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Wild Wild Rest

(foto: C’era una volta il West, film 1968)

«Erano dei conquistatori e per questo non ci vuole che la forza bruta, niente di cui essere fieri quando la si ha, perché questa forza non è che un accidente che deriva dalla debolezza altrui.» (Cuore di tenebra, Joseph Conrad)

In un discorso agli studenti dell’ottobre 2022, il capo degli affari esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, aveva paragonato l’Europa a un giardino, definendola come “la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità sia stata in grado di costruire“. Quindi, aveva messo a confronto l’Europa con il resto del mondo, dicendo che: La maggior parte del mondo è una giungla e la giungla potrebbe invadere il giardino.Queste uscite avevano scatenato una serie di proteste, in particolare da parte di funzionari ed esperti del Sud del mondo che avevano accusato Borrell di razzismo e arroganza “neocolonialista”.

In seguito, Borrell si è scusato spiegando che i suoi commenti non intendevano avere connotazioni razziali, culturali o geografiche ma semplicemente erano volti ad evidenziare le differenze tra un ordine internazionale basato su principi accettati da tutti e un ordine internazionale basato sulla volontà del più forte ovvero “la legge della giungla”.

https://twitter.com/Mohamad_Forough/status/1581248118061903874

Da qui, e grazie a una serie di eventi accaduti nelle ultime settimane, riprendiamo l’analisi sulla fine del momento unipolare del West a guida statunitense e la tendenza centrifuga verso la nuova multipolarità complessa che ha tra i propri protagonisti, oltre all’intesa sino-russa coi suoi satelliti, buona parte degli Stati del Sud globale, ufficiosamente guidati dalla potenza ascendente dell’India: il Rest[1].

L’occidentalizzazione del pianeta, accezione ideologica per globalizzazione, è chiaramente fallita. Gli occidentali (circa il 14% del mondo), infatti, non possono pensare di gestire otto miliardi di esseri umani con istituzioni oramai obsolete, forgiate nei secoli precedenti in condizioni diverse, quando gli imperi europei si spartivano un mondo con una popolazione di circa tre miliardi. Dal 1950 ad oggi, gli esseri umani sul pianeta si sono triplicati, così il numero di Stati e sono saliti a migliaia gli attori informali non statuali. Il risultato inedito è la necessità di gestire e governare la convivenza tra così tante parti concorrenti in uno spazio unificato.

Già nel 1987, lo storico britannico Paul Kennedy in Ascesa e declino delle grandi potenze anticipava: Il compito che dovranno affrontare gli statisti americani nei prossimi decenni, quindi, è riconoscere che sono in atto tendenze generali e che è necessario «gestire» gli affari in modo che la relativa erosione della posizione degli Stati Uniti avvenga lentamente e senza intoppi”[2].

Quindi, le tante crisi che stiamo vivendo sono esattamente i segnali di questa complessificazione del sistema che ci impone di cambiare modalità del vivere associato, sistema di pensiero e immagine di mondo. Tale medesima necessità è evidenziata dal numero sempre maggiore di voci fuori dal coro che non seguono lo spartito che l’Occidente vorrebbe imporre loro con la richiesta di adesione alle sanzioni nei confronti di Mosca e, con ogni probabilità, in futuro nei confronti della Cina se ritenuta colpevole di supporto militare alla Russia[3].

Uno studio, prodotto nell’ottobre 2022 dall’Università di Cambridge, circa otto mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ha messo assieme i sondaggi condotti in 137 paesi sul loro atteggiamento nei confronti dell’Occidente, della Russia e della Cina. I risultati dello studio ci dicono che per i 6,3 miliardi di persone che vivono al di fuori dell’Occidente, il 66% ha un sentimento positivo nei confronti della Russia e il 70% nei confronti della Cina. Nel 66% che si sente positivamente nei confronti della Russia, la ripartizione è del 75% nell’Asia meridionale, del 68% nell’Africa francofona e del 62% nel sud-est asiatico. L’opinione pubblica sulla Russia rimane positiva in Arabia Saudita, Malesia, India, Pakistan e Vietnam[4].

Da cosa dipendono questi risultati?

In primo luogo, il progetto di ordinare il mondo in un sistema internazionale basato sulla democrazia, lo stato di diritto e la cooperazione multilaterale, il cosiddetto Rule-based order (RBO), appare oggi del tutto irrealistico. La maggior parte del mondo, infatti, ritiene che il RBO sia un concetto vago, come dimostrerebbero le invasioni statunitensi e le campagne di bombardamento contro l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia e la Siria, percepite come arbitrarie[5].

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, si sono svolti una serie di importanti appuntamenti a livello internazionale che ci danno conto di questa tendenza: la riunione dell’Assemblea generale dell’Onu il 23 febbraio, il vertice dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali dei G20 a Bangalore in India il 24 e 25 febbraio nonché l’incontro dei ministri degli Esteri del G20 a Nuova Delhi l’1 e il 2 marzo.

Il testo dell’Assemblea generale dell’Onu è stato approvato con 141 voti a favore, gli stessi del 2 marzo 2022, ed ha avuto 7 voti contrari (Russia, Bielorussia, Siria, Nord Corea, Eritrea, Mali, Nicaragua). L’unico membro del blocco BRICS a votare a favore della risoluzione è stato il Brasile. Tra gli astenuti, invece, troviamo Cuba, Pakistan, Angola, Namibia, Etiopia, Algeria, Sudafrica, Zimbabwe, Iran, Armenia, Kazakistan e Uzbekistan.

Il 23 febbraio, vigilia dell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, all’Assemblea generale dell’Onu, Cina, India e altri 30 Paesi si sono astenuti nel voto della risoluzione che ribadisce l’impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’unità e integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti e che invita la Russia a ritirarsi “incondizionatamente e immediatamente” dall’Ucraina per una pace “complessiva, giusta e duratura” nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite.

Quando gli è stato chiesto perché la Namibia si è astenuta alle Nazioni Unite sul voto sulla guerra, Kuugongelwa-Amadhila ha detto: “Il nostro obiettivo è risolvere il problema… non trasferire la colpa”[6].

https://twitter.com/i/status/1628379083104202754

Nei giorni seguenti, al vertice di Bangalore, il Segretario al Tesoro americano Janet Yellen ha chiesto agli aderenti al G20 di condannare la Russia per la sua invasione dell’Ucraina e di aderire alle sanzioni statunitensi contro la Russia. Tuttavia, è diventato chiaro che l’India, presidente di turno, non era disposta a conformarsi all’agenda degli Stati Uniti. I funzionari indiani hanno affermato che il G20 non è un incontro politico, ma un incontro per discutere questioni economiche. Hanno contestato l’uso della parola “guerra” per descrivere l’invasione, preferendo descriverla come una “crisi” e una “sfida”. Sicché, come accadde in Indonesia durante il vertice dello scorso anno, i leader del G20 del 2023 hanno ancora una volta ignorato le pressioni dell’Occidente, con i grandi paesi in via di sviluppo (Brasile, India, Indonesia, Messico e Sud Africa) poco disposti a cambiare le loro pratiche visto che l’isolamento della Russia sta mettendo in pericolo il mondo.

A sua volta, Credit Suisse così descrive queste “fratture”: “L’Occidente globale (paesi occidentali sviluppati e alleati) si è allontanato dall’Est globale (Cina, Russia e alleati) in termini di interessi strategici fondamentali, mentre il Sud del mondo resiste alle pressioni per schierarsi col Golden Billion contro la Russia e si sta riorganizzando attorno a uno o più nuovi centri di attrazione economico-politica per perseguire i propri interessi[7].

Golden Billion
È un termine ormai diffuso, nato in ambiente russo, che si riferisce alle elité delle nazioni industrialmente sviluppate dell’Occidente.
Con questa espressione si tende ad accusare queste elité di aver accumulato ricchezza sfruttando il resto del mondo e di cercare di perpetuare il loro controllo totale sulle limitate risorse del pianeta.

Altre non meno importanti motivazioni vanno poi individuate nelle numerose sfide che i Paesi in via di sviluppo sentono di dover affrontare senza alcun sostegno da parte dell’Occidente, indipendentemente dal fatto che riguardino le conseguenze della pandemia, l’alto costo del servizio del debito, la crisi climatica che sta devastando le loro vite, il dolore della povertà, la scarsità di cibo, la siccità e la crisi energetica. Anche il passato coloniale dell’Europa è un fattore: molti paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia vedono le ex potenze coloniali raggruppate nell’alleanza che ha sanzionato la Russia. Il 18 febbraio 2023, al vertice dell’Unione africana, il ministro degli Esteri dell’Uganda, Jeje Odongo, ha dichiarato all’agenzia RIA Novosti: Siamo stati colonizzati e abbiamo perdonato coloro che ci hanno colonizzato. Ora i colonizzatori ci chiedono di essere nemici della Russia, che non ci ha mai colonizzato. È giusto? Non per noi. I loro nemici sono i loro nemici. I nostri amici sono nostri amici[8].

Infine, quando si tratta di finanziamenti, cibo, energia e infrastrutture, il Sud del mondo si trova ad essere sempre meno supportato dall’Occidente; sta anche assistendo all’espansione dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), a più paesi che vogliono aderire ai BRICS e a molti paesi che ora commerciano in valute diverse dal dollaro o dall’euro. Vedono anche una deindustrializzazione in atto in alcuni paesi europei a causa dei maggiori costi energetici, insieme a una maggiore inflazione. Ciò rende abbastanza evidente una vulnerabilità economica dell’Occidente. Con i paesi in via di sviluppo che hanno l’obbligo di mettere al primo posto gli interessi dei propri cittadini, non c’è quindi da meravigliarsi che vedano il loro futuro legato maggiormente ad altri centri di potere politico ed economico.

Shanghai Cooperation Organization
La SCO è un’organizzazione intergovernativa fondata a Shanghai il 15 giugno 2001 e comprende attualmente otto Stati membri (Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan), quattro Stati osservatori interessati ad aderire alla piena adesione (Afghanistan, Bielorussia, Iran e Mongolia) e sei “Partner del dialogo” (Armenia, Azerbaigian, Cambogia, Nepal, Sri Lanka e Turchia). Nel 2021 è stata presa la decisione di avviare il processo di adesione dell’Iran alla SCO come membro a pieno titolo e l’Egitto, il Qatar e l’Arabia Saudita sono diventati partner del dialogo.

La “giungla” cresce

Un altro evento che ha suscitato lo stupore dei commentatori occidentali è stato l’annuncio del 10 marzo che l’Arabia Saudita e l’Iran ripristineranno le relazioni diplomatiche, risultato ottenuto dopo almeno tre anni di trattative grazie soprattutto alla mediazione della Cina, ma anche all’interessamento di Oman e Iraq e con il parallelo avvicinamento dell’Arabia Saudita al Qatar, quest’ultimo in buoni rapporti con Teheran.

Quasi certamente, antefatto di questo importante risultato è stata l’adesione dell’Iran alla SCO con il via libera dato nel settembre 2021. I membri della SCO, soprattutto Cina e Russia, hanno così segnalato l’intenzione di rafforzare il loro impegno con l’Iran anche contro la volontà degli USA. Altri tre paesi, Egitto, Arabia Saudita e Qatar, sono diventati partner di dialogo dell’organizzazione, gettando così le basi per uno scambio più stretto.

La politica cinese è caratterizzata in modo decisivo dal confronto sino-americano nell’Indo-Pacifico e dalla conseguente necessità di rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza, complice l’abbandono del teatro mediorientale da parte degli USA. Non solo, l’interesse della Cina per la stabilità regionale deriva dalla necessità di tutelare anche e soprattutto i suoi interessi chiave nell’area[9], in particolare:

  • garantire l’approvvigionamento energetico: dal Medio Oriente arriva la metà del greggio importato dalla Cina;
  • garantire i progetti legati alla BRI: dalla sua istituzione nel 2013, Pechino ha stanziato almeno 123 mld di dollari per finanziare tali progetti;
  • garantire gli investimenti relativi alle nuove industrie tecnologiche legate alla cosiddetta Digital Silk Road.

Sebbene l’Iran sia da tempo all’interno dell’asse russo-indo-cinese che, pur con le dovute differenze interne, concorda sull’idea di un futuro di scambi e rispetto delle reciproche sovranità, non è chiaro quali incentivi la Cina abbia dato all’Iran per firmare l’accordo con i sauditi. Quel che si può dire è che l’Iran dipende in modo schiacciante dalla Cina per i manufatti, comprese le armi e soprattutto la tecnologia missilistica. L’influenza di Pechino su Teheran è quindi enorme. Sebbene la Cina si opponga formalmente alle sanzioni occidentali contro l’Iran, il regime di sanzioni conferisce alla Cina un quasi monopolio sulle principali importazioni iraniane.

Il regime iraniano ha preso in considerazione anche la recente svolta della Turchia da uomo malato dell’economia regionale a star performer. Le esportazioni cinesi in Turchia sono triplicate dal 2019 e il finanziamento commerciale cinese ha aiutato il governo di Recap Tayyip Erdogan a superare una crisi valutaria che ha lasciato il paese sull’orlo dell’iperinflazione solo un anno fa.

Con il più grande esercito della regione, la Turchia rappresenta un contrappeso alle ambizioni regionali dell’Iran, e le sue relazioni recentemente ripristinate con Israele e gli Stati del Golfo indicano che potrebbe diventare una forza stabilizzatrice[10].

Come l’Arabia Saudita, Ankara si è riconciliata con paesi verso i quali era ostile in passato, come Israele e il Golfo. Ciò significa che in generale il Medio Oriente è ora un’arena di diplomazia e non di conflitto.

SINTESI DEI RAPPORTI IRAN – ARABIA SAUDITA
La Repubblica islamica dell’Iran è stata creata nell’aprile 1979, quando i religiosi sciiti hanno rovesciato il decennale dominio dinastico della dinastia Pahlavi. L’introduzione di una nuova repubblica teocratica è stata vista come una minaccia da Riyadh e dagli altri vicini regionali governati dai sunniti. Uno di quei vicini, l’Iraq, allora guidato da Saddam Hussein, attaccò l’Iran nel settembre 1980 e lanciò una guerra di otto anni. L’Arabia Saudita era pubblicamente neutrale nel conflitto ma ha fornito un significativo sostegno finanziario. 
I legami tra i due paesi crollarono nel luglio 1987 quando le forze di sicurezza saudite repressero violentemente una protesta anti-statunitense dei pellegrini iraniani nella città santa della Mecca durante il pellegrinaggio dell’Hajj. In risposta, i manifestanti hanno attaccato e occupato l’ambasciata saudita a Teheran e dato fuoco all’ambasciata del Kuwait. Il re Fahd dell’Arabia Saudita ha reciso i rapporti con l’Iran a causa dell’incidente dell’Hajj e della conseguente escalation nel 1988. Le relazioni tra i due paesi sono state ripristinate nel 1991, dando inizio a un periodo di riavvicinamento.  Ma i bei tempi non sono durati a lungo: l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003 ha rovesciato Saddam Hussein e portato al potere la maggioranza sciita del paese. Da allora l’Iran ha affermato una grande influenza sul suo vicino.

Un ruolo importante ha giocato anche la fine del conflitto in Siria che ha mostrato a tutti gli attori dell’area l’inutilità del conflitto stesso: dieci anni di guerra, quasi 600 mila morti, quasi 3 milioni di feriti, 12 milioni sfollati, enorme distruzione materiale, costi enormi e un risultato sul campo praticamente nullo. Tale esito ha probabilmente colpito più di tutti l’Arabia Saudita. Per quanto riguarda quest’ultima, il principe ereditario saudita e primo ministro, Mohammed Bin Salman (MBS), è sempre stato guidato dal desiderio di mettere gli interessi del suo paese al primo posto nel modo in cui sentiva che era il più efficace.

Il principe è stato una figura controversa sin dalla sua ascesa al potere all’inizio del 2015. MBS ha coltivato stretti legami dietro le quinte con Israele, il che ha contribuito alla percezione che fosse ossessionato dal contenimento dell’Iran.

Allo stesso tempo, però, i legami con gli Stati Uniti si sono notevolmente deteriorati dall’inizio dell’amministrazione Biden. I Democratici detestavano MBS per il suo presunto coinvolgimento nell’assassinio dell’editorialista del Washington Post, Jamal Khashoggi. Hanno quindi cercato di sfruttare le preoccupazioni per le conseguenze umanitarie della guerra yemenita per punirlo. Col senno di poi, questo ha solo accelerato il suo avvicinarsi all’Intesa sino-russa. Il rafforzamento completo delle relazioni dell’Arabia Saudita con queste due grandi potenze multipolari è diventata una priorità per MBS. Egli ha giustamente capito che gli investimenti cinesi sarebbero stati indispensabili per il suo vasto programma di riforme economiche noto come Vision 2030, mentre sarebbe stato necessario uno stretto coordinamento con la Russia per gestire il mercato petrolifero globale attraverso l’OPEC+. Nel loro insieme, i legami complementari del suo Regno con Cina e Russia hanno rafforzato il suo crescente ruolo globale.

Proprio come l’India, l’Arabia Saudita sta facendo del suo meglio per trovare un equilibrio tra l’Occidente guidato dagli Stati Uniti e l’Intesa sino-russa, cercando di mantenere un piede in ciascuno dei due blocchi ma non c’è dubbio che i suoi interessi duraturi siano garantiti più efficacemente nell’emergente ordine multipolare. Infine, questo riorientamento saudita sta facendo di colpo scomparire un fenomeno che pochi anni fa occupava il centro delle riflessioni sociologiche e politiche: il terrorismo versione ISIS ed al Qaida, che è stato un chiaro strumento geopolitico della vecchia strategia saudito-emiratina. Così oggi non è esagerato definire storico questo accordo.

Come romanzo conclusivo, il pensiero è andato a un classico d’avventura come Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in quanto tema centrale del romanzo è proprio il colonialismo europeo in Africa, dove il falso pretesto della civilizzazione mascherava in realtà missioni di autentico sfruttamento economico. Il romanzo nasce da un’esperienza personale dell’autore: nel 1890 egli realizzò il sogno di viaggiare in Congo e di risalire il fiume inviato da Leopoldo, re del Belgio. Conrad rimase molto colpito da questo viaggio e ne trasse ispirazione. Così, il protagonista Marlow, commerciante di avorio, durante la spedizione in Congo per conto di una compagnia belga, rimane stupito di fronte alla crudeltà dei colonizzatori.

Ironia vuole che Joseph Conrad sia lo pseudonimo di Józef Teodor Konrad Nałęcz Korzeniowski, nome che rivela le origini nell’aristocrazia polacca. Il nonno paterno, Józef Korzeniowski, aveva perso tutti i suoi averi dopo aver investito fino all’ultimo centesimo per allestire uno squadrone di cavalleria alla cui testa era partito per unirsi all’insurrezione contro i russi del 1830. Proprio in quella Polonia che oggi è fulcro della Nuova Europa voluta dagli USA a contenimento della Russia.

Approfondimento a cura di Gilberto Moretti

Lugano, 19/03/2023


[1] Cfr. Caracciolo, L., Come un ladro nella notte, in Limes n. 1/2023.

[2] Cfr. Kennedy, P., Ascesa e declino delle grandi potenze, ed. Garzanti, 7a ed., 1999.

[3] Cfr. Hunnicutt, T., Martina, M., Exclusive: US seeks allies’ backing for possible China sanctions over Ukraine war, in Reuters, 01.03.2023.

[4] Cfr. A.a.V.v., A World Divided, University of Cambridge, October 2022.

[5] Cfr. Metha, K., 5 reasons why much of global South isn’t automatically supporting the West in Ukraine – OpEd, in Eurasia Review, 24.02.2023.

[6] Cfr. Prashad, V., Global South resists pressure to side with West against Russia, in Asia Times, 25.02.2023.

[7] Cfr. A.a.V.v., A fundamental reset, Credit Suisse, Investment Outlook 2003.

[8] Cfr. A.a.V.v., Colonizers ask us to be enemies of Russia’ – African nation’s FM, in The Press United, 19.02.2023.

[9] Cfr. Uddin, R., Iran and Saudi Arabia: Over four decades of tension, in Middle East Eye, 10.03.2023.

[10] Cfr. Spengler, China’s soft power shapes a Pax Sinica in Middle East, in Asia Times 12.03.2023.

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