale. Nel 2022, la popolazione ultraortodossa ammontava a circa 1.280.000, rispetto ai circa 750.000 del 2009, e costituiva il 13,3% della popolazione totale. Secondo le previsioni dell’Ufficio Centrale di Statistica, la sua dimensione relativa aumenterà al 16% nel 2030, e conterà due milioni di persone entro il 2033.
Per capirne l’importanza, dobbiamo fare riferimento al discorso pronunciato alla conferenza di Herzliya del giugno 2015 dall’allora presidente Reuven Rivlin, il quale suddivise la società israeliana in quattro componenti: sionista-laica, sionista-religiosa, ultraortodossa e araba. In passato, spiegò Rivlin, la componente sionista-laica è stata sempre la più numerosa e includeva oltre metà della popolazione di Israele. Se storicamente la componente sionista-laica era la principale, oggi sta perdendo la sua centralità per motivi demografici[3]. Si contrappongono, quindi, differenti visioni sull’essenza stessa di Israele che hanno generato uno stato di profonda crisi, politica e culturale [4].
La coalizione ultraortodossa al governo oggi è la più nazionalista ed estremista della storia di Israele.
In sintesi, gli estremisti religiosi hanno bisogno della revisione giudiziaria per applicare quelli che sembrano dei veri e propri piani messianici. Questi includono l’annessione dei territori occupati senza riconoscere i diritti civili ai palestinesi, un’economia neoliberista estrema e un’espansione dell’halacha (la legge ebraica nella sua interpretazione fondamentalista) come legge del paese.
In tal senso, la destra nel governo Netanyahu ha preso due impegni precisi:
– la ricostruzione del Tempio sull’Haram al-Shariff (Monte del Tempio) che, per essere chiari, comporterebbe la demolizione della moschea di al-Aqsa in quanto contenente il Sancta Sanctorum, la pietra dove Abramo legò Isacco, necessaria all’altare del Tempio stesso per la ripresa del sacrificio. La moschea di al-Aqsa, però, non è un edificio di culto qualsiasi ma per tutta l’umma è il terzo luogo santo assieme alla Mecca e Medina, tanto da essere definita il «posto più vicino al Paradiso»[5];
– rifondare l’Eretz Yisrael, il Grande Israele: la rifondazione dello Stato su base etnica che si estende su tutta la terra promessa e definita nella Bibbia (Genesi 15:18-21) e che comprende le porzioni di territorio in cui sono insediati i palestinesi, Gaza e Cisgiordania. In altri termini, ciò comporterebbe l’espulsione di questi ultimi.
Il primo ministro israeliano ha certificato tale visione presentando una mappa del “Nuovo Medio Oriente” senza la Palestina durante il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York lo scorso 22 settembre[6].
L’avversione a questi progetti ha portato l’opposizione nelle piazze con il più grande movimento di protesta della storia israeliana, minacciando la tenuta istituzionale. I riservisti avevano addirittura minacciato di rifiutarsi di prestare servizio, allarmando i capi delle forze di difesa israeliane (IDF). Qualcuno ritiene che l’attenzione posta sul fronte interno ne avrebbe influenzato la prontezza operativa e avrebbe dato ad Hamas l’opportunità di attaccare creando, però, allo stesso tempo, le condizioni in cui Israele può effettivamente tentare di assorbire tutto ciò che resta della Palestina, proprio come l’11 settembre ha creato le condizioni affinché i neoconservatori lanciassero le guerre che avevano pianificato in Medio Oriente.
Gli obiettivi di Hamas
La mossa di Hamas è stata innescata da una serie di fattori. Innanzitutto, giovedì 5 ottobre (due giorni prima dell’operazione Al-Aqsa Flood), più di 800 coloni hanno preso d’assalto il complesso della moschea, sotto la piena protezione delle forze israeliane. Già due anni fa, una campagna missilistica fu lanciata da Gaza su Tel Aviv in risposta al fanatismo religioso del Movimento del Monte del Tempio e all’invasione della moschea di al-Aqsa. Come due anni fa, i palestinesi hanno aderito all’appello per salvaguardare la Sacra Moschea. Il grido di battaglia e lo stesso nome dell’operazione fa riferimento ad al-Aqsa. Evidentemente le intenzioni di Israele sulla moschea sono note da tempo e non poteva non esserci una conseguente preparazione.
Ovviamente, la strategia di Hamas comprende valutazioni più ampie. Da oltre un decennio ormai, il paralizzante blocco economico israeliano, la divisione politica interna palestinese tra Hamas a Gaza e Al Fatah in Cisgiordania e tre importanti operazioni militari israeliane contro Gaza hanno spinto l’enclave palestinese sull’orlo del collasso.
HAMAS
Hamas, che letteralmente significa “zelo”, è l’acronimo arabo per “movimento di resistenza islamica”. Il gruppo è stato fondato nel 1987, a Gaza, come ramo dei Fratelli Musulmani, un importante gruppo sunnita con sede in Egitto. Emerso durante quella che è conosciuta come la prima intifada o rivolta dei palestinesi contro l’occupazione israeliana, Hamas adottò rapidamente il principio della resistenza armata e invocò l’annientamento di Israele.
La politica palestinese è cambiata in modo significativo dopo gli accordi di Oslo del 1993 , una serie di accordi negoziati tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) con l’obiettivo di stabilire un accordo di pace globale. In opposizione al processo di pace, il braccio armato di Hamas, le Brigate al-Qassam, si è affermato come la principale forza di resistenza armata contro Israele. Ha lanciato una serie di attentati suicidi che sono continuati durante i primi anni della Seconda Intifada (2000-2005), prima di passare ai razzi come tattica principale.
Come Hezbollah, Hamas opera come partito politico. Ha vinto le elezioni parlamentari nel 2006 e nel 2007 ha ottenuto il controllo della Striscia di Gaza.
I meccanismi attivati a livello internazionale per andare incontro ai complessi problemi di Gaza, non sono sufficienti per sollevare il paese dalle sue terribili condizioni e metterlo su una traiettoria di ripresa sostenuta e di elevata crescita economica. L’implicazione politica è abbastanza chiara: affinché qualsiasi intervento futuro sia efficace nell’affrontare le crescenti difficoltà socioeconomiche di Gaza, le sue condizioni politiche e di sicurezza devono essere fermamente stabilizzate e certamente il non riconoscimento internazionale dell’attuale leadership di Hamas non aiuta e il solo supporto iraniano non basta. Questa implicazione, per sua stessa natura, richiede un nuovo approccio strategico per ricostruire il territorio palestinese in difficoltà[7]. Hamas ha quindi bisogno del sostegno delle monarchie arabe, in particolare di Riyad, per la ricostruzione di Gaza.
Nel 2020, gli Stati Uniti hanno facilitato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avvicinato Israele e gli Emirati Arabi Uniti nonché, in una certa misura, Israele e Arabia Saudita attraverso il Bahrein. Gli accordi davano priorità alla creazione di un fronte comune contro l’Iran piuttosto che alla solidarietà araba sulla questione palestinese.
L’obiettivo più strategico, dunque, è molto probabilmente quello di assestare un colpo al processo di distensione tra Israele e Arabia Saudita e cercare di portare dalla propria parte quei paesi arabi, in particolare le petro-monarchie, che negli ultimi anni hanno portato avanti una politica vicina agli USA e ritenuta quindi contraria agli interessi dei palestinesi. Infatti, se fosse stato concluso un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, ciò avrebbe rappresentato l’eliminazione delle già deboli possibilità di una soluzione a due Stati.
Infine, va osservato che Hamas si è rafforzata negli ultimi anni. Il movimento ha dovuto riconsiderare la posizione politica assunta in seguito alla Primavera Araba del 2011, in opposizione all’Iran e al suo alleato siriano. Un importante fattore geopolitico per la competizione regionale, infatti, è il riavvicinamento e il coordinamento con l’Iran e la sua rete rappresentata da Hezbollah e dalle Milizie affiliate in Siria, Iraq e Yemen, quella che viene chiamata dall’Ayatollah Kamenei “l’asse della resistenza”.
Iran
Anche per la Repubblica Islamica gli accordi di Abramo sono visti con forte preoccupazione. Il tentativo di Riyad di normalizzare rapporti con Israele e, grazie agli USA, di sviluppare le sue capacità nucleari, avrebbe rafforzato la posizione dell’Arabia Saudita rispetto all’Iran, il suo principale rivale nella regione.
La proiezione iraniana sulla regione, la cosiddetta mezzaluna sciita, ha goduto di una certa efficacia nel momento in cui la compagine sunnita si era divisa all’indomani delle Primavere Arabe. Un’alleanza arabo-sunnita sommata allo Stato ebraico avrebbe rappresentato una minaccia per l’affermazione dell’Iran nel quadrante mediorientale e accentuato il suo isolamento.
L’Iran decide di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita con mediazione della Cina, per diminuire i rivali e prepararsi allo scontro con Israele che ritiene essere l’unica potenza concorrente. Fa così anche il gioco della monarchia saudita interessata a ridurre le conflittualità interne, soprattutto nel sud del Paese dove ci sono minoranze sciite, che possono minare la stabilità della casa regnante.
L’attacco di Hamas, sostenuto dall’Iran, e la successiva ritorsione di Israele contro Gaza rendono questo accordo meno probabile.
In definitiva, l’azione offensiva di Hamas è stata favorita da un insieme di elementi decisivi per gli equilibri della regione. L’esito del conflitto, dunque, proprio come le sue cause, avranno riflessi tanto regionali quanto globali. Dal punto di vista regionale, regolerà i futuri rapporti tra il mondo arabo e lo Stato ebraico e impatterà sulle politiche volte al contenimento delle ambizioni di Teheran; dal punto di vista globale, ridurrà le capacità statunitense di influenzare le politiche mediorientali e si apriranno plausibilmente maggiori spazi di manovra per Cina e Russia.
L’allineamento tra Russia, Cina e Iran
Dal punto di vista geopolitico, infatti, la guerra mette in luce un crescente allineamento tra Cina e Russia (nessuna delle due ha condannato l’attacco di Hamas) e Iran, che potrebbe creare nuove vulnerabilità per gli Stati Uniti se la guerra in Ucraina o le azioni militari assertive della Cina intorno a Taiwan e nel Mar Cinese Orientale e Meridionale dovessero intensificarsi.
Come nel caso della guerra in Ucraina, molti paesi del Sud del mondo hanno condannato la violenza ma incolpano Israele per le cause profonde, vale a dire la sua occupazione di lunga data dei territori palestinesi. Ciò replica quanto accaduto con l’invasione russa dell’Ucraina, dove molti nel Sud del mondo hanno condannato le tattiche militari di Mosca ma hanno concordato con la Russia che anni di aggressione della NATO le avevano lasciato poche opzioni. Se prima la tendenza era verso una divisione tra occidente e resto del mondo, l’attacco di Hamas l’ha ulteriormente aggravata.
Impatto sul mercato dell’energia
Se il conflitto israelo-palestinese dovesse allargarsi, il petrolio potrebbe ridiventare la principale arma di pressione. I prezzi del petrolio sono scesi dal picco di 115 dollari raggiunto nel giugno 2022, nonostante i tagli alla produzione da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati nell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Il 4 ottobre, pochi giorni prima degli attacchi in Israele, l’Opec ha confermato che avrebbe mantenuto i tagli alla produzione fino alla fine del 2023.
I tagli alla produzione da parte di Riyad, di altri membri dell’Opec e della Russia, significano che vi è una notevole capacità inutilizzata nel caso in cui l’offerta di petrolio venga inaspettatamente ridotta. Il fatto che l’Arabia Saudita venga ora condotta sempre più tra le braccia di Russia e Cina (diventerà un membro ufficiale dei BRICS a partire dal 1° gennaio 2024), rafforzando il suo radicamento nel blocco orientale, potrebbe essere un problema qualora si esacerbasse lo scontro con l’occidente e questi paesi decidessero di usare il petrolio, appunto, come arma di pressione[8].
La situazione attuale, infatti, ricorda il 1973, quando i produttori arabi guidati dall’Arabia Saudita imposero un embargo petrolifero ai sostenitori occidentali di Israele nella sua guerra con l’Egitto, prendendo di mira Canada, Giappone, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Stati Uniti. La conseguenza fu un aumento dei prezzi del petrolio. Potrebbe ripetersi una simile situazione?
Un campanello d’allarme è suonato con le dichiarazioni del Ministro degli Esteri iraniano che ha chiesto un embargo totale di petrolio e gas da parte dei paesi musulmani contro le nazioni che sostengono Israele[9].
Anche il ruolo dell’Iran viene monitorato attentamente. Sebbene il petrolio iraniano sia sanzionato, recentemente è affluito in volumi significativi verso la Cina e altrove, allentando i mercati petroliferi sulla scia delle restrizioni imposte al petrolio russo. L’Iran possiede le quarte riserve petrolifere più grandi del mondo ed è esentato dalla politica dei tagli volontari delle quote dell’Opec+. Quindi, funge da stabilizzatore del prezzo del petrolio. Inoltre, l’Iran può agire sui transiti attraverso i noti punti di strozzatura del Golfo Persico provocando il caos sui mercati globali. Ciò è sottolineato dal fatto che quelli che hanno caldeggiato la ripresa delle esportazioni iraniane sono proprio gli Usa che guardano alla campagna elettorale del 2024. Anzi, potremmo parlare di convergenze parallele: gli Stati Uniti stavano lavorando per ridurre le tensioni con l’Iran e procedere verso una graduale ripresa dell’accordo nucleare iraniano/piano d’azione congiunto globale (JCPOA) del 2015 da cui gli Stati Uniti si erano ritirati nel 2018 durante la presidenza di Donald Trump. Entrambi i paesi hanno effettuato uno scambio di prigionieri e gli Stati Uniti hanno anche sbloccato i beni dell’Iran per un importo di 6 miliardi di dollari.
IL PETROLIO COME ARMA
Il 6 ottobre 1973, proprio nei giorni in cui si celebrava la festività ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono Israele per riconquistare la penisola del Sinai e le alture del Golan, territori che avevano perso dopo la sconfitta araba contro gli israeliani nella Guerra dei sei giorni del 1967. Re Faysal d’Arabia, che si era impegnato con il presidente egiziano Anwar al-Sadat a usare “il petrolio come arma”, convocò una riunione degli stati arabi dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) il 16 ottobre, durante la quale si decise di ridurre gradualmente la produzione e di aumentarne il prezzo per minare il sostegno a Israele in Occidente. Il 19 dello stesso mese fu decretato l’embargo sulla vendita di petrolio greggio agli Stati Uniti per il loro sostegno agli israeliani, seguito dall’embargo ai Paesi occidentali che assunsero la stessa posizione.
Attenzionato è anche l’Iraq, il secondo produttore Opec con circa 5 milioni di barili al giorno. Già raso al suolo dagli americani, si è espresso in modo risoluto a favore della causa palestinese e di essere pronto al sostegno militare.
Questo è il motivo per cui il ruolo di Riyad è particolarmente rilevante e avrebbe un’influenza ancora maggiore se le cose andassero davvero male, a causa del dominio petrolifero globale dell’Arabia Saudita.
Queste sono solo alcune delle ragioni per cui gli Stati Uniti sono allarmati e, aldilà delle dichiarazioni di rito, probabilmente stanno frenando Israele…molto più del meteo.
Concludiamo questo approfondimento con una nota che riecheggia tristemente la pessima abitudine che si è radicata in Europa con il conflitto ucraino: punire intellettuali, artisti o sportivi per la loro appartenenza. Sui quotidiani del 14 ottobre abbiamo letto dell’esclusione dalla cerimonia di premiazione della Fiera del libro di Francoforte di Adania Shibli, l’autrice palestinese del romanzo Un dettaglio minore, pubblicato in Italia da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi. Il libro della Shibli ha suscitato molte polemiche perché racconta la storia (vera) di una beduina stuprata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949 ed è accusato di mettere in cattiva luce Israele. Il libro si è aggiudicato il prestigioso premio LiBeraturpreis, dato ad autori provenienti da Asia, Africa e mondo arabo. Crediamo abbia tutte le credenziali per essere letto e giudicato, senza la preventiva censura morale del politicamente corretto.
Approfondimento a cura di Gilberto Moretti
Lugano, 22 ottobre 2023
[1] Cfr. Fagan, P., Il neo-nazionalismo morale occidentale, in pierluigifagan.wordpress.com, 15.10.2023.
[2] Cfr. Moretti, G., Endgame, in brightside-capital.com, 30.04.2023.
[3] Cfr. Aa.Vv., Statistical Report on Ultra-Orthodox Society in Israel, in The Israel Democracy Institute, 31.12.2022.
[4] Cfr. Weizmann, C., In ballo c’è la proprietà dello Stato, in Limes, Israele contro Israele, n. 3/2023.
[5] Cfr. Crooke, A., ‘Al-Aqsa Flood’: The surprise is that some are surprised, in Al Mayadeen, 08.10.2023.
[6] AA.Vv., Israel-Saudi Arabia: Netanyahu promotes normalisation with new map erasing Palestine, in Middle East Eye, 22.09.2023.
[7] Cfr. Samhouri, M., Rethinking Gaza’s Reconstruction, in The Cairo Review of Global Affairs, 2019.
[8] Cfr. Sullivan, A., Oil markets watchful amid Israel-Hamas war, in DW Made for minds, 12.10.2023.
[9] Cfr. Said, S., Iran’s Foreign Minister calls for Muslim Nations to impose oil embargo on Israel, in The Wall Street Journal, 19.10.2023.