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Staying alive

«Bad Times Create Strong Men,
Strong Men Create Good Times,
Good Times Create Weak Men,
Weak Men Create Bad Times.»

G. Michael Hopf, Those Who Remain, 2016

Di fronte al susseguirsi sempre più intenso di notizie tanto allarmanti quanto inaspettate dal punto di vista politico, economico e sociale, il libro di Ray Dalio Principles for Dealing with the Changing World Order (best seller per il New York Times) ci aiuta a mettere tutto in prospettiva e ad avere una lente con la quale analizzare la situazione “dall’alto”, prendendo come punto di partenza l’analisi di oltre 500 anni di eventi storici per capire se ci siano degli schemi ricorrenti che influenzano l’evoluzione politica ed economica delle nazioni. Secondo l’autore, noto principalmente per essere il fondatore di Bridgewater Associates (un hedge fund con oltre USD 150 miliardi in gestione ), effettivamente esistono fattori che determinano l’ascesa e il declino delle grandi potenze mondiali, i quali sono stati articolati all’interno del cosiddetto “ciclo interno” in una sequenza di sei fasi differenti.

Come ribadito in un recente video da Dalio[1], una delle fasi più critiche di questo ciclo ruota proprio attorno all’eccessivo ricorso al debito governativo, simbolo evidente di una crescita artificiale, sostenuta più dal credito facile che dall’aumento di competitività reale. Questo accumulo di passività, seppur inizialmente stimolante, finisce per generare distorsioni profonde: prima tra tutte l’inflazione, che erode il potere d’acquisto e innesca una rincorsa tra salari e prezzi. A ciò si aggiunge la necessità di mantenere tassi d’interesse reali negativi per rendere il debito sostenibile, con effetti collaterali sull’allocazione del capitale e sulla formazione di bolle speculative. Nel tempo, la fiducia nella valuta si logora, portando a un progressivo indebolimento del valore reale della moneta — il cosiddetto “debasement”. In parallelo, il sistema sociale si irrigidisce: cresce il divario tra chi detiene asset e chi vive di reddito fisso, alimentando tensioni politiche, populismi e scontri tra classi. Quando questi elementi si combinano, storicamente, il passo verso il conflitto — interno o esterno — diventa pericolosamente breve. Ogni riferimento a situazioni reali è puramente casuale… o forse no.

Nella Side View di oggi cerchiamo di leggere i turbolenti accadimenti dell’attualità con le lenti proposte da Ray Dalio e dal framework da lui sviluppato. L’obiettivo è quello di gettare le basi per sviluppare una visione d’insieme che ci aiuti a comprendere i nessi tra i movimenti nei mercati, l’emergere di tensioni sociali e politiche, la crisi di fiducia verso le principali istituzioni a livello globale, il protrarsi dei conflitti e le loro ripercussioni su commercio globale e approvvigionamento energetico. Con un’attenzione particolare alla situazione degli Stati Uniti, epicentro di molte delle dinamiche che andremo a considerare.

Le prime fasi del ciclo

Nel modello ciclico elaborato da Ray Dalio, che riportiamo qui di seguito, le prime quattro fasi rappresentano il percorso che porta una nazione al picco della prosperità.

(foto: The Changing World Order, 2021)

  1. La fase 1 segna la nascita di un nuovo ordine dopo un periodo di caos, guerra civile o crollo istituzionale (come furono la Rivoluzione francese nel 1789 o il post Seconda guerra mondiale nell’Europa occidentale e in Giappone). Il popolo, provato e in cerca di stabilità, accetta con favore una nuova leadership – spesso rivoluzionaria – che si afferma ricostruendo le strutture politiche, legali e sociali.
  2. La fase 2 è la naturale prosecuzione di questo scenario, nella quale si rafforzano le istituzioni e si avvia la vera “costruzione del nuovo Stato di diritto”. La giustizia diventa prevedibile, si costruiscono amministrazioni centrali e locali per gestire l’istruzione, la sanità e la difesa, e si gettano le basi per lo sviluppo industriale o agricolo avanzato. Un chiaro esempio di questa fase viene dagli Stati Uniti post-indipendenza, quando si crearono le fondamenta della Corte Suprema e dell’attuale sistema federale.
  3. La fase 3 segna il momento in cui la stabilità istituzionale, consolidata nelle prime due fasi del ciclo, comincia a dare i suoi frutti, consentendo alla società di prosperare sotto il profilo economico, culturale e geopolitico. Le differenze ideologiche e culturali non frammentano il tessuto politico, ma vengono invece valorizzate come espressione della pluralità democratica, e come accadde durante l’età dell’oro britannica nel XIX secolo, la ritrovata fiducia nel sistema e la crescente prosperità spingono i paesi ad aprirsi agli scambi internazionali: questo successo rappresenta il culmine del ciclo.
  4. Entrando nella fase 4 iniziano a manifestarsi segnali di logoramento sotto una superficie ancora apparentemente stabile. Inizia un periodo segnato dall’autoindulgenza, dalla compiacenza istituzionale e dall’accentuarsi delle disuguaglianze. Ray Dalio paragona questo stadio alla “decadenza romana”, in cui lo sfarzo e il lusso si espandono di pari passo con il deterioramento morale e la perdita di una visione collettiva. Governi e cittadini cominciano a vivere sopra le proprie possibilità, spesso grazie al debito. La spesa pubblica si concentra in modo sproporzionato su sussidi e protezione di privilegi consolidati, anziché su investimenti produttivi di lungo termine e le nuove generazioni, cresciute lontano dalle difficoltà delle fasi precedenti, tendono a considerare il benessere come un dato, invece che come frutto di sforzi sistemici. Ci ricorda qualcosa?

Le fasi finali del ciclo

Secondo l’autore, ci troviamo attualmente nella fase 5 del ciclo, ovvero uno stadio insidioso in cui eventi catalizzatori come una crisi economica, una pandemia o un conflitto internazionale agiscono da veri e propri “stress test” per il sistema. Queste tensioni, se non affrontate con lucidità e visione strategica, possono segnare l’anticamera della sesta e ultima fase del ciclo, quella in cui si vive il collasso dell’ordine interno a causa di rivoluzioni o guerre civili. Il quinto stadio del ciclo si caratterizza per la presenza del “Classic Toxic Mix”, ovvero una pericolosa convergenza di tre principali driver capaci di determinare il declino degli Stati:

  1. Elevato indebitamento con conseguenti gravi squilibri finanziari
  2. Forti tensioni interne a livello politico, sociale e culturale
  3. Crescente instabilità geopolitica

Il primo fattore riguarda il debito e la politica monetaria di ogni Paese, nei casi in cui un eccessivo ricorso all’indebitamento ne minacci la stabilità economica: proprio nel primo trimestre di quest’anno il debito governativo globale è schizzato al suo valore più alto di sempre, raggiungendo i USD 324 trilioni. Emblematica in questo senso è la situazione degli Stati Uniti, dove il debito pubblico ha superato USD 36 trilioni (o 36 mila miliardi), con un incremento di 5.000 miliardi soltanto negli ultimi due anni, con gli interessi sul debito che hanno superato le spese per la difesa e la sanità. Cifre di questa entità, difficili anche solo da pronunciare, sono un chiaro segnale metaforico che riflette le preoccupazioni di Dalio riguardo all’insostenibilità fiscale e dei costi di servizio del debito: tutte condizioni che rendono una crisi sistemica uno scenario plausibile.

Come se non bastasse, e nel pieno rispetto del solco già tracciato da Dalio, i governi persistono nelle loro politiche di espansione fiscale senza adeguate coperture, come testimoniato dal One Big Beautiful Bill Act. Come visto nella sideview What is Money, qualora la misura tanto voluta dalla nuova Amministrazione americana venisse approvata anche dal Senato, l’Ufficio del Bilancio del Congresso stima un aggravio del debito pubblico pari a circa USD 3.000 miliardi nei prossimi dieci anni. Questa proiezione ha sollevato non solo un’ondata di critiche da parte della maggior parte delle testate finanziarie, ma ha addirittura finito per travolgere del tutto le ambizioni di snellimento e digitalizzazione della macchina burocratica promosse dal Dipartimento per l’Organizzazione Governativa Efficiente (DOGE) guidato da Elon Musk. E proprio lo stesso fondatore di SpaceX si è espresso indicando come unica possibile modalità di risoluzione della faccenda, l’aumento della crescita del PIL.

Questo pensiero è riflesso fedelmente nel “ciclo interno” di partenza, in cui Dalio sottolinea la necessità di aumentare la produttività per rendere efficace il ricorso al debito. Come testimoniato dai grandi programmi educativi e infrastrutturali che diedero nuovo slancio, ad esempio, all’Impero Moghul in India o alla crescita di capitale intellettuale nella Cina degli ultimi decenni, in contesti di così difficile risoluzione gli investimenti in istruzione e ricerca diventano essenziali per disinnescare il “Classic Toxic Mix”. Questo monito non sembra essere stato accolto dall’amministrazione Trump: facendo leva su disallineamenti principalmente politici e ideologici, Harvard si è vista revocare la certificazione per l’iscrizione di circa 6.800 studenti internazionali mentre sono stati congelati USD 400 milioni di finanziamenti statali destinati alla Columbia University[2]. In linea con le preoccupazioni di Dalio, attacchi così netti alla libertà accademica rischiano di compromettere ulteriormente la competitività a lungo termine degli Stati Uniti, e fanno vacillare l’attrattiva globale delle loro università, con numerosi studiosi e ricercatori costretti a trasferirsi in altri paesi per continuare gli studi.

Tornando al ciclo descritto da Dalio, il secondo fattore del “Classic Toxic Mix” è costituito dai conflitti politici interni, spesso originati da disuguaglianze economiche e sociali, e si intensificano in ambienti contraddistinti da una forte polarizzazione tra “quelli di destra” e “quelli di sinistra”. Un contesto simile è florido per i movimenti populisti, i più abili a far leva sul malcontento della popolazione che percepisce una crescente distanza dalle “élite dell’establishment”. Proiettandoci nuovamente nell’attualità, va sempre più delineandosi un quadro in cui i movimenti populisti si radicano come risposta politica strutturale alle fragilità percepite delle democrazie liberali. Le proteste nelle strade di Los Angeles rappresentano l’episodio più recente di questa dinamica, ma anche volgendo lo sguardo all’altra sponda dell’Atlantico, seppur con caratteristiche locali differenti, il “Trumpismo” negli USA trova oggi riscontro in formazioni come l’AfD (Alternative für Deutschland) in Germania, Vox in Spagna, i nazionalisti di Sweden Democrats in Svezia, fino ad arrivare al neo-eletto Karol Nawrocki alla presidenza della Polonia.

Parafrasando Dalio, il consolidarsi della polarizzazione è sovente seguito dal declino della fiducia nei media e nelle istituzioni. Il loro affievolirsi genera un’ondata di incertezza e confusione, in cui aumenta l’incapacità di distinguere il vero dal falso a causa delle distorsioni operate dalla propaganda delle varie appartenenze ideologiche. Se un tempo i regimi autoritari, sia di destra che di sinistra, istituivano veri e propri Ministeri della Propaganda per orientare l’opinione pubblica contro i cosiddetti “nemici dello Stato”, oggi assistiamo a dinamiche analoghe declinate in chiave contemporanea. Il Presidente degli Stati Uniti è arrivato a crearsi un proprio social network (“Truth Social”)  concepito esplicitamente in contrapposizione ai media mainstream, ritenuti faziosi e ostili dai suoi sostenitori, mentre figure come Elon Musk hanno deciso di acquistare direttamente piattaforme come Twitter, assumendo un ruolo pervasivo in bilico tra l’invocazione della libertà di espressione e il tentativo di regolamentare (o condizionare?) i flussi informativi e gli eventi che ne conseguono, nella società e nei mercati.

Come evidenziato nel grafico qui sotto di Pew Research[3], nel 2024 solo il 22% degli americani ha dichiarato di fidarsi delle istituzioni federali di Washington, confermando uno scenario nettamente diverso e peggiore rispetto al 1958, l’anno in cui il National Election Study iniziò a rilevare il livello di fiducia nel governo. Il calo di consenso istituzionale prese avvio durante l’escalation della guerra del Vietnam, per poi acuirsi negli anni ’70 con lo scandalo Watergate, fino ad arrivare al 2007, anno oltre il quale la quota di cittadini che afferma di poter confidare nel governo non ha mai superato il 30%.

Infine, il terzo e ultimo driver della pericolosa convergenza individuata da Dalio riguarda le tensioni geopolitiche, che tendono ad acuirsi proprio nelle fasi finali del ciclo, quando gli squilibri economici e sociali si fanno più pronunciati. In questo scenario, la competizione strategica tra potenze – che sia per risorse, tecnologia o influenza globale – diventa un riflesso delle fragilità interne. La storia insegna che nei momenti di maggiore debolezza economica, i governi spesso scelgono la via del conflitto esterno come risposta, nel tentativo di ricompattare il fronte interno, spostare l’attenzione dell’opinione pubblica e giustificare misure straordinarie. È in questo contesto che Dalio colloca l’aumento delle probabilità di guerra: come epilogo disordinato e altamente distruttivo di un lungo processo di deterioramento economico e sociale. Una dinamica che, purtroppo, sembra oggi avere più di un’eco nella realtà che ci circonda e che avremo modo di approfondire nei prossimi scritti.

Approfondimento a cura di Nicola Lampis e Pietro D’Agaro

Lugano, 22 giugno 2025


[1] https://www.youtube.com/watch?v=upWWwtGMo88

[2] https://www.nytimes.com/2025/03/07/nyregion/trump-administration-columbia-grants-cancelled-antisemitism.html

[3] https://www.pewresearch.org/politics/2024/06/24/public-trust-in-government-1958-2024/

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