(foto: Adamo 2050 – Una storia vera dal futuro, cortometraggio Plasmon,2023)
«I parchi giochi nei nostri giardini sono stati smantellati. Nei primi dodici anni dopo Omega, le altalene erano state fissate, gli scivoli e le strutture lasciati senza vernice. Ora sono spariti del tutto, e gli asfalti dei parchi giochi sono stati ricoperti d’erba o seminati di fiori come piccoli cimiteri di massa»
(P.D. James, I figli degli uomini)
La nuova National Security Strategy degli Stati Uniti, firmata dall’amministrazione Trump, descrive l’Europa come un continente in declino e avverte le nazioni europee del rischio concreto di una “cancellazione di civiltà” entro una generazione a causa del combinato disposto di politiche migratorie, che stanno trasformando il continente e creando conflitti, censura della libertà di parola e soppressione dell’opposizione politica, crollo dei tassi di natalità e perdita di identità nazionale e di fiducia in se stessi. Per Washington, il problema non è solo la capacità economica, ma la trasformazione demografica e culturale: si paventa che, se le tendenze attuali proseguiranno, “il continente sarà irriconoscibile in vent’anni o meno” e che alcuni membri della NATO potrebbero diventare a maggioranza non europea, con tutte le incognite che questo comporta sulla tenuta dell’alleanza.
In questo quadro, la denatalità europea smette di essere un dossier interno e diventa un fattore di sicurezza per gli Stati Uniti, che leggono tale crisi demografica come sintomo di una possibile uscita di scena del Vecchio Continente[1].
Con lo scritto di oggi, dunque, cerchiamo di fare il punto su una crisi che ha assunto dimensioni epocali: la crisi demografica non è più tema per specialisti ma è, ormai, la linea d’ombra che ridisegna identità e destino del continente. In particolare, l’Italia, per intensità e precocità, è un vero “laboratorio” per il mondo occidentale.
Come vedremo in seguito, in un contesto di fallimento delle politiche di incentivo alla natalità, la domanda non è più “come rilanciare la natalità” ma come reagire a una società che ha smesso di investire nel futuro.
Il caso italiano
“L’Italia sta morendo”. Con questo tweet, il 12 novembre, Elon Musk commentava un post di Doge Designer che affermava: “il tasso di natalità in Italia è sceso al minimo storico di 1,13 figli per donna, con solo 370.000 bambini nati l’anno scorso, il numero più basso dal 1861”, cifre relative al 2024. Un tasso di fertilità pari a 1,13, infatti, è l’equivalente biologico di un encefalogramma piatto: il tasso di sostituzione, cioè il numero medio di figli per donna necessario affinché ogni generazione rimpiazzi la precedente in condizioni di stabilità, è di 2,1 figli per donna. Ciò che quasi nessuno dice è che da questo non si torna indietro.
Denatalità e invecchiamento
L’Italia ha registrato nel 2025 una delle età medie più elevate al mondo: 46,8 anni. Gli over 65 superano già il 24% della popolazione.

L’intera dinamica è figlia di settant’anni di altalene strutturali: dal baby boom degli anni Sessanta (con 886.000 nati nel 1974), alla successiva caduta a 526.000 negli anni Novanta, fino agli attuali minimi storici. Sono definite “strutturali” perché hanno modificato stabilmente la composizione per età della popolazione. Il calo delle nascite, infatti, oltre a dipendere dalla bassa propensione ad avere figli è causato dalla riduzione nel numero dei potenziali genitori, appartenenti alle sempre più esigue generazioni nate a partire dalla metà degli anni Settanta, quando la fecondità cominciò a diminuire, scendendo da oltre 2 figli in media per donna al valore di 1,19 del 1995.
Il termine Baby Boom indica il forte aumento delle nascite registrato tra la metà degli anni ’40 e la metà degli anni ’60, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Il fenomeno fu dovuto sia all’aumento della fertilità tra le donne più giovani sia al fatto che molte donne più mature decisero in quel periodo di avere figli. Tuttavia, col passare del tempo, i tassi di natalità delle giovani generazioni tornarono a diminuire, segnando la fine del boom.Secondo il senso comune, il Baby Boom rappresentò una reazione al calo della natalità avvenuto durante la Grande Depressione degli anni ’30 e la guerra.
I fattori che hanno contribuito alla contrazione della natalità sono molteplici: l’allungarsi dei tempi di formazione, le condizioni di precarietà del lavoro giovanile e la difficoltà di accedere al mercato delle abitazioni, che porta a posticipare l’uscita dal nucleo familiare di origine, a cui si può affiancare la scelta di rinunciare alla genitorialità o di posticiparla[2].
Il modello italiano si distingue per una convergenza di bassi tassi di natalità, invecchiamento accelerato e assenza di politiche demografiche integrate e convincenti. Né i bonus né i contributi economici bastano: nella società avanzata, le priorità sono cambiate, la famiglia si è ridotta, il futuro è percepito come incerto e i giovani non sentono il sacrificio per il domani come obiettivo collettivo.
Il fallimento delle politiche nataliste
L’esempio lampante di quanto l’aumento dei sostegni economici non comporti direttamente l’aumento delle nascite si è avuto in Ungheria. Il governo conservatore di Viktor Orban, infatti, ha realizzato un piano pro-natalità tra i più generosi al mondo. La spesa totale per i sussidi familiari supera il 5% del PIL, ovvero più del doppio di quanto l’Ungheria spende per la difesa e la sicurezza. Il Paese si è così classificato tra quelli che hanno maggiormente investito in questo progetto. Questi aiuti includono agevolazioni fiscali che aumentano con il numero di figli (le madri di quattro o più figli non pagano l’imposta sul reddito delle persone fisiche) e altre indennità su case e vetture.
Eppure, non è riuscito ad incentivare le nascite nel Paese: il tasso di fertilità è salito dal minimo di 1,23 figli per donna nel 2011 a 1,59 nel 2020, per poi stabilizzarsi attorno a 1,5 e scendere a 1,36 nella prima metà del 2024, con nascite mensili ai minimi da decenni[3].
Immigrazione come soluzione?
La nuova NSS americana, che dedica ampio spazio al tema delle migrazioni di massa verso l’Europa, sottolinea questo punto: un continente che tenta di compensare la denatalità solo con flussi migratori incontrollati rischia di diventare “irriconoscibile” e instabile, alimentando fratture interne e sfiducia tra partner transatlantici.
Ciò che in Europa viene presentato come “gestione del fabbisogno di manodopera” viene letto a Washington come un potenziale detonatore di crisi sociali e politiche di lungo periodo[4].
In teoria, secondo la prospettiva di chi vede una soluzione nell’aumento dei flussi migratori, milioni di giovani stranieri dovrebbero ringiovanire il corpo sociale. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni esperti sono arrivati a considerarla come unica, realistica soluzione (200/250.000 migranti radicati ogni anno) nel tentativo di ripristinare un equilibrio demografico interno soddisfacente.

Tuttavia, questa “soluzione” si scontra con problemi concreti: reazioni xenofobe, conflitti etnico-culturali, difficoltà dei processi di integrazione e il fatto che una quota significativa dei migranti non vuole stabilirsi definitivamente in Italia, preferendo fuggire verso il più ricco e promettente Nord Europa.
Non solo, i dati indicano che la popolazione straniera non svolge la sua funzione di “ammortizzatore demografico” perché, pur crescendo numericamente, mostra segnali di convergenza verso le tendenze italiane alla bassa natalità. Se le nascite da cittadini italiani diminuiscono da 357.166 a 320.026 (-10,4%), quelle da cittadini stranieri scendono da 62.918 a 49.896 (-20,7%). Ne consegue che l’incidenza delle nascite da madre straniera sul totale dal 15,0% al 13,5%.
Oltre ai fattori economici e sociali (precarietà abitativa, instabilità lavorativa, incertezza giuridica), la riduzione della natalità nella componente straniera va attribuita anche alla progressiva trasformazione della sua composizione etnica: diminuiscono le presenze nordafricane e dell’Africa occidentale, tradizionalmente associate a più elevati tassi di fecondità, mentre aumenta la componente proveniente dall’Est Europa (Romania, Ucraina, Albania), che presenta tassi di natalità più bassi, spesso in linea o inferiori alla media italiana. A ciò, si aggiungono l’aumento dell’età media dei migranti e, come già detto, la convergenza verso i comportamenti riproduttivi italiani[5].
Le cause sono profonde
La denatalità, come sottolinea Alessandro Leonardi, è un “barometro dell’anima nazionale” e denuncia un malessere che va ben oltre il dato numerico. “Senza bambini, la Nazione rinuncia alla progettualità, alla speranza, al coraggio di pensarsi come arco di civiltà”, scrive Leonardi in L’Italia e il suo futuro.

Il declino della natalità appare, quindi, come una crisi di significato collettivo, non colmabile da mere politiche tecniche o incentivi di breve periodo. Paradossalmente, un maggiore benessere materiale non si traduce più in fiducia generativa, fatto che scuote le fondamenta del modello di sviluppo occidentale[6].
La denatalità che oggi attraversa l’Italia e, più in generale, l’Occidente viene spesso ricondotta a salari bassi, carenza di welfare, difficoltà abitative. È necessario però spostare lo sguardo più in profondità e guardarla come il sintomo di una crisi antropologica e culturale: qualcosa si è incrinato nel modo in cui le società occidentali pensano sé stesse e il proprio futuro.
In questo contesto si innesta la riflessione proposta da Matteo Carnieletto, giovane giornalista e autore del libro Ultima degenerazione, il quale si chiede se quella che viene chiamata “ultima generazione” non sia in realtà un’“ultima de-generazione”: una generazione educata a consumare più che a generare, a vivere nel presente continuo più che a progettare un domani. L’uomo viene descritto come “consumatore ideale”, immerso in un mondo dove tutto (identità, relazioni, perfino il tempo) è modificabile e sostituibile.
Boni Castellane nella prefazione osserva: «il materialismo instaurato non potrà che reclamare i suoi crediti e lo farà rivolgendosi ad una generazione de-generata, cioè, corrotta nello spirito. Ma si tratta di una corruzione senza colpa, si tratta di una degenerazione provocata dalla forza di gravità, un tirare giù, un tirare verso il basso le persone come fossero le cose che desiderano diventare; la danza folle imposta agli ignari. Avviato questo processo di reificazione dell’uomo non sarà altro che un cadere spaesato, un accettare ogni imposizione, un credere ad ogni narrazione». In un contesto simile, avere figli appare quasi un atto controcorrente: richiede investimento, durata, responsabilità, cioè esattamente ciò che la cultura dominante tende a scoraggiare[7].

L’inverno demografico diventa, così, il risvolto collettivo di biografie individuali impostate sulla logica del “non legarsi troppo”. Questo è il risultato di un processo di trasformazione decisivo nella cultura occidentale in cui il desiderio individuale è stato elevato a diritto soggettivo.
In questa chiave, lo psicologo Claudio Risè osserva che ogni desiderio tende a rivendicare un immediato riconoscimento giuridico e che i legami lunghi, esigenti, non pienamente controllabili come il matrimonio, la famiglia, la genitorialità diventano sospetti, devono essere sempre revocabili.
Sicché, quando la famiglia è fragile, revocabile in ogni momento, priva di riconoscimento simbolico forte, diventa poco plausibile affidarle il compito di mettere al mondo e crescere nuove vite: viene meno è il “luogo” in cui il desiderio di figli possa nascere, maturare, sentirsi sostenuto.
In questa cornice, il figlio finisce per essere pensato come un oggetto: qualcosa che si “vuole” o non si vuole, che si “ottiene” o si rifiuta, che si “programma” secondo i tempi dell’adulto.
Una volta ridotto così, però, “il fare figli” perde la sua carica simbolica di apertura al futuro e diventa una scelta tra le altre, facilmente rinviabile o scartabile.
Risé legge lo stesso fenomeno a livello psichico: il desiderio profondo di legami duraturi e di generare figli viene silenziato e sostituito da desideri compatibili con il mercato: il viaggio e la mobilità illimitata, l’autorealizzazione narcisistica, il consumo di esperienze, che il diritto finisce per ratificare. L’esito è una società piena di desideri immediati, ma povera di desideri lunghi, di desideri che chiedono tempo, fedeltà, continuità.
La denatalità, dunque, non è soltanto l’effetto di variabili economiche sfavorevoli, ma il risultato di un paradigma culturale che scoraggia ogni investimento di lungo periodo, disarticola i legami, trasforma i figli in opzione e il futuro in problema[8].
Le generazioni davanti al caos
Il monito lanciato dal NSS americano, “resistere al declino”, significa, in questa cornice, ricostruire una forte identità e riaffermare radici culturali e nazionali.
Ne discende la necessità di ricostruire comunità reali (territoriali, associative, familiari); recuperare memoria storica e radici culturali, perché si decide di avere figli solo se si sente di appartenere a qualcosa che merita di essere continuato; restituire credibilità all’impegno politico e civico, affinché la generazione “senza futuro” possa tornare a percepire il domani come campo d’azione, non come condanna.

Tuttavia, non si tratta più di tornare indietro o rallentare il cambiamento, ma di adattarsi alla fine del ciclo storico, attraversare la transizione, sviluppare una nuova visione di società con la costruzione di future nicchie collettive, di pensiero complesso, di nuove élite reattive[9].
Chi sarà chiamato ad affrontare questo processo? Facendo sintesi dal già citato saggio di Alessandro Leonardi possiamo schematizzare come di seguito.
Millennial
La generazione chiamata a gestire la gran parte della transizione è quella dei millennial (e la coda della generazione X), destinata a occuparsi del declino nei prossimi decenni. Da una parte vi sono individui “reattivi”, visionari e creativi capaci di pensiero complesso; dall’altra la massa dei “semicolti”, segnati da isolamento, routine alienante, mancanza di prospettive e decadimento delle capacità critiche e mentali. La crisi delle reti familiari e della socialità amplifica l’isolamento, mostra lo sfaldarsi del tessuto comunitario e costringe a cercare nuove strategie di sopravvivenza mentale e sociale.
Generazione Z
La generazione Z affronta la fase più pericolosa: minoranza numerica, nativa digitale, plasmata dalla pandemia globale, dall’instabilità economica e da un incessante confronto digitale, si trova ad affrontare sfide senza precedenti per la salute mentale: molti lottano contro ansia, depressione e solitudine[10]. Mancando forti ancoraggi collettivi, rischia di dividersi tra chi subirà la deriva e chi proverà a reinterpretare valori, ricreare legami, vivere nuovamente una dimensione spirituale.

Questa spaccatura generazionale coincide con quella geopolitica: una parte delle giovani generazioni europee interiorizza la narrazione del declino e dell’irrilevanza, mentre un’altra prova a costruire spazi di resilienza e progettualità, esattamente il tipo di élite “reattive” di cui parlano sia gli analisti europei, sia i documenti strategici americani quando evocano la necessità di una “ri-fondazione” del progetto occidentale.
Alpha: tra sopravvissuti e costruttori
Gli alpha, la generazione dei bambini e adolescenti attuali, dovranno probabilmente andare oltre il caos, “sacrificarsi” per creare nuove strutture. Cresciuta in ambienti interamente digitali, sottoposta a pressioni sociali senza precedenti e in un contesto di forte invecchiamento collettivo, questa generazione sarà costretta dalla crisi ad assumere la funzione di “costruttore”. Una parte rischia di restare “voce fantasma” del nuovo secolo, un’altra sarà toccata dal compito di ricostruire e governare, sulle macerie, una società radicalmente nuova.
Per molti osservatori esterni, inclusi gli estensori della nuova strategia statunitense, il vero punto interrogativo è se queste generazioni sapranno ancora riconoscersi in un’identità europea e occidentale sufficientemente forte da reggere la competizione con altre potenze demograficamente più dinamiche, o se assisteremo a una lenta “cancellazione di civiltà” per svuotamento interno prima ancora che per pressione esterna.
Generazione Beta
Vivrà in un’era in cui l’intelligenza artificiale e l’automazione saranno pienamente integrate nella vita quotidiana, dall’istruzione al lavoro, dalla sanità all’intrattenimento. Saranno probabilmente la prima generazione a sperimentare il trasporto autonomo su larga scala, le tecnologie sanitarie indossabili e gli ambienti virtuali immersivi come aspetti standard della vita quotidiana. Gli algoritmi di intelligenza artificiale adatteranno il loro apprendimento, lo shopping e le interazioni sociali in modi che oggi riusciamo solo a intravedere[11].
Con l’accelerazione di automazione e AI, i Paesi più ricchi faranno a gara per attirare talenti e trattenere i propri. Questa è la prima sfida a cui siamo chiamati a rispondere già da oggi.
Chiudiamo con il romanzo di P.D. James, I figli degli uomini, considerato un testo di riferimento della “childless dystopia”, secondo il canone distopico, tratta il problema reale della denatalità nelle società sviluppate. Il romanzo è ambientato in un’Inghilterra del 2027 in cui l’umanità è diventata improvvisamente sterile: da venticinque anni non nascono più bambini e il mondo vive nell’attesa rassegnata dell’estinzione. James costruisce un’Inghilterra cupa e apatica, governata da un autocrate che mantiene l’ordine in una società invecchiata, priva di bambini e di speranza; suicidio assistito, culto ossessivo degli ultimi nati e ricerca di surrogati affettivi (come gli animali trattati come figli) che sembra essere quasi una satira dei nostri tempi.

Approfondimento a cura di Gilberto Moretti
Lugano, 14 dicembre 2025
[1] Cfr. Naughtie, A., Trump administration warns Europe of ‘civilisational decline’ in new national security strategy, in Euro News, 05.12.2025.
[2] Cfr. Rossetti, M., ISTAT: l’Italia si conferma uno dei Paesi più anziani al mondo, in Assinews.it, 23.05.2025; Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente – anno 2024, in istat.it, 21.10.2025; Crespi, F., Dal Baby Boom al Baby Bust, in contemplata.it, 10.01.20219.
[3] Cfr. A.a.V.v., Perché i sussidi alle famiglie non incentivano la natalità?, in demografica-adnkronos.com, 19.08.2024.
[4] Cfr. Smith, P., De Luce, D., Europe will be ‘unrecognizable’ in 20 years due to immigration, White House strategy document claims, in NBC News, 05.12.2025.
[5] Cfr. Campanelli, E., Un Paese che perde: l’Italia tra denatalità, emigrazione e immigrazione, in CRESME, newsletter n. 189, 07.04.2025.
[6] Cfr. Leonardi, A., L’Italia e il suo futuro, ed. Diarkos, 2025.
[7] Cfr. Carnieletto, M., Ultima degenerazione. Appunti su una società perduta, ed. SignsBooks, 2023.
[8] Cfr. Risé, C., Il Diritto e il Desiderio. Ritrovare sé stessi attraverso i conflitti familiari, ed. Ares, 2021.
[9] Cfr. Fagan, P., Benvenuti nell’era complessa. Mappe e strumenti del pensiero per esplorare il mondo nuovo in formazione, ed. Diarkos, 2025.
[10] Cfr. Aa.Vv., State of Gen Z Mental Health, in Harmony Healthcare IT, 15.06.2025.
[11] Cfr. Shafiq, N., Generation Beta starts in 2025: 5 things to know, in abc News, 02.01.2025.