Shoshana Zuboff é una professoressa emerita alla Harvard Business School che ha pubblicato alcuni anni fà un testo interessante, “The Age of Surveillance Capitalism” in cui spiega come le società della Silicon Valley cerchino di avere accesso al massimo numero di dati possibili sugli utenti, per poi impiegarli per prevedere e quindi modellare i comportamenti economici futuri degli utilizzatori stessi.
In questi giorni, molti commentatori economici hanno giustamente rimarcato come le recenti settimane di esuberanza più o meno irrazionale dei mercati finanziari ricordino proprio le mitiche sedute di fine anni Novanta quando la scoperta “originaria” della tecnologia elettrizzava gli investitori di tutto il mondo: Priceline, Ebay, Oracle, Cisco oltre oceano; dalle nostre parti Tiscali, Pagine Gialle, Poligrafica San Faustino… A prescindere da quale fosse la società che agitava i sogni degli investitori, era l’humus di quel periodo ad essere irripetibile: si stava schiudendo un mondo nuovo, California-based, ricco di mille opportunità ma soprattutto aperto a tutti, perché di fatto gli unici ingredienti che dovevano bastare per avere successo, erano ingegno e creatività. Niente più “hard assets”, niente più stabilimenti e barriere all’entrata, finalmente neutralizzata la forza del capitale. Bastava “think different” (come ci avrebbe ricordato in seguito Steve Jobs), un pizzico di follia (be hungry, be foolish), per conquistare il meritato lembo di Paradiso. Talento, intelligenza ed un PC, magari Mac, sarebbero bastati per diventare attori protagonisti di un nuovo millennio dove gli spazi da conquistare, sarebbero stati illimitati per chiunque. Questo il sogno; questa la promessa.
Sono passati circa vent’anni da quei momenti epici, la tecnologia ha fatto davvero breccia nelle nostre vite come sarebbe stato difficile immaginare. Col senno di poi bisogna ammettere che gli spazi non sono stati proprio per tutti: pochi, bravissimi, hanno conquistato fette di mercato come mai era successo nella storia se si pensa che solo cinque titoli azionari oggi, compongono quasi il 40% dell’indice tecnologico Nasdaq:
Shoshana Zuboff ha coniato il termine Surveillance Capitalism per definire la pretesa unilaterale (da parte delle tech companies) di esercitare sfruttamento economico sui comportamenti umani, quali “materie prime” da trasformare in dati comportamentali. Questi dati una volta estratti:
– vengono impacchettati sotto forma di un prodotto in grado di prevedere il comportamento dei possibili fruitori
– vengono venduti sul mercato a chi può avere interesse a sapere cosa faremo in un futuro più o meno prossimo
Ad aprire la strada è stata Google che non si è fermata a raccogliere i dati degli utenti che erano utili per meglio definire la struttura dei propri servizi ma ha ben presto individuato un surplus di dati “vendibili” che poteva essere interessante per la propria base di clienti, in primis tutte le società che utilizzano Google per la pubblicità. Da subito si è capito che sarebbe stato complicato avere l’accordo degli utenti su questa estrazione di dati e che dunque quest’esercizio avrebbe dovuto restare il più anonimo possibile. La logica insomma era quella tipica degli action movie dove i poliziotti ascoltano le conversazioni tra un altro poliziotto ed un detenuto, senza che il detenuto ne sia al corrente. Un modello di servizio che ha interessato tutti noi: molti ne hanno avuto il dubbio, ma ovviamente mai nessuno la certezza.
Certo le attese di una tecnologia che democratizzasse il mondo e abbattesse le barriere erano terribilmente intriganti ma il modello del surveillance capitalism era semplicemente troppo remunerativo per non prevalere.
Questa pratica con il tempo si è naturalmente diffusa a qualsiasi settore economico e per qualsiasi servizio che facesse vanto all’interno della propria mission, di un dettagliato processo di personalizzazione…
Molti elementi hanno contributo alla sua diffusione endemica: senza dubbio l’audacia delle company spinte dai margini di profitto che in questo campo tendono all’infinito; poi naturalmente la vague liberale per cui qualsiasi tipo di interferenza governativa era percepito come un intollerabile vincolo alla crescita economica del free capitalism americano. Un’ulteriore spinta l’ha poi data September 11th: in seguito ai noti eventi le conversazioni a Washington si sono infatti ben presto spostate dai temi di tutela della privacy alla necessità che ci fosse totale trasparenza sulle informazioni disponibili. In quel preciso momento storico i governi e le forze di intelligence maturavano la disponibilità a lasciar incubare il surveillance capitalism all’interno del mondo economico.
L’aspetto più irritante della vicenda è stato persuadere il pubblico che questo genere di pratiche fossero una conseguenza inevitabile della rivoluzione digitale, un minimo prezzo da pagare davanti agli incredibili vantaggi del mondo tecnologico. Evidentemente un falso mito: é impossibile immaginare il surveillance capitalism senza il digitale, ma è invece facilissimo pensare ad un mondo digitale senza sorveglianza.
Da Eraclito in poi tutto scorre, dunque anche questa pratica ha attraversato fasi evolutive: si è dunque passati dal monitoraggio dei dati degli utenti ad una strategia di persuasione e condizionamento che tramite un sottile meccanismo fatto di segnali, premi e punizioni, condiziona i comportamenti del target verso il risultato piu’ profittevole per chi mena le danze.
E’ chiaro come la possibilità di influenzare i comportamenti tramite la tecnologia non abbia solo ricadute economiche ma anche politiche: lo scandalo di Cambridge Analytica ci ha ricordato come la riduzione del nostro spazio di autonomia nel giudicare gli eventi mina alle basi anche il principio cardine della democrazia, insito nell’autonomia di giudizio di ognuno di noi. Questo genere di asimmetria informativa, aggiunge una nuova dimensione allo scottante e molto attuale tema della diseguaglianza, la vera piega dell’attuale fase storica.
A pochi mesi dalle elezioni presidenziali americani con le strade delle principali città americane che brulicano di manifestanti pronti a scaricare a terra la propria rabbia in ogni modo, un ulteriore prospettiva da cui guardare agli eventi dei prossimi mesi.