crosssearchwhat-assetwhat-handwhat-infinitywhat-mathwhat-packagewhat-paperwhat-tree
| | Macro views

Skyfall

This is the end
Hold your breath and count to ten
Feel the Earth move and then
Hear my heart burst again

SKYFALL, Adele
SKYFALL SOUNDTRACK, 2012

Con l’edizione pubblicata domenica 19 aprile, intitolata “How a dollar crisis would unfold”, il numero di uscite della nota rivista finanziaria The Economist che prefiguravano un’epoca di caos per l’America — come suggerisce anche il titolo “The Age of Chaos” — era salito a tre nel solo mese di aprile.

A completare il quadro, nell’ultima domenica del mese è stata pubblicata una nuova cover story, “Only 1361 days to go”. Un chiaro riferimento al fatto che sono trascorsi i primi 100 giorni della nuova amministrazione, che — a giudicare dallo stato in cui viene raffigurato l’animale simbolo degli Stati Uniti in copertina — non sembrano aver convinto positivamente il noto magazine progressista d’Oltremanica.

Molti investitori navigati dei mercati affermano che quando i giornalisti finanziari iniziano a fare il tifo per una narrativa, di solito è il momento di diventare cauti ed iniziare a prendere le distanze. I media mainstream hanno una sorprendente capacità di individuare i massimi e i minimi di mercato, in modo inconsapevole ma non in senso positivo. Un esempio? Solamente lo scorso ottobre, The Economist pubblicava un’edizione con in copertina un rotolo di dollari lanciato come un razzo nello spazio, simbolo di un’economia americana in forte accelerazione, con il titolo: “The Envy of the World” (“L’invidia del mondo”). Dalla pubblicazione ad oggi, il dollaro si è svalutato di circa il 5%, ai minimi da aprile 2022.

Come già visto nella Side View precedente, nel contesto attuale di riorganizzazione del sistema commerciale globale promosso dalla nuova amministrazione americana, cresce tra gli investitori, specie in Europa, la tendenza a rimettere in discussione il ruolo dell’America e del dollaro come perno dell’architettura monetaria e geopolitica internazionale. Da Parigi a Berlino a Londra, è un susseguirsi di previsioni fosche sulla tanto attesa fine dell’America.

Nella sideview di oggi, guidati come sempre dall’intento che ognuno possa farsi una propria visione delle cose, proviamo a confrontare i due scenari che l’Amministrazione americana si trova davanti, cioè il crollo o la resurrezione.

Il crollo

1. La potenziale perdita di fiducia nel dollaro statunitense e nel ruolo degli Stati Uniti come fulcro dell’economia globale.

Nel 1944, il dollaro statunitense divenne la valuta di riserva globale. Non fu un evento casuale, ma il risultato di una strategia ben definita: vinta la Seconda Guerra Mondiale, con l’Accordo di Bretton Woods furono legate le principali valute mondiali al dollaro, e il dollaro all’oro. Nacquero in parallelo il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con l’obiettivo di finanziare una nuova fase di sviluppo globale. Furono insomma poste le basi per la futura  egemonia finanziaria americana. Nel 1971, mentre gli Stati Uniti cominciavano a registrare i primi deficit di bilancio, su intuizione di Henry Kissinger, il presidente Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro. Nacque così il sistema dei petrodollari: il mondo venne inondato di dollari, che si affermarono non solo come valuta di riserva per i risparmi faticosamente accumulati dai governi, ma anche come principale mezzo di scambio nelle transazioni economiche e finanziarie internazionali. Questo set-up obbliga gli Stati Uniti a viaggiare in deficit strutturale per decadi e inondare il mercato di dollari che, come contropartita, i governi in surplus investono nei mercati finanziari americani. Il tutto a vantaggio del sistema finanziario internazionale, che ne ha tratto profitti sempre più abbondanti, consolidando al contempo l’egemonia della finanza a stelle e strisce. Ancora oggi, il mercato del debito americano è il più grande del mondo, mentre la Borsa statunitense rappresenta circa il 70% dell’intero indice azionario globale, con Europa (20%) e Cina (3%) relegate al ruolo di spettatori dei flussi che, giorno dopo giorno, rafforzano ulteriormente le corporation americane. Ultimo vantaggio per gli USA: la crescita degli asset dei cittadini americani che avendo da sempre investito i propri risparmi prevalentemente in azioni, hanno visto crescere il proprio wealth grazie alla crescita dell’ S&P500. Mentre in Europa tutti correvano a proteggere i sudati risparmi con BOT e Bund… a tassi negativi.

Secondo i dati raccolti da Alliance Bernstein l’uscita di capitali dall’Europa (linea gialla) e il reindirizzamento verso gli Stati Uniti (linea blu) è sempre più marcato  e le ragioni di questo spostamento sembrerebbero strutturali:

  • Demografia più favorevole rispetto a Cina ed Europa
  • Redditività aziendale superiore, trainata dal settore tech
  • Dimensione del mercato interno
  • Ruolo centrale del dollaro come valuta di riserva

Una perdita di fiducia nel modello americano avrebbe ripercussioni più profonde nei mercati finanziari rispetto al passato. Il grafico che segue, tratto dalla ricerca di Goldman Sachs, mostra l’evoluzione della tipologia di investitori che mettono denaro al lavoro nel mercato americano dal 1945 ad oggi. Un tempo dominato da famiglie americane (area azzurra), il mercato si è progressivamente istituzionalizzato, con fondi comuni, fondi pensione e successivamente ETF che ne hanno assunto il controllo. Secondo John Authers, noto editorialista finanziario di Bloomberg, “con un ETF, è possibile spostare milioni fuori dagli Stati Uniti con un clic. Cambi normativi nei fondi pensione possono obbligare gli investitori istituzionali “non americani” a riportare capitali in patria in tempi brevissimi. Nell’era degli indici e degli ETF, le “guerre di capitale” sono più facili da combattere rispetto a quelle commerciali: basta un segnale politico o il timore di esposizioni scomode per spingere gestori e fondi a disinvestire. E in questo contesto, gli Stati Uniti hanno molto da perdere. Non succederà da un giorno all’altro, ma può accadere molto più in fretta di quanto si creda.”

Questa crisi di fiducia rischia di essere ancora più pericolosa in questa fase quando a causa dell’alto livello di indebitamento, gli americani hanno bisogno come mai prima nella storia, che il resto del mondo investa nei loro titoli di stato consentendo il rifinanziamento del debito sovrano.

2. Guerra commerciale con la Cina

Misure come dazi e restrizioni commerciali mirano a tutelare l’industria domestica americana e ridurre il deficit, ma rischiano di tradursi in costi più elevati per l’economia reale statunitense. Come riportato dalla CNN[1], Temu e Shein (piattaforme di e-commerce specializzate in beni di consumo a basso costo, con produzione prevalentemente cinese) hanno aumentato i prezzi su molti prodotti in vista dell’entrata in vigore, il 2 maggio, di nuovi dazi doganali imposti da un ordine esecutivo firmato da Donald Trump. Le due piattaforme finora avevano beneficiato dell’esenzione “de minimis” sui beni sotto gli 800 dollari, ma con la sua eliminazione dovranno affrontare tariffe del 120% o una tassa fissa per spedizione che salirà da 100 a 200 dollari entro giugno. Gli effetti si stanno già vedendo: un set da bagno su Shein è passato da 4,39 a 8,39 dollari in 24 ore, mentre due sedie da esterno su Temu sono salite da 61,72 a 70,17 dollari. Il rincaro non è uniforme su tutti i prodotti, ma l’impatto è concreto.

Secondo dati ufficiali, il 48% della merce esentata inizialmente dai dazi (perché sotto soglia) era destinato a codici postali di aree “più povere”, contro il 22% per quelle più ricche: l’abolizione dell’esenzione colpirà perciò in modo sproporzionato i consumatori americani più vulnerabili.

Questo scenario potrebbe accelerare l’aumento del costo della vita, comprimere i consumi delle famiglie più fragili: secondo dati interni di Bank of America, circa il 35% delle famiglie con redditi inferiori a 50.000 dollari annui vive di “stipendio in stipendio”, in aumento rispetto al 32% del 2019.

Il rallentamento della crescita economica potrebbe spingere il Paese verso una recessione tecnica nei prossimi 12-18 mesi, con il rischio per l’amministrazione di arrivare ai midterm di novembre 2026 in una posizione indebolita, con gli elettori pronti a scaricare l’attuale amministrazione a causa delle aumentate difficoltà economiche.

3. Potenziale perdita di controllo sui tassi di interesse a lunga scadenza

La combinazione tra perdita di fiducia nel sistema e un’escalation delle tensioni con il paese del Dragone potrebbe generare pressioni sui tassi d’interesse del debito americano, senza contare i potenziali problemi di rifinanziamento dei trilioni di dollari di titoli in scadenza nel breve periodo di cui abbiamo già parlato in uno scritto precedente (Bessent-nomics).

A rendere il quadro ancora più delicato, il Giappone — principale detentore estero di Treasury americani e storicamente in rapporti ben più solidi con Washington rispetto alla Cina — ha recentemente fatto sapere che potrebbe utilizzare le proprie riserve di obbligazioni americane come strumento di pressione nei negoziati commerciali.

Se persino un Paese tradizionalmente vicino agli Stati Uniti considera questa possibilità, è ragionevole ipotizzare che la Cina, in un contesto di crescente rivalità strategica, possa agire in maniera ancora più decisa: ad esempio Pechino potrebbe aumentare il ritmo con cui si sta sbarazzando dei Treasuries, dei quali la Cina rappresenta il terzo maggiore detentore a livello globale, portando così i tassi di interesse a salire. È noto ormai che la Cina abbia iniziato a vendere obbligazioni governative dal 2015 e la situazione ad oggi vede la Cina detenere:

  • ~700 miliardi di dollari in titoli del Tesoro USA a lungo termine presso custodi statunitensi
  • ~300 miliardi di dollari in titoli del Tesoro USA a lungo termine presso custodi non statunitensi (principalmente detenuti tramite il sistema di custodia Euroclear, con sede a Bruxelles)
  • ~250 miliardi di dollari in buoni del Tesoro e depositi
  • ~200 miliardi di dollari in titoli di agenzie governative presso custodi statunitensi
  • ~300 miliardi di dollari in azioni

Secondo i dati raccolti da Brad W. Setser, economista statunitense e Deputy Assistant Secretary dal 2011 al 2015 per l’analisi economica internazionale presso il Dipartimento del Tesoro, le partecipazioni della Cina in titoli del Tesoro e delle agenzie federali americane sarebbero abbastanza grandi da permetterle (temporaneamente) di creare volatilità nel mercato dei bond. Una stima standard suggerisce che vendite ufficiali da parte di attori esteri pari a 1 punto percentuale del PIL statunitense (circa 300 miliardi di dollari) potrebbero far salire i tassi sui Treasury a 10 anni di circa 20 punti base durante il periodo delle vendite, e di 5 punti base nel lungo periodo. Il miglior test empirico, naturalmente, è stato lo shock da COVID all’inizio del 2020: vendite ufficiali per circa 400 miliardi di dollari hanno effettivamente creato volatilità nel mercato, inducendo la Federal Reserve a intervenire con misure di emergenza”

La resurrezione

1. La Cina… come la sterlina

Nonostante le tensioni persistenti tra Stati Uniti e Cina rappresentino un fattore di instabilità per l’economia globale, si può ipotizzare che Washington stia valutando, o possa valutare in futuro, una strategia volta a rafforzare la propria posizione economica internazionale attraverso un’azione mirata nei confronti di Pechino. L’economia cinese mostra una forte dipendenza dalle esportazioni e si trova in una fase di marcata debolezza della domanda interna. Secondo l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, attualmente, gli Stati Uniti sono il principale mercato di sbocco per i beni cinesi e la seconda fonte di approvvigionamento per le merci importate. Nel 2024, le vendite della Cina verso gli Stati Uniti hanno inciso per il 14,7% sul totale dell’export nazionale, mentre gli acquisti dagli USA hanno rappresentato il 6,3% dell’import complessivo. In questo contesto, misure protezionistiche da parte degli Stati Uniti potrebbero teoricamente amplificare le difficoltà dell’economia cinese, riducendo ulteriormente la sua capacità di crescita. Un rallentamento delle esportazioni verso il mercato statunitense potrebbe accentuare le dinamiche recessive già in atto (a causa di una crisi immobiliare davvero mai risolta), mettendo sotto pressione la sostenibilità del modello di sviluppo cinese e ostacolandone le ambizioni di competizione globale.

A conferma delle difficoltà crescenti, secondo un articolo del Financial Times[2], l’intensificarsi della guerra commerciale ha già iniziato a produrre effetti tangibili sul tessuto manifatturiero cinese. Con la maggior parte dei beni destinati agli Stati Uniti soggetti a dazi superiori al 145%, numerosi stabilimenti hanno ridotto la produzione o sospeso temporaneamente le attività. Settori chiave come l’abbigliamento, gli elettrodomestici e i componenti elettronici risultano particolarmente colpiti, con molte imprese costrette a ridurre i turni e concedere ai lavoratori settimane di fermo. Le testimonianze raccolte sul campo evidenziano la gravità della situazione: «I nostri ordini per l’export sono scomparsi, quindi abbiamo temporaneamente fermato la produzione», ha dichiarato una lavoratrice di una fabbrica di plastica nella provincia di Fujian, precisando che la produzione era già sospesa da una settimana. Analogamente, un dipendente di una fabbrica di giocattoli nello Zhejiang ha raccontato che «la direzione ci ha concesso circa due settimane di pausa a causa del calo delle vendite verso gli Stati Uniti». Alcune aziende, come DeHong Electrical Products, hanno addirittura messo i dipendenti in congedo forzato a salario minimo, citando “pressioni significative a breve termine” derivanti dalla sospensione degli ordini americani. Nel tentativo di contenere i danni, città industriali come Shenzhen e Dongguan hanno varato programmi di sostegno all’export, inclusi sussidi per la partecipazione a fiere internazionali e l’estensione delle assicurazioni sulle esportazioni, ma il rischio di una ristrutturazione forzata e duratura del settore manifatturiero cinese si fa sempre più concreto.

Molti osservatori specialmente in Europa probabilmente non hanno mai riflettuto a fondo sul track record ed il back-ground dell’attuale ministro del Tesoro, Scott Bessent: professore di storia economica a Yale dal 1991 al 2000, formato nell’arte degli short dal più forte player del settore, Jim Chanos, ma soprattutto membro del dream team con Soros e Druckenmiller che nel 1992 incamerò 1 miliardo di profitti con una scommessa contro la sterlina e che nel 2013 portò a casa un altro 1.2 bn di profitti contro lo yen giapponese. Uno dei macro investor più abili di tutti i tempi: e se il prossimo target fosse proprio il renminbi cinese?

Magari se ne intravedono già le prime avvisaglie: basti pensare al recente declassamento del rating creditizio della Cina, deciso dall’agenzia americana Fitch dopo il Liberation Day, che ha motivato la sua scelta con il rapido deterioramento delle finanze pubbliche cinesi e l’esplosione del debito sovrano: rapporto debito/PIL dal 60,9% previsto nel 2024 al 74,2% nel 2026, unitamente a deficit annui attesi all’8,4% del PIL — quasi il triplo dei livelli pre-COVID. Nonostante Pechino abbia definito la decisione “faziosa”, il combinarsi di un settore immobiliare in crisi, di un calo delle entrate derivanti dalla vendita di terreni e della crescente minaccia di un rallentamento delle esportazioni verso gli Stati Uniti espone la Cina a un rischio economico sistemico. Il declassamento da parte di una primaria agenzia americana, in concomitanza con l’inasprirsi delle tensioni commerciali e tariffarie, appare come un ulteriore colpo coordinato alla stabilità cinese; da italiani, dopo aver vissuto l’estate della crisi dei BTP con i tassi all’8%, abbiamo senza dubbio una maggiore sensibilità in materia di manovre concertate…

2. Deregolamentazione della tecnologia

Già durante il primo mandato Trump, l’Amministrazione Trump si è impegnata a rafforzare la leadership americana nel campo dell’intelligenza artificiale (IA). Riconoscendo l’importanza strategica dell’IA per il futuro dell’economia e della sicurezza nazionale, nel febbraio 2019 ha istituito, tramite l’Ordine Esecutivo 13859, l’American AI Initiative. Questa iniziativa ha individuato cinque linee d’azione prioritarie:

  • aumentare gli investimenti nella ricerca sull’IA,
  • liberare le risorse federali di calcolo e dati per l’IA,
  • definire standard tecnici per l’intelligenza artificiale,
  • formare la forza lavoro americana nel settore dell’IA,
  • collaborare con gli alleati internazionali.

Tali linee guida sono state successivamente incorporate nella legislazione attraverso il National AI Initiative Act del 2020. Con una serie di azioni storiche, l’Amministrazione si è impegnata a (i) raddoppiare gli investimenti nella ricerca sull’IA, (ii) a creare i primi istituti nazionali di ricerca sull’intelligenza artificiale, (iii) a pubblicare un piano per la definizione di standard tecnici, (iv) a rilasciare la prima guida regolamentare sull’IA a livello mondiale, (v) a stringere nuove alleanze internazionali e (vi) a stabilire linee guida per l’uso dell’IA da parte delle agenzie federali.

Proiettandosi al nuovo mandato di Trump, poche ore dopo l’inaugurazione dell’Amministrazione, il tycoon ha revocato 78 provvedimenti tra cui l’ordine esecutivo sull’IA ereditato dall’era Biden dal titolo “Safe, Secure, and Trustworthy Development and Use of AI”. Quest’ultimo obbligava gli sviluppatori di grandi modelli AI a condividere i test di sicurezza con il governo e affidava al NIST (National Institute of Standards and Technology, agenzia federale USA che definisce standard tecnologici) la creazione di standard di verifica.
Inoltre, incaricava le agenzie federali di valutare i rischi dell’IA in settori critici e prevedeva misure per proteggere lavoratori e consumatori da frodi e discriminazioni.

Trump, invece, vuole puntare su uno sviluppo dell’IA più rapido e meno regolamentato. Durante il suo insediamento, era circondato da leader tecnologici come Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg, Tim Cook, Shou Zi Chew, Sundar Pichai e Sam Altman.

Questa scelta si inserisce all’interno di una più ampia politica protezionistica americana: in un mondo multipolare, dove la supremazia tecnologica è decisiva per il potere geopolitico, Washington vuole:

  • Accelerare il progresso interno nell’IA senza freni burocratici.
  • Controllare direttamente lo sviluppo delle tecnologie più strategiche, impedendo dispersione di know-how.
  • Tagliare fuori la Cina, che ha mostrato grandi capacità nell’IA — come dimostra la recente avanzata di DeepSeek, uno dei modelli AI più competitivi al mondo.

La deregulation di Trump è quindi funzionale a mantenere il primato tecnologico USA, liberando il settore tech da vincoli domestici, mentre allo stesso tempo si rafforzano misure restrittive sull’esportazione di chip avanzati e sulla condivisione di modelli AI con Paesi rivali.

Questo piano diventa ancora più chiaro se si legge la lettera scritta dallo stesso Trump a Micheal Kratsios, direttore dell’Ufficio per la Politica Scientifica e Tecnologica della Casa Bianca, che proniamo di seguito [3]:

Il progresso scientifico e l’innovazione tecnologica sono stati i due motori che hanno alimentato il secolo americano. Il Progetto Manhattan ha dato impulso all’era atomica. Il Programma Apollo ci ha fatto vincere la corsa allo spazio. Internet ci ha connessi a un futuro digitale. Oggi inaugureremo l’Età d’Oro dell’Innovazione Americana. Renderemo l’America più sicura, più sana e più prospera che mai. Creeremo un futuro di grandezza americana per ogni cittadino, ristabilendo il Sogno Americano”.

Non solo: e se fosse il dominio tecnologico, il veicolo per trovare un nuovo compratore di ultima istanza dei Treasury che i paesi antagonisti decidessero di vendere? Trump ha nominato David Sacks come nuovo Zar di AI ma anche delle crypto e sin dalla campagna elettorale ha fortemente supportato la nouvelle vague degli Asset Digitali. Ognuno può avere una sua opinione circa le possibilità che il Bitcoin abbia di soppiantare il dollaro americano come nuova architrave finanziaria del nuovo mondo multipolare. Pochi dubbi però si possono avere che uno sviluppo degli Asset Digitali, porterà ad uno sviluppo esponenziale degli stablecoins che potranno diventare una sorta di compratori di ultima istanza di titoli del tesoro americano. A tal proposito, in una recente intervista[4], il segretario Scott Bessent si è espresso così riguardo alle stablecoins: “Faremo in modo di mantenere il dollaro americano come moneta dominante nel mondo e useremo le stablecoins per farlo”. In aggiunta, il 29 aprile, per la prima volta nella storia, il Treasury Borrowing Advisory Committee (comitato che consiglia il Tesoro USA su come emettere e gestire il debito pubblico) ha discusso delle stablecoin come di un “nuovo meccanismo di pagamento” e di una potenziale enorme fonte di domanda per i T-bill statunitensi. Gli emittenti di stablecoin già oggi detengono in parte T-bill nelle loro riserve (grafico sopra), ma senza obblighi stringenti. Con la regolamentazione proposta, sarebbero tenuti per legge a detenere asset sicuri e liquidi — principalmente T-bill con scadenze inferiori a 93 giorni — standardizzando e ampliando la domanda. La crescita del mercato stablecoin (ipotizzata fino fino a $2.000 miliardi) potrebbe così generare un forte e strutturale aumento della domanda di titoli a breve termine USA.

Come sempre, ogni transizione apre scenari alternativi. Sta a ciascun osservatore decidere se leggere questi “venti di cambiamento” come il preludio a una nuova fase di instabilità o come l’inizio di un diverso ordine globale. In un contesto in cui le dinamiche monetarie, tecnologiche e geopolitiche si muovono in modo sempre meno lineare, il vero tema non è più prevedere il prossimo movimento, ma capire l’ampiezza dei cambiamenti in atto. I segnali che emergono — dalla riorganizzazione degli scambi internazionali alla nuova architettura finanziaria digitale — raccontano di un mondo che si allontana lentamente ma inesorabilmente dagli equilibri su cui si è fondato per decenni. In questo scenario, restare ancorati a schemi interpretativi tradizionali rischia di essere il vero errore. Non sarà la velocità, ma la capacità di leggere correttamente il contesto e di posizionarsi per tempo a fare la differenza tra chi saprà navigare il cambiamento e chi ne verrà travolto. Perché, come sempre accade nei momenti di svolta storica, i venti del cambiamento non si possono fermare.

Approfondimento a cura di Nicola Lampis e Alex Pezzoli

Lugano, 4 maggio 2025


[1] https://edition.cnn.com/2025/04/25/business/shein-temu-price-increase/index.html

[2] https://www.ft.com/content/d5784258-4de3-44a1-94ae-6f763857b034?

[3] https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/2025/03/a-letter-to-michael-kratsios-director-of-the-white-house-office-of-science-and-technology-policy/

[4] https://x.com/subjectiveviews/status/1909099206368690525

    Visioni non convenzionali dal mondo della finanza: ogni settimana, analisi e approfondimenti per stimolare riflessioni.

    scrivendomi alla newsletter acconsento al trattamento dei miei dati e dichiaro di aver preso visione della Privacy Policy