“Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa” diceva uno dei padri del management, Peter Drucker. Il coraggio è una dote che non manca alle famiglie imprenditoriali, che senza dubbio rappresentano dal secondo dopoguerra il principale propulsore del motore economico del nostro Paese. Il momento che più di tutti richiede coraggio è probabilmente quello in cui si decide che è arrivato il momento di fare un passo indietro, lasciando alle generazioni più giovani il compito di portare avanti la realtà che si è fondato e fatto crescere con tanti sacrifici.
Per approfondire quali insidie si nascondono dietro questo momento, che spesso rappresenta uno dei pericoli principali non solo per la sopravvivenza dell’azienda, ma anche per l’unità della famiglia imprenditoriale, abbiamo coinvolto il Gruppo The European House – Ambrosetti, da anni punto di riferimento in Italia per questi temi. Nello specifico, abbiamo avuto il piacere di intervistare Francesco Massignani e Riccardo Urbani, entrambi Senior Professional nella practice “Imprese Familiari e Governance”, che da anni lavorano al fianco delle famiglie per facilitare il percorso a supporto della continuità aziendale.
Il passaggio generazionale è da anni al centro del dibattito accademico e industriale, oltre che uno degli ambiti chiave della vostra attività di ricerca e consulenza: perché ancora oggi è un tema così attuale e importante nelle aziende familiari? Che cambiamenti avete notato a livello di sensibilità attorno a questo negli anni?
Il passaggio generazionale o, comunque, la convivenza tra famiglia e impresa è un tema comune a qualsiasi azienda di proprietà familiare. Quando parliamo di questi argomenti bisogna anzitutto distinguere tra aziende a conduzione familiare o a proprietà familiare. Le aziende a proprietà familiare in Italia sono circa il 90% e, in questi anni, stiamo vedendo all’opera le seconde, terze o quarte generazioni dopo quelle nate nel boom del dopoguerra o negli anni successivi di grande effervescenza economica. Quindi, un primo dato da tenere in considerazione è la grande diffusione di questo modello di impresa. In seconda battuta, va rilevata quella che è una peculiarità tutta italiana: abbiamo, infatti, il primato di aziende in cui la totalità del management è proveniente dalla famiglia imprenditoriale (grafico qui sotto), mentre all’estero capita meno spesso che la totalità del management sia espressione della famiglia proprietaria. Il fatto che in Italia sia così diffusa questa sovrapposizione comporta ancor più la necessità di chiarire bene i diversi ruoli e non fare confusione nelle fasi di passaggio generazionale, perché è più facile incorrere in problemi quando la famiglia è molto presente operativamente all’interno dell’azienda.
Noi come The European House – Ambrosetti ci occupiamo di assistere le aziende famigliari e le famiglie imprenditoriali su questi temi dalla fine degli anni ’80 e abbiamo visto, soprattutto negli ultimi anni, una tendenza ad una maggiore attenzione nel regolare, definire e inquadrare al meglio il passaggio generazionale. Secondo noi, i motivi possono essere riconducibili a due elementi: il primo è che l’età media dei leader aziendali è aumentata molto e le aziende con leader con più di 70 anni sono sempre di più, quindi per tante di esse si avvicina forzatamente il momento di affrontare questo aspetto. E poi c’è un altro tema che incentiva le aziende e le famiglie a guardare con occhi maggiormente attenti questi aspetti ed è legato al periodo di incertezza che stiamo vivendo: il mondo del business sta diventando sempre più complesso e gestire un’azienda richiede sempre maggiori competenze. Questo fa sì che le famiglie si interroghino se al loro interno ci siano le competenze necessarie per affrontare questo scenario nel modo migliore. Un’ultima tendenza è quella che porta a considerare di più l’opzione di aprirsi a contributi esterni: su temi così delicati come quelli di cui stiamo parlando, anni fa prevaleva molto la logica del “i panni sporchi li laviamo in famiglia”, mentre oggi c’è sempre più consapevolezza che avere qualche contributo esterno, non legato alla famiglia, è importante e aiuta molto.
Quali sono le principali sfide e rischi a cui sono esposte le imprese famigliari con il trascorrere del tempo?
Le sfide sono insite nel modello stesso di impresa familiare, che vede la compresenza di due istituzioni che funzionano o dovrebbero funzionare secondo logiche diverse. La famiglia generalmente funziona secondo la logica del “siamo tutti uguali”, mentre l’impresa dovrebbe far valere la logica della meritocrazia e rappresentare il luogo in cui si gestiscono e valorizzano le differenze. Nelle imprese famigliari queste due logiche rischiano di scontrarsi.
In aggiunta a questo, il trascorrere del tempo impatta su almeno tre elementi:
- anzitutto, con il tempo tutto cambia: cambiano i singoli familiari e la famiglia (ci si sposa e si fanno dei figli, le famiglie si allargano e cambia il concetto di “noi”) e cambia il business;
- il secondo elemento su cui impatta il tempo è l’ereditarietà della vocazione a fare il mestiere dell’imprenditore. Come per ogni altro mestiere, il gene imprenditoriale non si trasmette per via ereditaria: come il figlio di un cantante non è detto che sia a sua volta un buon cantante, allo stesso modo il figlio di un imprenditore non è detto che abbia la vocazione per fare l’imprenditore;
- ultimo aspetto su cui impatta negativamente lo scorrere del tempo è la propensione ad andare d’accordo: i legami famigliari si dilatano (passando dal rapporto genitori-figli, a quello tra fratelli, a quello tra cugini), si riducono le occasioni di incontro tra i membri della famiglia e di conseguenza la spinta ad andare d’accordo si riduce.
Tutto questo fa sì che la coesistenza tra queste due istituzioni possa diventare complicata. Spesso ciò che è giusto aziendalmente non è facile da accettare a livello familiare: la scelta di premiare l’impegno, le capacità, i risultati raggiunti da un membro della famiglia, rischia di contrastare con la logica familiare del “non voglio fare differenze perché sono i miei figli e non voglio che ci siano trattamenti diversi”. Questo è il cuore della questione sostanzialmente. Le relazioni lavorative convivono con quelle famigliari. Tuttavia, siccome le logiche che le guidano sono diverse, mantenere i due piani separati purtroppo non è facile, perché siamo esseri umani e i sentimenti hanno un peso sulle nostre decisioni.
Quali sono le principali aree di intervento da non trascurare per preservare la continuità generazionale?
C’è la famiglia e c’è l’azienda, ed entrambe vanno tutelate. È importante cercare di distinguere i due piani e ribadire che in famiglia si è parenti e in azienda si è soci o collaboratori, e quindi cercare di adottare modalità di lavoro e relazione che siano il più possibile professionali. Ovviamente è facile a dirsi, ma è molto più difficile mettere in pratica questo principio: diventa quindi centrale avere regole e meccanismi (che vadano in questa direzione) condivisi all’interno della famiglia, esplicitati, scritti nero su bianco e il più possibile rispettati.
Secondo la nostra esperienza, bisogna innanzitutto occuparsi di tutelare l’azienda, perché se l’azienda è disposta in campo bene, ha le persone giuste nei ruoli giusti, genera utili e dividendi, questi vanno a beneficio di tutta la famiglia, e con un’adeguata politica dei dividendi accomodare certe dinamiche famigliari diventa relativamente semplice. Se facciamo l’inversione di priorità e tuteliamo anzitutto le logiche famigliari, diamo ruoli uguali, trattamenti uguali a tutti, rischiamo che l’azienda non sia strutturata bene, inizi a soffrire e a non produrre risultati economici desiderati: andare d’accordo in questo contesto, causato anche dal fatto che non ci sono le persone giuste nei ruoli giusti, è molto difficile.
Parimenti, tutelare la famiglia è comunque importante e, dal nostro punto di vista, significa anzitutto trasparenza informativa: cercare che le informazioni riguardanti l’azienda, le iniziative, gli investimenti siano il più possibile condivise all’interno della famiglia, soprattutto a beneficio di chi è più distante dal business. Poi, regole chiare rispetto alla distribuzione degli utili. Terzo elemento da tutelare in famiglia sono le pari opportunità: chi della famiglia vuole cimentarsi in un lavoro in azienda è bene che possa farlo secondo delle regole chiare che assicurino pari opportunità, che non vuol dire pari trattamento, ma che “alla griglia di partenza” abbiano tutti le stesse possibilità.
In azienda, gestire i giovani da parte di un genitore o di uno zio diventa complicato, soprattutto, quando si tratta di decidere i ruoli, l’avanzamento di carriera o il compenso. Tutti temi che possono generare degli imbarazzi. In tal senso, avere il supporto di qualcuno esterno che oggettivizzi o renda indipendenti le valutazioni e le decisioni su questi temi delicati aiuta molto.
Infine, non ci stancheremo di ribadire l’importanza che tutti i membri della famiglia vengano formati a svolgere con consapevolezza il ruolo di socio, che è l’unico ruolo che si eredita, mentre gli altri, specie quelli di Amministratore/manageriali, dovrebbero essere conquistati sul campo, sulla base delle competenze. È imprescindibile, ad esempio, che i soci sappiano analizzare ed interpretare un bilancio, sappiano come funziona una società e, quindi, cosa compete loro e cosa compete agli amministratori.
Quali sono gli errori più insidiosi e frequenti? Ci sono casi particolarmente eclatanti da citare per capire i possibili impatti negativi di una non gestione di questi aspetti così delicati?
Gli errori che più spesso ci capita di vedere sono riconducibili ai temi di cui abbiamo parlato finora. E quindi il primo aspetto su cui generalmente le famiglie imprenditoriali scivolano è la difficoltà nel distinguere, in concreto, le dinamiche della famiglia, quelle dell’uguaglianza, da quelle dell’azienda, quelle della meritocrazia. È fondamentale il concetto “in concreto”, perché non capita mai di incontrare imprenditori o imprenditrici che dicano che nella loro azienda non esiste la meritocrazia, tutti sposano questo concetto. Il problema è che poi quando si parla di applicarla rispetto a un proprio parente tutto diventa complicato. Un altro errore frequente consiste nel non riuscire a distinguere il ruolo del proprietario da quello del gestore, sia o meno un familiare. Sono due ruoli diversi e spesso ci capita di vedere che, per il fatto che si porta un certo cognome, ci si senta in diritto di entrare in questioni legate alla gestione che non competono ai soci ma ai diretti responsabili.
Ulteriore punto su cui le famiglie si trovano a discutere e arrivano a litigare è il mancato rispetto di alcune regole operative. Regole basilari che, se non rispettate, rischiano di essere i classici granelli di polvere che fanno inceppare un meccanismo che potrebbe funzionare benissimo. Parliamo, ad esempio, del rispetto degli orari di lavoro o delle politiche aziendali relative alle trasferte.
Su questo, un breve aneddoto su una famiglia imprenditoriale di cui non faccio il nome, attualmente gestita dai membri della seconda generazione che sono abbastanza numerosi, circa una decina di persone. Da poco, è entrato in azienda il primo membro della terza generazione che ha iniziato a non rispettare le regole seguite da collaboratori (famigliari e non). Ha iniziato a prendersi flessibilità con gli orari di lavoro, ad arrivare un po’ più tardi la mattina o uscire presto quando aveva necessità personali, a non timbrare il cartellino, a non rispettare spesso e volentieri le politiche legate alle trasferte, a parcheggiare nei posti che riteneva più comodi senza rispettare le assegnazioni previste. Comportamenti questi che, nonostante al ragazzo fossero riconosciute delle importanti capacità professionali, hanno iniziato a generare imbarazzi prima di tutto nella famiglia e, poi, anche tra i collaboratori non famigliari. Questo ha causato delle discussioni in famiglia, rendendo difficili alcuni rapporti che fino a quel momento erano sempre stati positivi e ha fatto mettere in discussione il ragazzo, con possibili ripercussioni sul suo percorso di crescita in azienda.
Un altro aneddoto, sempre legato al fatto che sono le cose simboliche che spesso generano difficoltà più che quelle sostanziali, riguarda un’azienda a conduzione familiare che produce beni alimentari e che dispone del classico spaccio aziendale, dove era consuetudine che anche i membri della famiglia pagassero per acquistare i prodotti. Tuttavia, è successo che uno di essi (probabilmente nemmeno con particolare malafede, visto che la regola non era scritta ma era più che altro una consuetudine) il venerdì si recasse nello spaccio per ritirare cibo per il weekend senza pagarlo. Questo evidentemente non aveva impatti reali sull’azienda (che fatturava diverse decine di milioni di euro), però, a livello simbolico ha generato delle fortissime ripercussioni perché ha incrinato la fiducia tra i membri della famiglia. E tutto questo per una leggerezza!
In questi casi, si può notare come spesso ci si trova a litigare per questioni di principio più che di sostanza. Oltre che sul tema dei compensi, che è particolarmente delicato.
In tante situazioni ci è capitato poi di vedere un’applicazione concreta di una sorta di “comunismo reale”: siccome siamo tutti membri della famiglia e abbiamo tutti lo stesso cognome, tutti prendiamo lo stesso compenso indipendentemente dal ruolo effettivo che svolgiamo. In tali contesti, nel lungo periodo, chi dovesse assumere maggiori responsabilità potrebbe avere qualche recriminazione al riguardo e lo stesso per quanto riguarda i benefit aziendali.
Infine, il tema dell’informazione: spesso non si pone attenzione a garantire un’adeguata informazione a tutti i membri della famiglia. Per nostra esperienza, la condivisione di informazioni e la politica sui dividendi sono carburanti fondamentali per andare d’accordo.
Come individuare il momento della vita dell’impresa e della famiglia in cui ha senso formalizzare regole e modus operandi? Quali sono le principali resistenze o frizioni che incontrate nel momento in cui affrontate questi temi con le famiglie?
Ogni tanto nei seminari utilizziamo come messaggio conclusivo un proverbio africano che dice “il momento migliore per piantare un albero era vent’anni fa, il secondo migliore è adesso”. Anche per definire le regole per gestire in modo ordinato gli aspetti di cui abbiamo parlato finora vale il principio che non è mai troppo presto. Parliamo di “continuità generazionale” proprio perché è un processo, non un momento singolo, in cui il tema è gestire il rapporto mutevole famiglia-azienda nelle varie stagioni della vita di queste istituzioni. Idealmente, vanno stabilite delle regole il più presto possibile, perché prima sono definite tanto più è facile applicarle, perché non ci sono dei precedenti che condizionano. Faccio un esempio: se le regole riguardanti l’ingresso dei figli in azienda sono definite quando i figli sono ancora piccoli e non hanno fatto ancora le loro scelte, sarà semplice stabilire dei criteri meritocratici sulla base di ciò che riteniamo giusto. Quando i ragazzi cresceranno, non dovranno lavorare per forza in azienda ma cercare di fare quello che più amano nella vita. Se poi questo coincidesse con il lavoro nell’impresa di famiglia, devono appunto essere chiari i criteri secondo i quali possono effettivamente entrare e fare carriera in azienda. Se tali criteri si definiscono tardi, dopo che si sono creati dei precedenti, non è detto che siano così efficaci: il momento migliore è il più presto possibile. Mi viene in mente l’esempio di un imprenditore cinquantenne che con tre figli, il più grande dei quali ha oggi 12 anni, ha detto “scriviamo delle regole, poi i miei figli faranno quello che vorranno però almeno le regole sono scritte”.
Le principali resistenze o frizioni si verificano, infatti, quando si differisce troppo il momento in cui si definiscono queste regole e ci sono già dei “mal di pancia” o delle difficoltà relative a membri della famiglia che sono già entrati a lavorare in azienda con modalità non ordinate, con dei ruoli non chiari, con dei compensi definiti secondo logiche più famigliari che aziendali. In tali contesti bisogna intervenire con grande delicatezza o si rischia l’effetto “elefante in cristalleria”.
In altri termini, è dunque buona norma pianificare questi aspetti in una situazione in cui la governance è chiara, non si stanno verificando ingressi di nuove generazioni in azienda e i rapporti famigliari sono buoni.
Ovviamente, riprendendo il detto africano, se le regole non si definiscono nel momento migliore (quando il “prato è verde”) ogni momento successivo è quello buono (in altri termini, “è sempre meglio tardi che mai”).
C’è un percorso standard con cui si affrontano questi temi? Una sorta di percorso che accomuna le famiglie imprenditoriali che si avvicinano a questi argomenti…
Sicuramente il processo e il metodo attraverso cui vengono gestiti questi aspetti è importante tanto quanto i contenuti delle soluzioni che sono individuate. Perché le soluzioni disegnate sulla carta sono bellissime, però poi il loro successo dipende dal fatto che vengano effettivamente scaricate a terra nel lungo periodo. E per fare in modo che questo avvenga, è fondamentale che vengano condivise da tutti gli attori in campo. Per questo, generalmente, costruiamo dei percorsi di accompagnamento che prevedono dei passaggi che assicurino questa assimilazione, questa condivisione e la riflessione su tutte le proposte che avanziamo. Per esempio, all’inizio di un progetto facciamo una riunione collegiale con la famiglia non per parlare di soluzioni, ma per mettere a disposizione casi ed esempi di altre realtà imprenditoriali e stimolare riflessioni preliminari. Poi, è fondamentale organizzare delle chiacchierate individuali con tutti i membri della famiglia, sia i soci, sia chi gestisce, sia chi non è ancora operativo in azienda, per capire i punti di vista, i desideri, le aspettative di ciascuno. Ogni percorso può trovare soluzioni diverse, quello che per noi è fondamentale è che tutti le capiscano bene, le condividano ed esplicitino dubbi, domande, o richieste di modifica, in modo che si possa trovare un accordo il più possibile condiviso.
Ci si concentra spesso sulle modalità propedeutiche all’ingresso in azienda delle nuove generazioni, sui criteri da rispettare e sui percorsi di formazione necessari per occupare ruoli dirigenziali: voi cosa suggerite in tal senso?
Se parliamo di regole di ingresso per i famigliari in azienda si riesce ad essere abbastanza oggettivi: se stabiliamo che occorre avere un certo titolo di studio o aver fatto una certa esperienza lavorativa, è abbastanza facile capire se tali criteri sono rispettati. Per quanto riguarda l’evoluzione delle carriere in azienda la questione è più delicata, perché subentra anche una dimensione soggettiva. Le scelte sui cambiamenti di ruolo, avanzamenti di carriera e di compensi dovrebbero avvenire in base al raggiungimento di obiettivi predefiniti ed essere valutati possibilmente da un soggetto esterno alla famiglia. Pensare che papà, mamma, zio, zia, valutino con la stessa oggettività un familiare e un collaboratore non familiare è sostanzialmente irrealistico: per questo occorre appoggiarsi a qualcuno di esterno che possa aiutare, sulla base di criteri e regole definiti, a spersonalizzare le valutazioni.
Tornando un attimo al tema dei requisiti per l’ingresso, ci permettiamo spesso di suggerire di fare in via preliminare un’esperienza in un’azienda diversa da quella della propria famiglia, perché porta con sé una serie di benefici importantissimi: vivere una realtà in cui non si è condizionati dal cognome che si porta, fare i primi errori di lavoro sotto un capo che non sia proprio parente, accedere a realtà diverse, conoscere processi che potrebbero essere poi portati nell’azienda di famiglia nel momento in cui un ragazzo o una ragazza decide di entrare.
Abbiamo già accennato al tema di essere proprietari piuttosto che entrare attivamente all’interno degli organismi decisionali dell’azienda. Come aiutate la famiglia a ragionare su questo punto? E come consigliate di gestire questo rapporto famiglia-management, all’interno appunto di un’impresa familiare?
Come si diceva in apertura, le aziende famigliari in Italia sono caratterizzate dal fatto che generalmente nelle posizioni di vertice e responsabilità ci sono prevalentemente membri della famiglia, per cui le realtà che hanno virato verso una completa managerializzazione sono nella realtà dei fatti poche. Detto questo, per chi decide di intraprendere un percorso che porta verso una progressiva apertura a contributi manageriali esterni è fondamentale che tutti i soci o i futuri soci abbiano le competenze per svolgere tale ruolo, perché altrimenti più che delegare significherebbe abdicare. Invece, come già anticipato, il ruolo di socio dovrebbe essere svolto in maniera totalmente consapevole.
L’apertura a contributi di manager esterni comporta il fatto che alcuni membri della famiglia potrebbero dover fare un passo non tanto indietro quanto piuttosto di lato, e in questi casi è di centrale importanza dotarsi di un consiglio di amministrazione che funzioni in maniera effettiva, strutturata e professionale, in modo che gli interessi della proprietà siano rappresentati nei modi giusti. Da qui, la necessità di prevedere percorsi formativi per i membri della famiglia che siedono nel consiglio di amministrazione, che richiede competenze diverse e più approfondite rispetto a quelle necessario per il ruolo di socio.
Insomma, la formazione e la consapevolezza rispetto a quanto richiesto sono aspetti centrali che troppo spesso vengono dati per scontati.
L’ultima domanda è una riflessione globale: cosa possono fare le imprese familiari per sopravvivere ad una fase del capitalismo in cui “Winners take it all”? L’Italia ha un rischio endemico a causa dello strutturale sottodimensionamento delle proprie imprese?
Se per impresa familiare intendiamo un’impresa a conduzione esclusivamente familiare (gestita solo ed esclusivamente da membri della famiglia, senza apertura a manager esterni), il binomio impresa-famiglia può naturalmente diventare un limite alla crescita su scala globale.
Ci sono invece grandi o grandissimi gruppi a proprietà familiare gestiti da manager esterni alla famiglia. Quindi, in realtà, il fatto che la proprietà o il controllo dell’azienda siano di una famiglia non rappresenta di per sé un freno. È innegabile però che un certo rischio ci sia ed è un dato di fatto che la taglia media delle aziende italiane è inferiore rispetto a quella delle altre principali economie.
Cosa fare in questo contesto? Puntare sui propri caratteri distintivi: in Italia abbiamo tante aziende medio-piccole che servono nicchie di mercato sviluppando prodotti/servizi eccellenti e riconosciuti a livello globale. E gli attori protagonisti, in questo ambito, sono proprio le imprese famigliari che possono continuare a ottenere ottimi risultati, a condizione di essere ben strutturate e organizzate dal punto di vista della governance familiare e aziendale.
Inoltre, non va dimenticato che esiste sempre l’opzione dell’apertura del capitale a sostegno della crescita: non per forza la famiglia deve rimanere al 100% proprietaria delle quote. Su questo, notiamo che in Italia c’è ancora abbastanza ritrosia: mentre osserviamo una crescente disponibilità a farsi affiancare da professionisti nel definire le regole o nell’impostare i percorsi per le nuove generazioni, tante famiglie tendono ancora a considerare l’opzione dell’apertura del capitale come un tabù, quando invece – se ben studiata e per le giuste finalità – può essere un volano di crescita molto importante.
Approfondimento a cura di Alberto Casna
Lugano, 11/06/2023