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Wake me up when November ends

(foto: House of cards – Gli intrighi del potere, serie Netflix, 2013)

«O cospirazione, ti vergogni a mostrare la tua fronte insidiosa di notte, quando i mali sono più liberi?» (W. Shakespeare, Giulio Cesare, Bruto: atto II, scena I)

Le idi di marzo, cioè il 15 marzo, giorno in cui avvenivano festeggiamenti per il dio della guerra Marte, sono note per indicare la data dell’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.C. e l’espressione viene usata tutt’oggi per indicare una minaccia incombente. L’espressione dà anche il titolo ad un thriller politico del 2011 diretto da George Clooney.

Nelle ore in cui stiamo scrivendo questa lettera, un secondo tentativo di assassinio contro Donald Trump, dopo quello occorsogli in Pennsylvania a luglio, è avvenuto presso il suo golf club a West Palm Beach in Florida. Trump si trovava sul campo di gioco, quando il servizio segreto ha avvistato un uomo puntare il fucile contro l’ex presidente. Prima di essere arrestato, l’assalitore ha tentato la fuga in auto abbandonando l’arma. Il presunto attentatore risulta essere Ryan Wesley Routh, un noto attivista pro-Ucraina.

Oltre alle sospette falle nel cordone di sicurezza attorno al candidato repubblicano, emergono in modo sempre più violento e preoccupante le fratture sociali e politiche che dividono l’America.

Non sarà a marzo ma il 5 novembre che gli americani eleggeranno il presidente che governerà per i prossimi quattro anni e stabiliranno la composizione della Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Ci sono, tuttavia, tutti gli elementi di una tragedia shakespeariana.

Per comprendere questo particolare momento storico, abbiamo chiesto l’aiuto di Marcello Foa, giornalista, docente universitario, già presidente Rai, conduttore di Giù la maschera su Rai Radio1 e reduce da un recente viaggio proprio negli States.

Prima di lasciare spazio alle domande, facciamo il punto della situazione. La sera di martedì 10 settembre, Harris e Trump si sono incontrati per il loro primo dibattito faccia a faccia, ospitato dalla rete di notizie ABC. Il confronto ha visto Harris fare una buona prestazione contro un Trump appannato e gli opinionisti stanno dando a Harris probabilità migliori di vincere le elezioni, sebbene le cifre dei sondaggi siano volatili e possano cambiare di nuovo nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Anche i modelli statistici sviluppati dalla rivista The Economist, dalla piattaforma politica FiveThirtyEight e dall’esperto di sondaggi Nate Silver attribuiscono a Harris un piccolo vantaggio a livello nazionale. Nelle previsioni di The Economist, Harris e Trump sono praticamente alla pari. FiveThirtyEight vede Harris leggermente in vantaggio. Silver, d’altro canto, attribuisce a Trump una probabilità di vittoria significativamente più alta.

Tuttavia, la gara è ancora un testa a testa, perché i sondaggi nazionali hanno di fatto solo una rilevanza indiretta: infatti, non è il voto popolare a determinare il vincitore, bensì il numero di grandi elettori. Tenendo conto di questa peculiarità del sistema elettorale americano, la corsa per la presidenza è ancora completamente aperta.

Su questo aspetto del sistema elettorale americano, vale la pena soffermarsi ancora un momento.

Saranno i cosiddetti Swing States, ovvero quegli Stati in bilico che possono ragionevolmente esser vinti dall’uno o dall’altro dei candidati, a decidere chi sarà il Presidente. Perché sono così importanti? Questi Stati raccolgono l’America mediana in cui si incrociano le tendenze di lungo periodo: sono i due del Midwest (Wisconsin, Michigan) che assieme alla Pennsylvania rientrano nella cosiddetta Rust Belt, e i quattro della Sun Belt (Arizona, Nevada, Georgia, North Carolina). I primi sono rappresentativi del declino americano dovuto alla deindustrializzazione causata dalle delocalizzazioni dovute alla globalizzazione, i secondi sono rappresentativi dell’America delle nuove opportunità, in cui si aprono nuove industrie nel mondo dei chip e dell’energia pulita. E qui si traferiscono imprenditori e uomini d’affari appartenenti ai ceti portatori tendenzialmente di visioni più liberal e vicine ai democratici. Sicché, Stati tradizionalmente fortino dei repubblicani, come Georgia e Arizona, diventano contendibili. Tuttavia, nell’ultimo periodo, a queste evoluzioni si accompagnano tendenze più favorevoli ai repubblicani, in quanto queste sono le aree più esposte all’inflazione, con i prezzi delle case schizzati alle stelle con aumenti fino al 40% negli ultimi quattro anni. Questo fenomeno ha eroso il consenso che aveva spinto questi Stati verso i dem nel 2020[1].

Marcello, fatto un rapido punto sul contesto, puoi spiegarci meglio perché nei tuoi più recenti interventi hai sottolineato che il livello di contrapposizione nella società americana sembra essere così elevato da far temere uno scontro tale da impedire quella ricomposizione ad unità attorno al Presidente eletto che tradizionalmente contraddistingue la vita democratica degli Stati Uniti?

Per capire il momento, dobbiamo aver chiari due elementi. Il primo, è l’elemento patriottico e il forte senso di unità nazionale e di missione nazionale che storicamente ha rappresentato un forte cemento sociale. Vi è stato un progressivo incrinarsi di questo sentimento dopo il 2008, per effetto della crisi finanziaria e delle conseguenze legate ai processi di delocalizzazione imposti dalla globalizzazione che ha marginalizzato sempre di più una parte della popolazione americana, i cosiddetti perdenti della globalizzazione. Parliamo di quella parte di America che aveva sperato prima in Obama e che, poi, non rappresentata dalla classe dirigente e incompresa dai media, ha trovato in Trump l’uomo in grado di intercettarne il malcontento. Sull’onda del successo del movimento MAGA, l’establishment ha cercato di recuperare la situazione utilizzando i metodi di cui parlo nel mio libro, anche utilizzando internet e i social network per controllare e manipolare il consenso della popolazione, che hanno ulteriormente incrinato questa frattura. Con le moderne tecniche di controllo psicologico applicate a internet e ai mass media, il sistema creato dalle élites tende a esacerbare lo scontro tra generi, gruppi, e minoranze perché una società disarticolata facilita il controllo totale. Questo processo si realizza con un’attività che possiamo definire di “pre-propaganda”, che strumentalizza i diritti di minoranze etniche o sessuali. Dal 2017 in avanti, queste tecniche, unite ad altre, sono state applicate con un’aggressività senza precedenti usando i media mainstream e dei fact-checkers come cassa di risonanza. E censurando massicciamente le opinioni scomode sui social media, come ha ammesso Zuckerberg, in palese contrasto con la Costituzione statunitense.

Tuttavia, l’establishment ha pagato un prezzo per l’intensificazione di questa strategia: sono aumentati i dubbi sulle versioni ufficiali e una diffusa ribellione contro la criminalizzazione delle opinioni. Da qui un inedito e destabilizzante senso di sfiducia nelle istituzioni soprattutto da parte dell’elettorato conservatore.[2].

Il secondo elemento di frattura è dato dal cambiamento del quadro politico.

In passato vi era una contrapposizione tutta interna all’élite, divisa nei due blocchi democratico e repubblicano. Vincesse l’uno o l’altro la ritta strategica non cambiava. Dal 2001 la politica estera Usa è fortemente caratterizzata dai neoconservatori, presenti nelle amministrazioni di entrambi gli schieramenti e alfieri  dell’“eccezionalismo americano”: l’idea secondo cui gli Stati Uniti sono moralmente più in alto di qualunque altra nazione, e si devono comportare di conseguenza, promuovendo una politica estera aggressiva e muscolare, che esportando mediante la globalizzazione i valori della democrazia liberale anticipi o prevenga problemi, anche con mezzi militari, qualora sia necessario.

Con l’arrivo di Donald Trump questo cambia: la dottrina dell’America First trumpiana, infatti, ha promosso una visione nazionalista, scettica verso l’impegno americano nel mondo, tradizionalista sul piano dei valori e, almeno in parte, protezionista sul piano economico che non trovava più posto nell’establishment. Da qui, la scelta di alcune figure di spicco del partito repubblicano, come Cheney e Bush di appoggiare pubblicamente Kamala Harris. Specularmente, dall’altra parte, personalità idealiste di tradizione dem, come Robert Kennedy Jr. o Tulsi Gabbard, hanno pubblicamente manifestato il loro sostegno alla candidatura di Trump. Dunque, lo scontro non è più tra destra e sinistra, ma tra l’establishment e coloro che vi si oppongono.

Alla luce di tutto ciò, dunque, vi è il rischio che chiunque vinca il 5 novembre non accetti il risultato.  Questa fragilità strutturale è un unicum nella storia americana, perlomeno negli ultimi cento anni!

Prendendo spunto da quanto dici, cosa pensi dell’emergere di queste nuove figure, spesso definite come New Right, a fianco dell’ex presidente come JD Vance, Elon Musk o Peter Thiel?

Dobbiamo distinguere due tendenze. Pur avendo sicuramente una sintonia con le posizioni conservatrici del trumpismo, le ragioni di figure come Musk e Thiel sono ambigue: è verosimile che ci sia anche un calcolo economico: se Trump vincesse avrebbero certamente un credito molto forte da riscuotere. Difficile che siano mossi solo dall’idealismo.

JD Vance è, invece, l’espressione della destra americana rurale, che era stata molto marginalizzata ai tempi di Bush e che si identifica in Trump. Accanto a questo, vi sono altri movimenti come quello dell’ex democratico Micheal Shellenberger, pro-nucleare e pro-fracking che minimizza i rischi del cambiamento climatico, di Jordan Peterson, uno psicologo e commentatore televisivo, con posizioni conservatrici, o del nuovo speaker della Camera Mike Johnson, movimenti che si ribellano al conformismo dei media e reclamano un approccio diverso riguardo ai grandi temi che riguardano gli Stati Uniti. Non è un fenomeno strutturato ma merita molta attenzione.

Anche Tim Walz sull’altro fronte appare come ideologicamente molto orientato. Cosa pensi della scelta dei vicepresidenti?

La cosa interessante è che nella scelta dei due vicepresidenti, uno di ultradestra e uno di ultrasinistra, sembra non esser ritenuta come centrale per la vittoria la conquista dell’elettorato più moderato, di centro, guardando solo alla mobilitazione dei sostenitori ideologicamente orientati.  In realtà, in America la partecipazione elettorale media oscilla intorno al 60%, è bassa. Il 25% dell’elettorato è repubblicano, il 25% è democratico. E votano in maniera regolare. Quindi le elezioni vengono decise da una minoranza del 10%. Vince chi riesce negli Stati chiave a mobilitare l’elettorato centrista moderato o minoranze che di solito non votano o non si schierano. Per questo Bush si era rivolto agli evangelici, perché sapeva che negli Stati chiave avevano un peso. La grande incognita, tuttavia, è come sia Trump sia la Harris possano riuscire a convincere l’elettorato moderato non schierato, considerando la loro marcata profilazione politica.

Tu sostieni che in queste elezioni i programmi avranno un ruolo marginale, pesando molto di più la narrazione. In che senso?

Stiamo assistendo a una grandissima operazione mediatica: da quando è stata scelta Kamala Harris, è in corso una mega operazione, verosimilmente pianificata da tempo, per trasformare una vicepresidente che prima era considerata non adatta, innanzitutto dal partito democratico, in un’icona anti Trump, una statista, la prima donna presidente degli USA. I democratici stanno cercando di cambiarle totalmente la sua immagine attraverso ogni strumento: i social media, i sondaggi, sulla cui neutralità ci sono forti dubbi, i media, quasi tutti pro-Harris. Basti pensare come abbiano rimosso dalla memoria collettiva il gravissimo attentato subito dall’ex presidente il luglio scorso e come abbiano relativizzato il secondo episodio.

L’operazione di “rebranding” della Harris è molto interessante, un caso che segnerà una nuova tappa nella storia della comunicazione politica a livello mondiale. Non è mai successo che si riuscisse a lanciare una candidatura in poche settimane, mentre di solito serve circa almeno un anno. E come sempre più che i programmi a far la differenza sarà l’identificazione identitaria, empatica e valoriale. Da sempre il voto è più istintivo ed emotivo che razionale.

Che idea ti sei fatto dunque a seguito del recente dibattito?

Quello che mi ha colpito del dibattito è che Trump è apparso invecchiato, anche rispetto a poco tempo fa. Forse, ha subito un contraccolpo psicologico dall’attentato. Finora, lui era l’uomo da talk show ma qui non ha avuto il guizzo della battuta e della sferzata che lo caratterizzavano. È rimasto piatto e ha subito Harris che, intendiamoci, dal punto di vista delle capacità oratorie non è certo Obama, ma è riuscita a cogliere l’occasione di dare un’immagine più sicura di sé, mettendo in risalto, anche con la mimica facciale, le risposte sopra le righe del suo avversario. Un successo.   

Trump si trova, quindi, in oggettiva difficoltà: entriamo nelle ultime sei settimane di campagna elettorale, il tycoon deve trovare la zampata vincente, un argomento molto forte o una sintonia valoriale per resuscitare le speranze dell’America profonda e portare a casa i voti negli Stati chiave che servono per vincere, altrimenti rischia che il vento soffi dalla parte della Harris, sostenuta da un apparato senza precedenti. Terza variabile è che la Harris inciampi da sola o che appassisca mediaticamente altrettanto rapidamente di quanto sia salita. Forse Trump ha un problema di staff: mentre prima aveva un uomo come Bannon in grado di imprimere una svolta alla campagna, oggi non si capisce chi al suo fianco possa fare altrettanto. La situazione è comunque ancora aperta, saranno sei settimane molto interessanti.

Quanto possono pesare le posizioni in politica estera?

Le questioni di politica estera, in particolare la guerra in Ucraina, non pesano particolarmente, non mobilitano l’elettorato. Mentre può essere interessante la posizione di appoggio a Israele: Trump è un filosionista amico di Netanyahu. La base elettorale di Harris è composta in parte da elettori musulmani e filopalestinesi, questo potrebbe danneggiarla. Il paradosso è che i presidenti più belligeranti sono tradizionalmente quelli democratici. Trump è stato davvero l’unico presidente a non aprire fronti di guerra durante il suo quadriennio.

Grazie a Marcello Foa per queste considerazioni.

Insomma, i tratti della possibile tragedia che lascia il mondo con il fiato sospeso sono tutti presenti. Intanto sovviene: «c’è la guerra civile nel cielo». Così leggiamo nella sinossi della riedizione 2024 del Giulio Cesare da parte di Adelphi. Uno dei testi più luminosi e meno frequentati del canone shakespeariano. Sulla terra sarà guerra fratricida: Bruto lo stoico, sdegnoso, inclemente, dalla parte della ragione ma in perenne «guerra con sé stesso»; Cassio l’epicureo, magro, famelico, che «legge troppo»; Antonio, «bellimbusto dissoluto e nottambulo», espressione della realpolitik, a cui si aggiungono frange schiumanti del popolo, con i suoi conati di democrazia selvaggia. Il lavoro in mano ai congiurati è «bruciante, sanguinoso, terribilissimo»: si credono guaritori, non sanno di essere macellai; per comune denominatore hanno la morte.

Approfondimento a cura di Gilberto Moretti

Lugano, 22 settembre 2024


[1] Cfr. Aa.Vv., These states will decide the election, in npr.org, 16.09.2024; cfr. Usa 2024, battaglia all’ultimo volto dopo il dibattito Trump Harris, in Limes https://www.youtube.com/watch?v=p5mOUGC3BG8&t=1852s.

[2] Cfr. Foa, M., Il Sistema (in)visibile. Perché non siamo più padroni del nostro destino, ed. Guerini e Associati, 2022.

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