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| | Filantropia

Dopamine

There’s a river born to be a giver
Keep you warm, won’t let you shiver
His heart is never gonna wither
Come on everybody, time to deliver

Give it away, give it away, give it away now
Give it away, give it away, give it away now

Give it away – Red Hot Chilly Peppers

La filantropia è stata per secoli associata a valori morali, religiosi e sociali. Tuttavia, la neuroscienza ha aperto una nuova dimensione nella comprensione della generosità: il dono non è solo un atto sociale, ma un processo neurochimico e comportamentale che intreccia empatia, piacere e connessione sociale. Attraverso questa Side View, esploreremo come le scoperte neuroscientifiche stanno ridefinendo la filantropia come esperienza trasformativa sia per chi dona che per chi riceve, trasformando il dono da gesto isolato a strumento di connessione sociale profonda e crescita personale. 

L’evoluzione biologica della generosità

Le radici evolutive della filantropia risiedono nella necessità di cooperazione per la sopravvivenza. I nostri antenati hanno sviluppato un cervello predisposto alla reciprocità: aiutare gli altri aumentava le probabilità di ricevere aiuto in situazioni critiche. Questo “contratto sociale” inconscio è oggi evidente nei comportamenti sociali: atti di generosità stimolano le aree cerebrali legate al piacere più che atti egoistici. In un’epoca di iperconnessione digitale, le iniziative filantropiche possono sfruttare questa tendenza evolutiva creando piattaforme che simulino comunità strette e interconnesse, come accade con le donazioni di gruppo o i progetti di crowdfunding. Studi sul crowdfunding, come quelli del Stanford Social Innovation Review, evidenziano che piattaforme che mostrano il numero di donatori e i progressi verso un obiettivo prefissato stimolano ulteriori contributi. I donatori sono influenzati positivamente dalla “prova sociale” del supporto collettivo.[1]

Uno studio del Journal of Public Economics ha mostrato che la promessa di raddoppiare una donazione (matching donation) può aumentare significativamente il numero di donatori e il totale raccolto. In un esperimento condotto da Karlan e List (2007), si è riscontrato che una campagna che prevedeva un matching al 100% incrementava le donazioni del 19% rispetto a quelle senza incentivi.[2] Lo studio condotto da Karlan e List, pubblicato nell’American Economic Review, analizza infatti l’impatto delle matching donations attraverso un esperimento sul campo. La ricerca ha utilizzato una campagna di mailing rivolta a oltre 50.000 donatori di un’organizzazione non profit. I risultati hanno dimostrato che l’offerta di un matching 1:1 ha aumentato sia il numero di donatori che l’ammontare totale raccolto del 19% rispetto a campagne senza incentivi. Tuttavia, incrementare il rapporto di matching (ad esempio, 2:1 o 3:1) non ha portato ulteriori benefici significativi, suggerendo che il semplice meccanismo di incentivo sia sufficiente per migliorare l’esito delle donazioni. Questa ricerca offre una prospettiva interessante sul legame tra generosità e neuroscienza, dimostrando che il comportamento altruistico può essere incentivato attraverso interventi strutturati.

Dal punto di vista neuroscientifico, questo comportamento può essere spiegato dalla teoria del “warm glow giving”, che implica che la soddisfazione che deriva dall’atto di donare sia una fonte intrinseca di piacere, che attiva le stesse aree cerebrali associate alla ricompensa, anche quando la ricompensa è assente.[3] L’idea è che l’anticipazione di un impatto positivo, amplificato dal matching, stimoli aree del cervello come il nucleo accumbens, associato al piacere. La percezione di “moltiplicare” il proprio gesto accresce il senso di soddisfazione personale e potenzia la connessione emotiva con la causa sostenuta. Inoltre, il matching può rafforzare la fiducia e il senso di comunità, attivando un circolo virtuoso che favorisce l’altruismo. Questo è in linea con altri studi, come quello pubblicato su Nature Neuroscience, che collega il rilascio di ossitocina durante atti altruistici all’aumento di fiducia e connessione sociale.[4] Nel caso del matching, l’idea che il proprio gesto venga riconosciuto e amplificato agisce non solo a livello razionale ma anche emotivo, spingendo le persone a partecipare più attivamente. Questa ricerca è un tassello importante per sostenere che i meccanismi di donazione non sono solo economici, ma radicati nelle risposte biologiche e psicologiche umane. La neuroscienza ci aiuta a comprendere perché strumenti come il matching siano così efficaci: essi non solo aumentano il valore tangibile della donazione ma parlano direttamente ai nostri centri di gratificazione e connessione sociale, rendendo il dono un’esperienza appagante e condivisa.

La generosità come meccanismo evolutivo

La generosità, spesso considerata un atto di pura volontà o morale, affonda in realtà le sue radici in meccanismi evolutivi complessi, che hanno contribuito alla sopravvivenza e al progresso dell’umanità. Il concetto di “altruismo reciproco,” introdotto dal biologo Robert Trivers negli anni ’70, offre una chiave di lettura fondamentale: la disponibilità a compiere atti di generosità, anche a un costo immediato, viene ricompensata nel lungo termine da vantaggi sociali o cooperativi. In breve, essere generosi non è solo “buono”, ma anche funzionale alla sopravvivenza e al successo di una specie sociale.

Secondo dati del National Philanthropic Trust, durante crisi globali (es. pandemie o disastri naturali), il numero di donazioni cresce significativamente quando le persone percepiscono un senso di urgenza e appartenenza a una comunità globale. Durante il COVID-19, molte campagne di emergenza hanno registrato un aumento del 25% nelle donazioni individuali.[5] Queste analisi evidenziano come l’intersezione tra psicologia comportamentale, neuroscienze e strategie di comunicazione possa influenzare il comportamento dei donatori.

Studi sul cervello umano e animale hanno dimostrato che gli atti altruistici stimolano il sistema di ricompensa neurale, attivando regioni del cervello che plasmano la nostra felicità e i nostri comportamenti. Questi circuiti, come evidenziato da Fehr e Tobler, dell’Università di Zurigo, non si limitano a promuovere il benessere individuale, ma rafforzano la coesione del gruppo, migliorando la probabilità di sopravvivenza collettiva.[6] L’ossitocina, spesso definita “l’ormone della fiducia”, gioca un ruolo cruciale in questo processo, facilitando relazioni di cooperazione e rafforzando il legame sociale attraverso la generosità.L’esperimento condotto da Fehr e Tobler ha rivelato che il dono, lungi dall’essere percepito come una perdita o un sacrificio, è vissuto come un’esperienza intrinsecamente gratificante. Il cervello, in sostanza, ricompensa l’atto altruistico con una sensazione di benessere, sottolineando come la generosità sia parte integrante del nostro sistema di gratificazione.

Questi risultati offrono una prospettiva innovativa sulla filantropia: donare non è soltanto un gesto etico, ma anche una dinamica biologica e psicologica che arricchisce chi dona, promuovendo benessere personale e relazioni sociali più profonde.

L’applicazione della teoria dei giochi all’altruismo, come nei modelli del “Dilemma del Prigioniero iterato,” ha confermato che strategie generose e collaborative tendono a prevalere nel lungo periodo.[7] In un ambiente sociale, la reputazione di generosità crea fiducia, favorisce alleanze e garantisce il supporto reciproco in situazioni di necessità. Martin Nowak, autore di SuperCooperators, ha ampliato questa analisi, dimostrando che la cooperazione genera vantaggi evolutivi significativi in una vasta gamma di contesti.[8]
La neuroscienza dimostra che il cervello umano è “plastico” e che gli atti di generosità ripetuti possono modificare i modelli neurali, aumentando la resilienza emotiva e riducendo i livelli di stress. Questo è particolarmente rilevante per programmi che coinvolgono donatori in esperienze sul campo, dove possono vedere direttamente l’impatto delle loro azioni.

In conclusione

Nelle società tradizionali, il dono era un mezzo per creare obblighi reciproci e consolidare i legami sociali, come descritto da Marcel Mauss nel suo saggio The Gift – una lettura obbligatoria per chiunque nutra interesse verso questi temi.[9] Oggi, la filantropia e il volontariato riproducono questa dinamica su scala globale, promuovendo connessioni che trascendono confini geografici e culturali.

La generosità, dunque, non è solo una virtù morale, ma una strategia evolutiva raffinata, capace di trasformare le dinamiche sociali e di rafforzare il tessuto collettivo che tiene unita l’umanità. Questo principio, confermato tanto dalla scienza quanto dalla storia, è una testimonianza potente di come il dono sia non solo un atto di altruismo, ma anche un investimento nel futuro comune. Riconoscere la generosità come un meccanismo evolutivo consente di ripensare le sue applicazioni pratiche. Programmi educativi che integrano l’altruismo come valore centrale, iniziative di filantropia che sfruttano la tecnologia per massimizzare la trasparenza e la fiducia, e politiche sociali che incentivano il volontariato non sono solo strumenti per migliorare la società, ma rispondono a una spinta fondamentale radicata nella nostra natura. La generosità, infatti, non solo rafforza i legami sociali ma alimenta la fiducia all’interno delle comunità. La neuroscienza supporta questa dinamica mostrando che i circuiti cerebrali legati alla ricompensa sono più attivi quando percepiamo che il nostro dono ha un impatto tangibile sugli altri. Questo suggerisce che l’atto del donare non è solo una transazione unidirezionale, ma una forma di dialogo che trasforma sia chi dà che chi riceve.

La filantropia, vista attraverso la lente della neuroscienza, non è solo un atto generoso ma un’esperienza che coinvolge cervello, emozioni e società. Comprendere i meccanismi cerebrali alla base della generosità può trasformare il settore. Tuttavia, il vero potenziale della filantropia sta nel riconoscere che, al centro di ogni donazione, ci sono connessioni umane autentiche, alimentate da una combinazione unica di scienza e cuore.

Approfondimento a cura di Beatrice Marzi

Lugano, 1 dicembre 2024


[1]Athey, S. “New Research Could Help Nonprofits Attract Millions of Online Donors”, Stanford Social Innovation Review: https://www.gsb.stanford.edu/insights/new-research-could-help-nonprofits-attract-millions-online-donors

[2] Karlan, D., & List, J. A. (2007). “Does Price Matter in Charitable Giving? Evidence from a Large-Scale Natural Field Experiment”. Journal of Public Economics, 91(5), 1-21.

[3] Harbaugh, W. T., Mayr, U., & Burghart, D. R. (2007). “Neural responses to taxation and voluntary giving reveal motives for charitable donations”. Science, 316(5831), 1622-1625. DOI: 10.1126/science.1140738.

[4] Kosfeld, M., Heinrichs, M., Zak, P. J., Fischbacher, U., & Fehr, E. (2005). “Oxytocin increases trust in humans.” Nature, 435(7042), 673-676. DOI: 10.1038/nature03701.

[5] Fidelity Charitable. New Fidelity Charitable Data on Giving During COVID-19 Highlights Unprecedented Need. April 30, 2020. https://www.fidelitycharitable.org/about-us/news/new-fidelity-charitable-data-on-giving-during-covid-19-highlights-unprecedented-need.html

[6] Tobler, P. N., Doherty, J. P., Hilker, R., & Fehr, E. (2017). A Neural Link Between Generosity and HappinessNature Communications, 8, Article 15964. DOI: 10.1038/ncomms15964.

[7] Rand, D. G., Nowak, M. A., & Christakis, N. A. “Dynamic social networks promote cooperation in experiments with humans.” Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 108, no. 48, 2011, pp. 19193–19198, Cambridge University Press. DOI: 10.1073/pnas.1108243108.

[8] Nowak, Martin A., and Roger Highfield. SuperCooperators: Evolution, Altruism, and Why We Need Each Other to Succeed. Free Press, 2012. https://www.ibs.it/supercooperators-libro-inglese-martin-nowak-roger-highfield/e/9781847673381?srsltid=AfmBOorhzWMER9MuNlXFujiqisIcH6Phn-teWeDdu08KuodAcQTU7Yiw

[9] Mauss, Marcel. The Gift: The Form and Reason for Exchange in Archaic Societies. Translated by W. D. Halls, Routledge, 1990.

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