No one you can save that can’t be saved
Nothin’ you can do, but you can learn how to be you in time
It’s easy
All you need is love – The Beatles
La seguente citazione, tratta da un romanzo post apocalittico dell’autore G. M. Hopf, introduce una visione ciclica della storia che riecheggia l’anaciclosi polibiana: “I tempi difficili creano uomini forti, gli uomini forti creano tempi buoni, i tempi buoni creano uomini deboli e gli uomini deboli creano tempi difficili.” O, per dirla come l’attuale c.t. della nazionale italiana di calcio, “uomini forti destini forti, uomini deboli destini deboli”.
La ciclicità della storia è una lente utile per analizzare lo scenario macroeconomico, specialmente nell’attuale fase di fine del ciclo del debito di lungo termine nonché di crisi generazionale. In tal senso, lo scritto odierno punta quindi ad analizzare da vicino l’intreccio storico tra livelli di debito insostenibili, guerra e inflazione.
Fine del Ciclo di Lungo Termine: imperi a confronto
Secondo Ray Dalio, uno degli hedge fund manager di maggior successo e tra i più influenti raconteur della storia economica dei cicli del debito, uno dei motivi principali per cui questi si creano è la lassezza dei policy makers, che preferiscono una bonanza fiscale per alimentare la crescita nel corto termine, puntando in modo opportunistico ad accrescere solamente il proprio capitale politico. E sono proprio gli US a cadere nel mirino di Dalio in un’intervista rilasciata su Bloomberg ad inizio di quest’anno, in quanto:
- si sta verificando uno sbilanciamento tra domanda e offerta sul debito americano;
- stanno emergendo politiche populiste, con frange estreme su entrambi i lati dello spettro politico;
- la polarizzazione della ricchezza è su livelli storicamente estremi (grafico sotto);
- i problemi economico fiscali sono affrontati da un fronte politico domestico frammentato e in opposizione.
H. Cullum Clark, direttore del Bush Institute-SMU Economic Growth Initiative, osserva che, nel corso della storia, i paesi che hanno optato per una spesa pubblica e un debito pubblico sempre crescenti hanno minato le loro economie e la loro posizione nel mondo. In un saggio pubblicato nel 2020, il politologo rileva che, nonostante gli apologeti della sfrenata spirale fiscale americana odierna sostengano che le lezioni della storia non si applichino agli Stati Uniti in quanto emettenti la principale valuta di riserva mondiale e principale potenza geopolitica, le vicende delle grandi potenze del passato disegnano uno scenario contrastante.
Iniziamo un rapido excursus storico con l’Impero Romano che, frugale e finanziariamente stabile durante il regno di Augusto e tutto il periodo dell’Alto impero (27 a.C. – 284 d.C.), conobbe in seguito una crescita esplosiva della spesa per l’amministrazione imperiale e l’esercito. Gli imperatori ricorsero al finanziamento attraverso la svalutazione della moneta, generando una massiccia inflazione che indebolì il settore agricolo, la classe media e il sistema creditizio, minando la stabilità politica ed indebolendo le difese esterne dell’Impero.
La Spagna imperiale, lo stato leader nell’Europa moderna sotto Carlo I e Filippo II, finanziò avventure militari insostenibili attraverso una tassazione schiacciante, la svalutazione della moneta e ingenti prestiti da parte dei banchieri genovesi e tedeschi. Il risultato: “crowding out” dell’industria castigliana, declino del commercio nei centri urbani, mancanza di investimenti in infrastrutture e nell’università, crollo del credito della monarchia, crisi finanziarie ricorrenti dalla fine del XVI secolo in poi, fino ad arrivare al declino geopolitico dopo la disastrosa sconfitta dell’Invincibile Armada contro l’Inghilterra nel 1588.
Questo schema si ripeté anche nella Francia del XVIII secolo, dove il “Re Sole” Luigi XIV finanziò il suo avventurismo all’estero e la sontuosa corte di Versailles con l’aumento delle tasse ed enormi prestiti: queste politiche rallentarono l’industrializzazione della Francia, distrussero la sua affidabilità creditizia e generarono acute crisi fiscali che terminarono in catastrofiche violenze fino alla rivoluzione del 1789.
La Cina era l’economia principale del mondo prima del 1800. Tuttavia, le crescenti spese della dinastia Qing per ampliare l’amministrazione imperiale portarono ad un aumento delle tasse e dei prestiti esteri. Conseguentemente, calarono gli investimenti nei canali d’irrigazione, le fornaci di ferro che avevano funzionato per 800 anni chiusero e le poche moderne aziende del settore privato che nacquero non riuscirono a decollare per mancanza di capitali.
Avendo quindi ripercorso brevemente secondo una prospettiva storica contesti per certi versi assimilabili a quello attuale, può essere d’aiuto guardare da vicino i ritorni delle principali classi di investimento nelle fasi finali degli ultimi tre cicli di debito a lungo termine, laddove la performance dell’oro risulta esser la più premiante, come evidenziato dalla tabella seguente:
Repressione finanziaria e guerra
Quando si parla di crisi generazionale non possiamo non citare il pensiero socioeconomico di Neil Howe: all’interno di un costrutto analitico incentrato sulla ciclicità, l’autore ritiene che gli Stati Uniti stiano entrando ora in una crisi la cui risoluzione trasformerà la società americana ed il suo posto nel mondo entro il 2030. Nel 1997 Howe e Strauss pubblicarono appunto “The Fourth Turning”, descrivendo un ciclo di quattro generazioni composto dalle fasi di (i) rinnovamento, (ii) stabilizzazione, (iii) declino e (iv) crisi nella storia anglo-americana: ogni “svolta” generazionale dura circa 20 anni, quindi un ciclo completo dura circa 80 anni, con l’inizio del ciclo attuale fissato nel 1946. La quarta svolta, la fase di “crisi” o di conflitto della società civile, secondo i due studiosi, avrebbe raggiunto il culmine intorno al 2020, prima di risolversi con successo attraverso la ristrutturazione economica intorno al 2026.
Proviamo dunque a guardare alle fasi finali dei cicli precedente, caratterizzati da repressione finanziaria, guerre e tassi di inflazione elevati, per trovare delle chiavi di lettura comuni con la fase storica attuale. Il riferimento cruciale è l’esperimento di controllo della curva dei tassi, o “yield curve control” (YCC), al di sotto del livello di inflazione medio annuo durante gli anni ’40 del secolo scorso ad opera dell’apparato burocratico americano (grafico qui sotto): per permettere all’inflazione di distruggere il valore reale del debito, la FED non solo blocco’ il tasso di riferimento a breve attorno allo 0.375%, ma anche le scadenze più lunghe sotto al tetto del 2.5%, nonostante un’inflazione di oltre il 60% nel periodo di osservazione (una media annualizzata del 5.86% tra il 1941 ed il 1951). Nel giugno 1941, Emanuel Goldenweiser, direttore della Divisione di Ricerca e Statistica presso il Consiglio della Federal Reserve, raccomandava infatti di “stabilire un tasso definito per le emissioni di titoli del Tesoro a lungo termine e di tenerlo frenato visto la situazione emergenziale bellica”: dalla fine dell’anno 1941 alla fine dell’anno 1945, l’indebitamento del Tesoro americano aumentò da USD 58 miliardi a USD 276 miliardi, con una monetizzazione da parte dello stato di circa il 75% dei T-bills in emissione.
La strategia di YCC è sempre centrale quando governi molto indebitati devono riuscire a liberarsi in qualche modo di questo fastidioso fardello; serve un esempio più recente? L’indebitatissimo Giappone, nel 2016 introduce esattamente lo Yield Curve Control:
Partendo dal debito, passando per l’inflazione e arrivando alla guerra, i parallelismi tra il contesto socioeconomico finanziario attuale e il periodo della WWII, sono estremamente rilevanti: le crisi del debito sovrano tendono a portare alla guerra e le guerre tende a portare alle crisi del debito sovrano. Debito e guerra sono infatti partner costanti: “la crisi finanziaria globale è stata dovuta, almeno in parte, alla guerra”, ha scritto l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, calcolando che il costo dell’intervento statunitense in Afghanistan e Iraq, prima del crollo della grande crisi finanziaria, fosse stato di USD 3 trilioni; si pensi invece che solo nel 2015 i contribuenti britannici hanno finito di ripagare il denaro preso in prestito per combattere la Prima Guerra Mondiale. Secondo il Watson Institute della Brown University, il costo delle guerre statunitensi nel ventennio 2001-2022 ammonta a USD 8mila miliardi di dollari, ovvero più della metà dell’aumento dei 15mila miliardi di debito in quel periodo; gli altri 7mila miliardi deriverebbero più o meno in egual misura dai deficit di bilancio causati dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla pandemia Covid-19. Non sembrerebbe dunque esser nell’interesse del complesso militare industriale mantenere una postura di responsabilità fiscale tramite la diplomazia. A differenza della prima parte del secolo scorso però gli USA stanno conducendo una politica fiscale e commerciale in forte deficit, rendendola più simile al Regno Unito degli anni ’40, dunque ad un impero decadente, piuttosto che ad una potenza produttrice in fase ascendente. A questo proposito, l’analista Lyn Alden evidenzia che l’egemonia britannica se ne andò con un sospiro, piuttosto che con un botto: pur avendo contribuito alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti sancirono la fine del predominio del Regno Unito durante la crisi di Suez del 1956, intimando all’alleato di astenersi dall’invasione, tramite la minaccia da parte del Presidente Eisenhower di mandare in tilt il sistema finanziario britannico vendendo in massa le obbligazioni governative in sterline.
Certo è che l’influenza della lobby bellica statunitense detiene nei confronti della scelte governative, è di grandissima rilevanza: chi avesse voglia di approfondire, puo’ dare un occhio alla breve ma folgorante intervista a Mitch McConnel, uno dei più longevi leader di partito nella storia degli Stati Uniti. Di seguito i punti salienti:
- gli aiuti bellici agli alleati americani consentono di ri-modernizzare l’apparato industriale militare americano, in quanto vengono inviate armi datate e la spesa fiscale indirizzata sul fronte domestico;
- dal momento che non stanno morendo americani e i nostri nemici ne risultano indeboliti, l’attuale linea politica a sostegno dell’Ucraina va sostenuta (video completo a questo link).
Status quo ed exit strategy
E’ evidenza ormai condivisa che in un mondo dove i tassi di interesse sono più alti del tasso di crescita dell’economia, la crescita dei salari o delle entrate fiscali di un paese molto indebitato sarà più lenta della crescita degli esborsi legati agli interessi accumulati sui suoi prestiti, con conseguente effetto spirale che può potenzialmente portare i livelli di debito ad esplodere, specie in una fase di forte rallentamento economico. Gli attuali livelli di debito, molto sostenuti, sono stati gestiti con relativa facilità “nell’era a tassi a 0” degli anni 2010-2020, ma non è detto che lo stesso valga anche nel contesto attuale. Un recente studio, firmato da Serkan Arslanalp (FMI) e Barry Eichengreen (Università della California), argomenta come nel corso della storia i governi smaltiscano i livelli di debito o tramite austerità (limitando il deficit primario) o in maniera “aritmetica”.
1. Austerità
Negli anni ’20 dell’Ottocento, dopo le guerre napoleoniche, i debiti della Gran Bretagna raggiunsero quasi il 200% del Pil; la guerra franco-prussiana lasciò la Francia con quasi il 100% di rapporto debito / PIL negli anni ’70 dell’Ottocento: tuttavia, tra il 1822 e il 1913 la Gran Bretagna aveva avanzi primari sufficienti a ridurre il rapporto debito/PIL di oltre 180 punti percentuali e la Francia fece abbastanza per ridurre il suo rapporto di 100 punti percentuali in soli 17 anni dopo il 1896. Chiaramente gli autori sono scettici che questo “miracolo fiscale-monetario” possa ripetersi nel contesto delle democrazie attuali: gli stati moderni sono gravati in primis dall’invecchiamento della popolazione (welfare); aggiungiamo poi in ordine sparso la necessità di maggiori spese per la difesa e la transizione energetica che fungono da naturali acceleratori di spesa. Senza dimenticare (questo lo diciamo noi) la leadership politica, sempre meno incline ad uno stile di governo fondato sulla parsimonia e sulla disciplina di bilancio.
2. Approccio Aritmetico
Implica che la crescita economica sia talmente sostenuta da sorpassare il tasso di interesse reale, con conseguente diminuzione del rapporto debito / PIL, in linea con quanto, ad esempio, sta succedendo in seguito alla riapertura post pandemica: gli stock di debito delle economie avanzate sono infatti diminuiti di circa dieci punti percentuali dopo l’impennata nel 2020 (qui sotto il rapporto debito / PIL per l’Italia). A meno che l’intelligenza artificiale o un’altra svolta tecnologica oggi sconosciuta non determinino un cambiamento radicale nella crescita della produttività, le economie sviluppate odierne non hanno chiaramente alcuna possibilità di eguagliare i tassi di espansione del dopoguerra: solo in US, l’economia leader e piu’ dinamica dell’occidente, il PIL è previsto in crescita ad uno stiracchiato tasso annuo del 2% nel prossimo decennio. Inoltre il bilancio statale, come appena spiegato, è gravato da livelli crescenti di spesa militare oltre che dall’invecchiamento della popolazione, all’aumento dei costi sanitari e ai problemi fiscali legati al costo attuale del debito. Tutte queste dinamiche pongono immediatamente un limite alla strategia aritmetica.
L’unica strada praticabile per ridurre il debito sembrerebbe dunque la repressione finanziaria tramite tassi bassi a fronte di un’inflazione elevata; le implicazioni sociali di una scelta di questo tipo sono pero’ enormi: l’abbandono da parte delle banche centrali degli obiettivi di stabilità dei prezzi e dunque di controllo dell’inflazione, che sarebbe appunto la pietra angolare del nuovo approccio, farebbero assomigliare l’occidente ad un paese emergente e questa sudamericanizzazione del G8, avrebbe come primo effetto un’ulteriore polarizzazione della ricchezza, un ulteriore aumento dei conflitti sociali ed il rafforzamento delle fazioni politiche in grado di dare delle risposte a questo genere di malcontento. A prescindere che siano di destra, di sinistra… o nel Metaverso.
Un Occidente in definitiva che rischia di subire quella che lo storico Niall Ferguson definisce la “grande degenerazione”, caratterizzata da un aumento sfrenato della spesa pubblica, disfunzione politica e le inesorabili implicazioni sociali che ne conseguono. Le lezioni della storia in merito sono chiare: i paesi che spendono e prendono a prestito in modo eccessivo lo fanno a proprio rischio economico e a proprio pericolo geopolitico.
Come suggerito dall’economista Minsky “la stabilità genera instabilità”, così come la prosperità getta i semi per la recessione ed il bull market precede il crollo del mercato.
Approfondimento a cura di Mattia Segre
Lugano, 29 ottobre 2023