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 “Folie a deux”

Joker

(foto: Joker: Folie à Deux , film, 2024)

«Ho imparato molto poco nei miei anni, Bruce, ma una cosa l’ho imparata. Le politiche estere di questo o di qualsiasi altro paese non si basano sul giusto e sullo sbagliato. Giusto e sbagliato? Non spetta a te e a me discutere se questa domanda sia giusta o sbagliata. L’unico regno che funziona con la rettitudine è il regno dei cieli. I regni della terra funzionano con il petrolio. Gli arabi hanno il petrolio.»

(Leon Uris, Exodus)

A poco più di un anno dagli eventi scatenati dallo scioccante attacco di Hamas sul territorio israeliano del 7 ottobre 2023, Israele ha lanciato una guerra a tutto campo al cosiddetto asse della resistenza, e si ritrova oggi impegnata con attacchi militari su sette fronti: Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran e Yemen. Una situazione del genere ha pochi precedenti e gli eventi delle ultime settimane sembrano andare verso un progressivo aggravamento.

Con lo scritto di oggi cerchiamo di ovviare all’incalzare della cronaca e della narrazione mediatica che rischia di farci perdere il senso d’insieme di una realtà molto complessa.

Sicché, appare opportuno riprendere alcuni elementi già trattati e fare un po’ d’ordine[1].

Due visioni competono sul futuro del Medio Oriente, linea di faglia esemplare tra due mondi-civiltà, Occidente e Oriente. Una che lo vuole diviso su base etnico-religiosa e dipendente dall’Occidente; e una che vorrebbe portare questa zona o una sua parte importante nel campo della multipolarità coordinato dai BRICS, organizzazione in cui sono stati cooptati gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran, l’Egitto mentre si profila la possibile entrata della Turchia già nella prossima riunione a fine ottobre a Kazan in Russia.

L’Occidente a guida statunitense vorrebbe portare questa area ad allinearsi al proprio fronte. A questo servivano gli Accordi di Abramo del 2020 che coinvolgevano Stati Uniti, Israele, Emirati Arabi Uniti con estensione al Bahrein e, quindi, in forma indiretta all’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita non poteva aderire formalmente a questi patti chiedendo come condizione preliminare una qualche soluzione formale alla questione palestinese. L’Accordo venne promosso da Trump.  Successivamente, la presidenza Biden ha sostenuto un piano alternativo alla Via della Seta cinese noto come La Via del Cotone (nuova definizione dell’IMEC: India-Middle East-Europe Corridor), che prevede di connettere i porti occidentali dell’India agli Emirati, trasferendo poi le merci via ferrovia fino alla costa mediterranea israeliana, insieme a oleodotti, linee elettriche e progetti per collaborazioni nel settore tecnologico. Questo piano potrebbe marginalizzare Suez e l’Egitto, escludendo decisamente l’Iran e la sua influenza sulle rotte petrolifere dello Stretto di Hormuz.

Le condizioni fondamentali per realizzare questo piano includono: a) liberare l’area intorno a Israele dalla presenza di alleati iraniani (Hamas, Hezbollah); b) trovare una soluzione formale alla questione palestinese affinché l’Arabia Saudita, dopo Egitto, Giordania e Emirati, possa riconoscere Israele e partecipare attivamente al nuovo scenario. Il piano prevede la pace con l’Arabia Saudita che, a sua volta, richiede una risoluzione del conflitto palestinese, mentre Israele non accetterà alcuna soluzione finché Hamas e le forze legate all’Iran saranno attive.

Circa un anno fa, Netanyahu ha presentato questa visione di un nuovo Medio Oriente pacificato all’Assemblea dell’ONU, promettendo opportunità di affari comuni. Tuttavia, pochi giorni dopo, il 7 ottobre, Hamas ha lanciato un attacco militare, causando oltre mille morti e sequestri. Netanyahu, sotto processo in Israele per reati precedenti, vede ora l’opportunità di risolvere una volta per tutte la questione di Hamas, normalizzando così la situazione con i palestinesi e prendendo il controllo di Gaza per facilitare lo sviluppo della strategia degli Accordi di Abramo e della Via del Cotone.

Israele e gli USA, in tal senso, sembrano muoversi all’unisono ed essere disposti a tutto pur di perseguire il loro intento. Su questo punto specifico, si osservano due linee di pensiero tra gli analisti, entrambe radicali: una che vuole Israele talmente potente da manipolare e piegare sempre Washington a suo favore, l’altra che considera Tel Aviv mero proxy degli Stati Uniti obbediente alla sua strategia geopolitica di perseguimento della leadership occidentale nell’area.  La verità, probabilmente, sta nel mezzo.

Indubbiamente, la politica estera statunitense per il Medio Oriente è pesantemente condizionata dalla lobby israeliana mediante l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee)[2]. Tuttavia, è diventato sempre più difficile per l’attuale amministrazione USA dare il suo appoggio incondizionato alla conduzione della guerra a Gaza da parte di Netanyahu, data l’erosione della simpatia per lo Stato ebraico tra l’elettorato, soprattutto tra i giovani democratici.

Gli Stati Uniti continuano a sostenere Israele nella sua guerra contro Hamas, ma le relazioni tra i due paesi e i loro leader sembrano sempre più tese. Le opinioni degli americani su Netanyahu sono diventate più negative nell’ultimo anno. La quota di americani con poca o nessuna fiducia in Netanyahu per fare la cosa giusta riguardo agli affari mondiali è aumentata di 11 punti percentuali da marzo 2023 (il 42% allora, il 53% oggi). I democratici sono quelli con una visione più negativa rispetto ai repubblicani: circa sette democratici su dieci e indipendenti di orientamento democratico (71%) hanno poca o nessuna fiducia in lui, in aumento rispetto al 56% del 2023. Circa un terzo dei repubblicani e dei sostenitori del GOP (34%) ora ha questa opinione, in aumento rispetto al 29% del 2023[3]. Questi dati ribaltano la “relazione speciale” che ha fatto degli Stati Uniti il partner strutturale di tutti i gabinetti israeliani.

Dal canto suo, Netanyahu agisce con ostentata determinazione sicuro del sostegno di quegli ambienti americani con cui ha da tempo solidi rapporti personali, dal Partito repubblicano alle organizzazioni ebraiche a esso contigue. Netanyahu si sta muovendo avendo in mente il cambio politico al vertice americano. Va compreso che Bibi è il primo leader israeliano culturalmente americano, parte rilevante della sua biografia s’intreccia con gli Stati Uniti ed ha una notevole capacità di interagire personalmente con gli ambienti politici, culturali ed economici americani[4].

L’amministrazione statunitense, con un Presidente Biden a fine mandato e la cui leadership è eufemisticamente appannata, si è dimostrata incapace di placare la leadership israeliana facendo leva sulla sua influenza, dando a Tel Aviv tutto ciò di cui aveva bisogno, come dimostra il rapporto pubblicato dal progetto Costs of War della Brown University, evidenziando condizioni di finanziamento storicamente particolarmente vantaggiose di cui nessun’altra nazione al mondo gode[5].

Tuttavia, i rischi che la guerra di Gaza potesse innescare un conflitto regionale più ampio, incluso uno scontro diretto tra Israele e Iran, erano evidenti fin dall’inizio.  Il continuo rilancio della leadership israeliana verso un conflitto a tutto campo nella regione sembra oggi senza controllo. Scrive Gideon Levy su Haaretz “Israele è tronfio di arroganza. Dalla caduta nel profondo e dallo spirito spezzato in seguito alla rotta del 7 ottobre (…) alle vette di un’arroganza arrivata a un punto tale da sognare regime-change e sfollare interi popoli in tutto il Medio Oriente. E tutto ciò nel giro di un anno. Finirà in lacrime e sangue”. È la natura della hybris che, per definizione, conduce al disastro[6] .

Tutto sembra possibile, persino attaccare le basi Unifil e intimare al Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres di ordinare alle forze di interposizione di lasciare il Libano in quanto ostacolano le operazioni belliche contro le milizie di Hezbollah. Sembra che Israele possa continuare le sue campagne senza ostacoli.

Qui si entra in un mix di motivazioni specifiche del Primo Ministro e condivise con altri decisori politici israeliani. È ampiamente riconosciuto, anche dagli oppositori interni di Netanyahu, che egli ha un interesse personale nel continuare e persino intensificare le guerre di Israele. Ciò è in parte dovuto al fatto che deve far dimenticare che per quattordici anni ha mantenuto Hamas al potere per indebolire Fatah di Arafat e vanificare ogni tentativo di accordo, permettendo al Qatar di sovvenzionare Hamas[7]. In parte vi è il solito effetto di serrare le fila attorno alla bandiera che attenua i problemi politici di un leader in tempo di guerra. Infine, più specificamente, perché Netanyahu dipende dal sostegno dei membri più estremisti della sua coalizione di governo di destra per tenere unita quella coalizione, mantenendolo così al potere e ritardando il giorno in cui dovrà affrontare pienamente le accuse di corruzione contro di lui.

In tal senso, in questa guerra vanno comprese questioni ben delineate in un saggio uscito in queste settimane a firma di Gilles Kepel, tra i più importanti studiosi occidentali del mondo arabo.

A metà dell’Ottocento, alcuni gruppi anglicani e cristiani millenaristi iniziarono a promuovere l’idea che il ritorno degli ebrei in Terra Santa fosse necessario per accelerare il Secondo Avvento di Gesù. Questa visione si collegava a interpretazioni bibliche che vedevano il ritorno degli ebrei come parte del piano divino. Contemporaneamente, alcune correnti dell’ebraismo iniziarono a sostenere che l’era messianica non sarebbe semplicemente arrivata dal Cielo, ma doveva essere favorita attraverso l’azione umana. Questo portò a un movimento di migrazione in Palestina, volto a ricostruire un regno ebraico. Queste idee si integrarono nel sionismo politico, formalizzatosi più tardi con Theodor Herzl.

Secondo il messianismo rabbinico, questo regno, puramente terreno, avrebbe dovuto dominare su tutti popoli mondo. Questo movimento, la cui dottrina fu sviluppata da Rav Abraham Isaac Kook, il primo rabbino capo ashkenazita della Palestina sotto mandato britannico, fu marginale nei primi anni dello Stato ebraico, allora dominato da un’élite politica laburista laica. I suoi adepti credevano tuttavia che i leader israeliani, secolarizzati com’erano, stessero inconsapevolmente attuando la Redenzione finale giudaizzando la Terra Promessa, che sarebbe culminata con la venuta del Messia. La guerra dei sei giorni del 1967 e le conquiste territoriali che ne seguirono, Gerusalemme est e il muro del pianto ma anche la Giudea e la Samaria bibliche (attuale Cisgiordania) e Gaza, rafforzarono in loro la convinzione che si trattasse dell’esecuzione di un piano divino nascosto agli occhi dei profani[8].

Il fallimento di Israele, militarmente in difficoltà contro la coalizione araba, durante la guerra dello Yom Kippur nell’ottobre del 1973 e la prospettiva di negoziati coi palestinesi, che avrebbe portato al difficile processo di pace di Oslo, radicalizzarono i seguaci del movimento che vedevano il compromesso territoriale come una minaccia all’ideale sionista. Durante gli anni ’90, la crescita degli insediamenti israeliani nei territori occupati contribuì a un incremento della radicalizzazione, poiché molti sionisti percepivano la difesa di queste terre come un imperativo religioso e nazionale.  

La generazione di sionisti religiosi che ha preso il sopravvento ed è ora ai vertici della struttura di potere in Israele è nata in quegli anni.

Il governo di Netanyahu, inoltre, ha perseguito politiche che hanno approfondito l’occupazione della Cisgiordania. Insieme all’ondata di attacchi dei coloni, è aumentata anche l’attività degli insediamenti. Nel 2023 il governo ha approvato un numero record di permessi di costruzione per nuove unità abitative negli insediamenti (quasi 13.000) e ha eretto un numero senza precedenti di nuovi avamposti dei coloni. Dall’inizio del 2024, Israele ha dichiarato 23.700 dunam (circa 2.429 ettari) di territorio della Cisgiordania “terreno statale”, più che in qualsiasi anno solare precedente, aprendo la strada a ulteriori costruzioni di insediamenti lì. Solo il 25 giugno, Israele ha designato oltre 1.200 ettari nella valle del Giordano come terreno statale, il più grande sequestro di terra occupata in trent’anni, senza dare alcun segno di allentare tali attività[9].

Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, figlio di un rabbino e colono in Cisgiordania, ha riconosciuto il suo obiettivo di uno stato ebraico che non solo comprenda tutti i territori palestinesi, ma si estenda anche alla Siria, nell’ultima dichiarazione pubblica in cui si fa riferimento al potenziale progetto di Tel Aviv per un “Grande Israele”. In un’intervista per un documentario, intitolato Israele: estremisti al potere, Smotrich ha affermato: “Voglio uno Stato ebraico… che operi secondo i valori del popolo ebraico[10].

È in questo milieu culturale e nell’indecisione statunitense che origina l’attuale scollamento dalla realtà della leadership israeliana.

Tuttavia, il tentativo israeliano di innescare una guerra regionale sembra trovare ostacoli molto concreti.

Sul piano militare, nonostante i successi decantati dal mainstream delle operazioni di intelligence con cui sono stati colpiti i vertici di Hamas e di Hezbollah, sul campo non riescono a fare passi avanti, né a Gaza né in Libano né in Iran. I successi dell’intelligence sono utili ma non sostituiscono il campo di battaglia. Peraltro, vi è il forte sospetto che tali azioni sarebbero risultate impossibili senza l’aiuto di alcuni settori delle Forze Quds di Teheran asserviti al Mossad[11]. Per inciso, vale pena ricordare che Hezbollah e Hamas sono organizzazioni insurrezionali votate al martirio e consapevoli di essere a rischio decapitazione. Pertanto, esse hanno una struttura decisionale che alla morte di un capo prevede rapide modalità di sostituzione e, comunque, la capacità di operare coordinata. Lo si sta vedendo in Libano. I funzionari di Hezbollah, tra cui il leader assassinato Hassan Nasrallah, hanno ammesso che l’esercito israeliano ha una forza aerea e un’intelligence superiori. Ma Hezbollah ha il vantaggio negli scontri diretti sul territorio libanese. Come nel 2006, quando Israele inviò truppe di terra in Libano dopo dieci giorni di attacchi aerei per poi ritirarle circa quattro settimane dopo, le forze di Hezbollah, dopo aver subito gli attacchi aerei stanno infliggendo pesanti perdite di uomini e mezzi a Israele nel sud del Libano. L’ex generale dell’esercito libanese Hassan Jouni ha rivelato che Hezbollah ha scavato molti tunnel ed è ben equipaggiato con depositi di armi e munizioni. “La terra gioca sempre a favore di chi la possiede”, ha affermato[12].

Sul piano economico, Israele sta vivendo una fase di netto rallentamento. Ci sono decine di migliaia di israeliani che stanno abbandonando il Paese. La Banca d’Israele ha stimato che il costo della guerra raggiungerà i 67 miliardi di dollari entro il 2025. Anche con un pacchetto di aiuti militari da 14,5 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, le finanze di Israele potrebbero non essere sufficienti a coprire queste spese. Tutto ciò potrebbe anche potenzialmente mettere a repentaglio la capacità di Israele di mantenere la sua attuale strategia militare[13]. Il deterioramento della situazione ha spinto le tre grandi agenzie di rating a declassare lo status del paese. Tale declassamento è anche e soprattutto un messaggio politico a non tirare troppo la corda.

Verso la guerra con l’Iran?

Gli USA, oltre al costo politico dell’essere percepiti come corresponsabili del genocidio della popolazione palestinese, sembrano non voler essere coinvolti in un conflitto diretto con l’Iran.

Ciò non serve i legittimi interessi di sicurezza degli USA. Gli USA non possono permettersi un altro conflitto in Medio Oriente e schierarsi con Israele espone le forze USA a significativi pericoli. Scriveva in proposito Zbigniew Brzezinski: “…un attacco all’Iran sarebbe un atto di follia politica, che metterebbe in moto un progressivo sconvolgimento negli affari mondiali. Con gli Stati Uniti sempre più oggetto di diffusa ostilità, l’era della preponderanza americana potrebbe persino giungere a una fine prematura. Sebbene gli Stati Uniti siano chiaramente dominanti nel mondo al momento, non hanno né il potere né l’inclinazione interna per imporre e poi sostenere la propria volontà di fronte a una resistenza prolungata e costosa. Questa è certamente la lezione insegnata dalle sue esperienze in Vietnam e Iraq[14].

In una eventuale guerra tra Israele sostenuta dagli Stati Uniti e Iran, sia la Russia che la Cina sosterrebbero attivamente l’Iran, se non con lo schieramento di forze sul campo, certamente rifornito di armi e di altre necessità logistiche e molto probabilmente preso sotto il loro ombrello nucleare in un esplicito atto di deterrenza[15]. A proposito di deterrenza nucleare, in questi giorni, alla notizia di un terremoto di magnitudo 4,4 nella provincia iraniana di Semnan, sui social media si sono susseguite speculazioni secondo cui le scosse sarebbero state causate dal primo test nucleare di Teheran. Il sito web di notizie NorNews, che opera informalmente come principale organo di informazione del Consiglio di sicurezza nazionale della Repubblica islamica, ha liquidato le speculazioni nucleari come “voci” e ha sottolineato ancora una volta che i test nucleari contraddicono la dottrina nucleare e di difesa dell’Iran. Tuttavia, non è necessariamente da escludere che l’Iran possa cambiare la propria politica nucleare senza annunciarlo[16].

Non solo, durante la visita del ministro degli esteri iraniano Araghchi in Arabia Saudita, Bin Salman ha dichiarato che è volontà della monarchia saudita porre fine alle motivazioni religiose che hanno impedito la pace con Iran. È stata, altresì, discussa la situazione nella regione ed è stata sottolineata l’importanza della cooperazione regionale per fermare il genocidio e la guerra a Gaza e in Libano. Tradotto: i paesi del Golfo non concederebbero spazio aereo per eventuali attacchi da parte di Stati Uniti e Israele[17].

Secondo quanto riportato dal Washington Post, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe assicurato agli Stati Uniti che le sue forze attaccheranno i siti militari iraniani, non gli impianti nucleari e petroliferi che il presidente Joe Biden ha messo in guardia dal colpire[18]. Ecco che l’arrivo in Israele del capo del CENTCOM degli Stati Uniti, generale Michael Kurilla, nel contesto dei preparativi delle IDF per una risposta all’attacco missilistico balistico dell’Iran, sembra abbia il senso della volontà statunitense di contenimento della risposta. Quanto sta avvenendo in Medio Oriente, dunque, è l’occasione per capitalizzare simbolicamente il risentimento anti-occidentale che sta prendendo forma nel cosiddetto “Sud globale” e che si esprime in ambito economico con i BRICS e, proprio nel prossimo vertice a Kazan in Russia dovrebbe essere firmato il Trattato di partenariato globale tra Russia e Iran[19].

In conclusione, c’è una differenza enorme tra il potere immaginato e la capacità effettiva di mantenere un conflitto contro avversari, come l’Iran, in grado di impegnare militarmente per anni Israele e gli Stati Uniti. È chiaro che, nel contesto delicato qui delineato, allo stato attuale tutto è possibile e certi processi possono prendere avvio a prescindere dalle reali intenzioni. Per chiudere con una prospettiva a breve termine, ci affidiamo a Gilles Kepel il quale afferma che “fino a gennaio, quando il nuovo presidente entrerà in carica negli Stati Uniti, Netanyahu non farà nulla, perché non riceverà alcun aiuto da Washington”[20].

Il romanzo che può accompagnarci e aiutarci in qualche riflessione in queste settimane di tensione è Exodus (ed. Gallucci) di Leon Uris, da cui è stato tratto anche l’omonimo film del 1960, che tratta dell’epopea che condusse alla nascita di Israele ma anche della lacerante questione palestinese. Estate 1947, a bordo della nave “Exodus” l’attivista Arì Ben Canaan, l’infermiera americana Kitty Fremont e gli adolescenti Dov Landau e Karen Clemens, insieme con tanti altri giovani sopravvissuti alla Shoah, vanno incontro al loro destino: contribuire alla creazione dello stato ebraico.

Approfondimento a cura di Gilberto Moretti

Lugano, 20 ottobre 2024


[1] Cfr. Moretti, G., Chi è Keyser Soze?, in Side Views, brightside-capital.com, 22.10.2023; Red right hand, in Side Views, Brightside-capital.com, 28.01.2024.

[2] Cfr. Mearsheimer, J., Walt, S., La lobby israeliana e la politica estera degli Usa, Asterios Editore, Trieste, 2007.

[3] Cfr. Silver, L., How Americans and Israelis view one another and the U.S. role in the Israel-Hamas war, in Pew Research Center, 30.05.2024.

[4] Cfr. Moltedo, G., Il repubblicano americano Benjamin Netanyahu, in Ytaly.com magazine, 10.11.2023.

[5] Cfr. Vivaldelli, R., Mai così tanti aiuti militari a Israele dagli USA: ecco le cifre, in Inside Over, 12.10.2023; Brown University, United States Spending on Israel’s Military Operations and Related U.S. Operations in the Region, October 7, 2023, 30.09.2024.

[6] Cfr. Levy, G., Hubris Is Back: Israel’s Unchecked Arrogance Is a Recipe for Disaster, in Haaretz, 13.10.2024.

[7] Cfr. Kepel, G., Olocausti. Israele, Gaza e lo sconvolgimento del mondo dopo il 7 ottobre, ed. Feltrinelli, Milano, Settembre 2024.

[8] Cfr.Ibidem.

[9] Cfr. International Crisis Group, Occupied West Bank:Curb Israeli Settler Violence and Settlement Expansion, 15.10.2024.

[10] Cfr. MEE Staff, Bezazel Smotrich calls for Israel’s borders to extend to Damascus, in Middle East Eye, 11.10.2024.

[11] Cfr. Al-Salhy, S., Iran: Quds Force head Esmail Qaani makes first appearance in weeks at general’s funeral, in Middle East Eye, 15.10.2024.

[12] Cfr. Lidman, M., Chehayeb, K., What to know about Israel’s ground invasion in southern Lebanon, in AP, 10.10.2024.

[13] Cfr. Algarhi, A.S., Lagos, C., Israel: 11 months of war have battered the country’s economy, in The Coversation, 05.09.2024.

[14] Cfr. Brzezinski, Z., Been there, done that, in Los Angeles Times, 23.04.2006.

[15] Cfr. Schryver, W., All for one and one for all, in  https://imetatronink.substack.com/p/all-for-one-and-one-for-all, 13.04.2024.

[16] Cfr. Shamdanihagh, A., Iran: terremoto o test nucleare sotterraneo segreto?, in Euronews, 10.10.2024.

[17] Cfr. Frantzman, J.S., Iran’s Foreign Minister meets Saudi crown prince to strengthen regional ties – analysis, in The Jerusalem Post, 10.10.2024.

[18] Cfr. Rubin, S., Nakashima, E., Netanyahu tells US that Israel will strike Iranian military, not nuclear or oil, targets officials say, in The Washington Post, 14.10.2024.

[19] Cfr. Masala, G., Mosca-Teheran: l’impensabile alleanza è nata!, in L’Antidiplomatico, 09.10.2024.

[20] Cfr. Mijuk, G., Middle East expert: «On Oct. 7, Iran and Hezbollah were unwillingly drawn into a dynamic of escalation», in NZZ Global Reporting, 08.10.2024.

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