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| | Filantropia

Per qualche dollaro in più

“I went down to the crossroads
Tried to flag a ride
I went down to the crossroads
Tried to flag a ride
Nobody seemed to know me
Everybody passed me by”

Eric Clapton, Crossroads (1994)

C’è stato un periodo storico in cui la distinzione tra for profit e no profit era netta, chiara, evidente. Un periodo in cui l’orientamento al profitto delle aziende era indiscutibile e in cui l’idea che l’unica responsabilità di un’impresa fosse quella di massimizzare il valore per i propri azionisti: erano gli anni ’70 dello scorso secolo quando il concetto di “shareholder capitalism” guadagnava popolarità grazie al contributo del Premio Nobel per l’economia Milton Friedman. Secondo Friedman, uno dei leader intellettuali della Scuola di Chicago e della visione neoclassica dell’economia, “the only social responsibility of a business is to use its resources and engage in activities designed to increase its profits so long as it stays within the rules of the game[1].

Molte cose sono cambiate da allora, e il dibattito sul ruolo e sulla responsabilità di un’azienda all’interno della società ha prodotto diverse teorie e riflessioni. Ma se dovessimo fissare un punto nella linea del tempo che ha dato formalmente il calcio d’inizio all’era, per certi versi antitetica, del “social entrepreneurship” possiamo prendere come riferimento i primi anni ’80, quando Bill Drayton (Fondatore e CEO di Ahsoka, un network globale di imprenditori) per primo si è fatto portavoce del concetto secondo cui chi fa impresa dev’essere anche un agente di cambiamento della società in generale.[2]

Da lì in avanti, i confini tra for profit e non profit sono diventati sempre più labili e le contaminazioni tra questi due mondi, non troppo tempo fa’ apparentemente così lontani, sono ora sempre piu’ evidenti. Pensiamo ad esempio alle recenti forme societarie ibride come Società Benefit, che in Italia sono già oltre 3.000, nonostante questa tipologia di istituto sia stato introdotto nel 2016[3]. Oppure alle B-Corp, che nel nostro paese sono 231 e che sviluppano un fatturato aggregato superiore agli EUR 10BN[4].

A volte diventa addirittura difficile riuscire a scorgere le differenze tra le diverse alternative: un recente articolo pubblicato dalla Harvard Business Review fornisce una traccia di domande che i giovani imprenditori che vogliono fondare una start-up con ambizioni di impattare sulla società, si devono porre per capire se il veicolo migliore per supportare l’iniziativa debba essere riconducibile al mondo for profit piuttosto che a quello no profit[5].

Sono tanti gli ambiti in cui questa contaminazione può produrre risultati interessanti, uno di questi è legato alla dimensione di progettualità e pensiero strategico con cui affrontare le iniziative filantropiche: nella Side View di questa settimana andremo ad approfondire uno degli aspetti centrali in questo senso, ovvero quello legato ai segreti che un ente no profit può “rubare” dal for profit quando si tratta di mettersi in relazione con il proprio bacino di donatori attuali e potenziali. L’obiettivo non è tanto proporre una carrellata degli strumenti a disposizione degli enti no profit per farsi conoscere o per facilitare la raccolta di donazioni, quanto piuttosto di condividere riflessioni sull’approccio a quest’ambito di attività, prendendo spunto da alcune dinamiche che caratterizzano il mondo del for profit.

Per un pugno di dollari

Quando parliamo di filantropia strategica facciamo spesso riferimento all’importanza di affrontare le attività di giving back in modo strutturato, con processi di lavoro che prevedano una progettualità a lungo termine e che quindi, massimizzino gli impatti sulle cause che hanno portato alla volontà di costituire, ad esempio, una fondazione di famiglia o di impresa.

Per certi versi, il concetto di filantropia può stridere con il tema della raccolta fondi oggetto di questo scritto: spesso si tende infatti ad associare al filantropo una dimensione di ricchezza personale che rende la ricerca di ulteriori fondi un’attività superflua, secondaria. Pur essendo d’accordo sul fatto che lo sforzo di avvio di una fondazione richieda inizialmente un impegno economico (e non solo) personale, siamo convinti che ricreare i meccanismi tipici del for profit, che consentono dunque all’organizzazione di svincolarsi dagli apporti esclusivi del singolo, sia una conditio sine qua non per massimizzarne i risultati nel lungo periodo. Al fine di assicurare la sostenibilità economica delle iniziative filantropiche, è però sensato intraprendere delle iniziative di fundraising rivolte a sollecitare e coinvolgere altre fondazioni erogative, enti governativi, altri filantropi o ai singoli cittadini, tramite iniziative di fundraising di massa. Ecco che quindi, se si sposa questa visione, sono diversi gli spunti di riflessione che possiamo prendere in prestito dal mondo del marketing “tradizionale”.

La scelta relativa a quale strategia di fundraising sia più adatta, dipende dalle attività intraprese e dal modo in cui le si vuole comunicare: se si vuole fare sensibilizzazione e fundraising sarà necessario fare fundraising di massa, affinché venga richiesta l’attivazione del donatore ma venga anche trasmesso un messaggio valoriale e di educazione. Se si vuole fare fundraising e lobbying sarà invece necessario coinvolgere enti governativi o sovranazionali. In generale, le modalità di raccolta fondi possono essere suddivise in due macro-categorie:

  1. One to one: le relazioni dirette, i meeting, le telefonate o le email personali;
  2. One to many: gli eventi (aste, gare, street fundraising), l’utilizzo degli spazi pubblicitari, i banner, il crowdfunding

La bravura di chi si occupa di queste attività per un ente no profit consisterà nel disegnare i programmi di raccolta fondi che meglio si prestano agli scopi dell’ente stesso.

All eyez on me

Il mondo del no profit è spesso percepito come scarsamente virtuoso quando si parla di trasparenza, accessibilità dei dati e disponibilità di informazioni chiare e omogenee. Alcuni spunti di riflessioni arrivano però da quanto reso pubblico dall’Agenzia delle Entrate in merito all’ammontare raccolto tramite la destinazione del 5×1000 (pratica sottoscritta da circa 16 milioni di contribuenti italiani). Come evidenziato nella tabella riportata qui sotto, oltre il 20% degli oltre EUR 510 mln raccolti grazie a questa modalità è finito nelle casse di 5 realtà. Il dato è interessante anzitutto per il significato che porta con sé: considerando che in questa “top 5” ci sono alcuni degli enti più noti all’interno di questo spazio, viene facile pensare a quanto sia importante ragionare in ottica di costruzione e consolidamento nel tempo di un vero e proprio brand. Che non significa altro che riuscire ad associare al nome di un’associazione o di una fondazione la capacità di influenzare ed orientare i comportamenti dei donatori, instaurando con essi relazioni solide ed autentiche nel tempo.

A maggior ragione in un mondo caratterizzato da tinte ancora molto opache, il ruolo della fiducia è centrale. Sempre in questo senso, i dati dell’ultima ricerca BVA Doxa evidenziano come proprio l’assenza di fiducia e la scarsa trasparenza nei confronti delle organizzazioni no profit siano le principali barriere alla donazione[6]. Oppure,  riprendendo i dati legati al 5×1000, la polarizzazione delle stesse verso poche, per quanto virtuose, realtà.

Il parallelismo con il mondo aziendale viene semplice, nello specifico con le attività di marketing e attivazione commerciale: è infatti importante riuscire a bilanciare gli sforzi in modo tale che, da un lato vengano trasmessi al mercato i giusti impulsi per stimolare le vendite nel breve periodo, mentre dall’altro l’orizzonte temporale si allunghi, sia meno miope e la bramosia commerciale lasci spazio alle attività a supporto del consolidamento del brand. Uno dei lavori più importanti in questo senso è riconducibile a Les Binet e Peter Field, che nel loro popolare “The long and the short of it” portano evidenze di come queste due anime debbano forzatamente convivere per massimizzare l’efficacia delle attività nel lungo periodo, individuando nella proporzione 60:40 l’equilibrio a cui tendere, privilegiando le attività di brand building[7].

The sky is the limit

Un altro ambito sul quale il no profit può prendere ispirazione dal for profit è quello legato alla gestione dell’asset più importante di una fondazione di impresa o di famiglia, ovvero la base di donatori.

Donor care è il termine utilizzato per annoverare tutte le attività realizzate da un ente no profit per curare e alimentare le relazioni con i propri donatori nel tempo, poiché raccogliere fondi vuol sicuramente dire trovare nuovi donatori, ma soprattutto obbliga a curare e coltivare le relazioni con quelli che già sono legati e supportano la fondazione.
I programmi di donor care comprendono quindi attività come i ringraziamenti per le donazioni, la riattivazione dei donatori “freddi” o non più attivi, l’aggiornamento sui programmi svolti, la condivisione dei risultati raggiunti grazie ai fondi messi a disposizione del donatore. Insomma, tutto ciò che impatta positivamente sul coinvolgimento rispetto allah missione portata avanti dalla realtà no profit. In contesto for profit si parlerebbe di programmi di fidelizzazione o loyalty.

Più i programmi di donor care sono interessanti per i donatori, maggiore è l’incentivo a donare nel tempo. È quindi molto importante che vengano predisposti considerando i desideri e le ambizioni dei donatori, motivo per cui è difficile immaginarsi dei programmi one size fits all; vanno piuttosto tenuti in considerazione gli elementi a cui il target di riferimento attribuisce valore. A questo scopo, torna utile prendere in prestito dal mondo for profit il concetto di segmentazione, spesso utilizzato da chi si occupa di marketing per raggruppare segmenti del target di riferimento con caratteristiche simili tra loro, al fine di progettare azioni con la massima probabilità di successo.

Premesso che ogni organizzazione no profit dovrà definire i segmenti che meglio si adattano alla propria strategia, esistono alcuni criteri comunemente adottati, tra cui:

  • Ricorrenza: Da quanto tempo supportano l’ente? (ad esempio: first time vs loyal)
  • Frequenza: Ogni quantoeffettuano le donazioni? (ad esempio: ricorrenti vs one-off)
  • Tipo: Come donano? Vogliono essere coinvolti e informati? Vogliono avere un ritorno reputazionale?
  • Importo: Quanto donano? (ad esempio: grandi vs piccoli donatori)
  • Motivo: Perché i donatori donano?
  • Interessi: A quali argomenti sono maggiormente interessati?

Le modalità di relazione con i donatori variano in base alla grandezza e la ciclicità della donazione, e possono andare dal contatto e dalla comunicazione diretta, all’organizzazione di eventi speciali; possono prevedere qualcosa in cambio (un oggetto, la possibilità di fare una field visit sul progetto, un evento speciale a porte chiuse). La scelta della strategia dipende dalle risorse economiche e umane e dall’obiettivo di raccolta fondi, che deve essere strettamente connesso all’obiettivo sociale e di impatto.

Un’organizzazione virtuosa e degna di nota anche per quando riguarda i programmi di donor care è senza dubbio Charity Water, una non-profit che intende garantire accesso all’acqua potabile, implementando progetti WASH (water, sanitization, hygiene) per garantire il diritto alla salute nei 29 Paesi in cui operano. Il loro modo di gestire le donazioni è innovativo, in quanto hanno diviso la base di donatori in due categorie: “The Well” ovvero il pozzo e “The Pool” ovvero la piscina. In “The Well” vengono inseriti i donatori privati, imprenditori, leader aziendali che finanziano gli overhead cost, che includono l’affitto dell’ufficio, gli stipendi e i benefici per lo staff, i voli e le field visit, impegnandosi nel supporto pluriennale per il finanziamento delle operazioni, permettendo dunque di pianificare sul lungo termine, creando efficienza e soprattutto stabilità. Riprendendo dei concetti dal mondo del for-profit, il team di Charity Water spiega che, come qualsiasi startup, anche loro hanno bisogno di investitori visionari che credano e supportino questo modello aziendale, in modo che il team operativo possa concentrarsi su ciò che più conta: salvare vite, motivo per cui il ritorno sugli investimenti del cluster di The Well è misurato dal numero di persone le cui vite sono trasformate dall’accesso a acqua potabile pulita. Attualmente, sono 17,4 milioni di persone, un dato in costante aumento.

L’altro segmento di donatori è The Pool, che raggruppa privati che donano per sostenere la politica di incentive compensation e di talent retention di Charity Water: si tratta del primo programma mai creato per utilizzare i proventi delle IPO e altri eventi di liquidità per trattenere e premiare i dipendenti delle organizzazioni non profit con dei bonus a fine anno, alimentando la loro creatività. In questo modo, avendo due categorie di grandi donatori che coprono tutti i costi di struttura e garantendo la tranquillità di una programmazione di lungo periodo, il totale delle donazioni pubbliche e di piccola taglia vengono investite direttamente sui progetti.

 Cambio di paradigma

Spesso l’innovazione arriva dalla frustrazione, dal gap tra ciò che è possibile e ciò che è reale. Spesso arriva dalla necessità. I motivi per cui ha senso rivolgere lo sguardo verso il mondo del for-profit, per alcuni specifici meccanismi, sono esattamente questi: c’è una grande necessità di innovazione e di cambio di mentalità.

Negli anni è stata adottata una prospettiva disfunzionale attraverso la quale osservare le non profit. Una prospettiva che le obbliga a modificare il proprio comportamento e a soddisfare l’interesse della cultura del donatore, per paura che facendo diversamente non riceveranno più donazioni. Per questo motivo c’è un’attenzione altissima nel dimostrare che le voci legate ai costi di struttura (gli “overhead”) o gli investimenti sul fundraising sono bassi. Il rischio di essere additati di gettare al vento preziose risorse per implementare attività a supporto della visibilità e della reputazione dell’ente, sottraendole a chi ne ha davvero bisogno, è molto elevato.

Ma a chi giova questa retorica? Siamo sicuri che, in un’epoca in cui soprattutto le nuove generazioni sono alla ricerca di un significato oltre che di uno stipendio, così facendo non ci si privi della possibilità di attirare talenti? O di attirare un ammontare di donazioni maggiori di quello investito? Non ci stiamo forse dimenticando che investire sul fundraising vuol dire aumentare le donazioni e quindi aumentare ceteris paribus l’impatto? Un po’ come se, nel mondo business, un investitore veda come ogni euro speso nelle attività di marketing e vendita uno spreco di denaro.

Bisogna scardinare la logica per cui un’azienda for-profit è incoraggiata ad investire sulle attività di comunicazione e marketing (anche paradossalmente se vende un prodotto dannoso per la salute e per l’ambiente) ma se, al contrario se lo fa una non-profit, viene incolpata di sciacquare risorse. In questo modo si rischia di togliere alle non-profit il megafono per amplificare e comunicare tutto ciò che fanno di buono e l’impatto positivo che hanno nel mondo. Questo non vuol dire, sia chiaro, che gli investimenti in ambiti che non riguardano la gestione progettuale debbano essere smisuratati, ma che prendendo in prestito la progettualità e l’approccio imprenditoriale del for-profit, possiamo fare uno sforzo per rivoluzionare anche le attività di fundraising e la comunicazione umanitaria, così come i processi di ringraziamento dei donatori, trattando questi ultimi come dei partner di progetto, in un’ottica di filantropia strategica a 360 gradi.

Approfondimento a cura di Beatrice Marzi e Alberto Casna

Lugano, 26 novembre 2023


[1]https://www.nytimes.com/1970/09/13/archives/a-friedman-doctrine-the-social-responsibility-of-business-is-to.html

[2]https://ssir.org/articles/entry/social_entrepreneurship_revisited#.

[3]https://legalcommunity.it/societa-benefit-sono-oltre-3mila-ma-hanno-spazio-nel-framework-csr-europeo/.

[4]https://finanza.lastampa.it/News/2023/06/05/b-corp-in-italia-quante-sono-e-quanto-fatturano-i-numeri/OTlfMjAyMy0wNi0wNV9UTEI.

[5]https://hbr.org/2023/05/should-your-start-up-be-for-profit-or-nonprofit

[6] https://www.istitutoitalianodonazione.it/it/news-eventi/dd_121_5029/dono-la-ripresa-va-incoraggiata

[7] https://ipa.co.uk/knowledge/publications-reports/the-long-and-the-short-of-it-balancing-short-and-long-term-marketing-strategies

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