(foto: Alfie Solomon, da Peaky Blinders, serie Netflix, 2013)
“He’s a man, he’s a guru
You’re one microscopic cog
In his catastrophic plan
Designed and directed by
His red right hand”
(Nick Cave and The Bad Seeds, Red Right Hand)
«E se il soffio che accese quei fuochi tetri, / Si risvegliasse, li soffiasse in una rabbia settuplice, / E ci immergesse nelle fiamme; o dall’alto / La vendetta intermittente dovesse armare di nuovo / La sua rossa mano destra per tormentarci?», (J. Milton, Il Paradiso perduto, Libro II).
L’anno appena concluso potrebbe essere ricordato come l’anno del crollo delle narrazioni ufficiali e delle aspettative insoddisfatte: l’Ucraina avrebbe dovuto vincere e la Russia capitolare sotto le sanzioni; l’interruzione delle forniture energetiche da Mosca non avrebbe dovuto incidere sulla produzione industriale europea; gli Accordi di Abramo allargati ad un’intesa israelo-saudita avrebbero dovuto promuovere la pace in Medio Oriente; le democrazie occidentali avrebbero dovuto prevalere sulle autocrazie e l’ordine mondiale basato su regole guidato dagli Stati Uniti avrebbe dovuto infine affermarsi come unica opzione possibile. Nulla di tutto questo si è realizzato.
La realtà con cui inizia il nuovo anno, infatti, è ben diversa: la giungla cresce mentre arretra e inaridisce il giardino, parafrasando la nota sfortunata metafora del capo della diplomazia europea Joseph Borrell. Il mondo sta cambiando rapidamente e nuovi centri di potere stanno diventando sempre più assertivi sulla scena internazionale. Sicché, il processo di cambiamento è accompagnato da conflitti militari, crisi politiche, economiche e sociali.
Nelle precedenti Side Views, abbiamo avuto modo di delineare come si stia combattendo una guerra che vede i paesi del cosiddetto Sud globale, impegnati in conflitti minori in diversi teatri regionali, cercare di liberarsi dall’egemonia occidentale, dopo che gli Stati Uniti hanno perso la loro aura di invincibilità a seguito del ritiro dall’Afghanistan ma, soprattutto, del progressivo esaurimento del proprio apporto in Ucraina e percepito dai non occidentali come una vera e propria sconfitta della Nato[1]. Questo punto è centrale.
Con lo scritto di oggi, quindi, svilupperemo ulteriormente il tema, cercando di mettere tra loro in relazione gli episodi che stanno infiammando il Medio Oriente con la crisi strategica dell’Egemone sulla quale non pochi analisti stanno appunto richiamando l’attenzione. Negli ultimi mesi, infatti, soprattutto da quando si sono inaspriti i combattimenti a Gaza, sta crescendo l’antagonismo non solo contro Israele ma anche contro l’America, che ha perso il suo primato morale e quindi buona parte del sostegno straniero: c’è un crescente antiamericanismo in Asia, Africa e Sud del mondo come pure in Europa.
Il contesto
Lunedì 1° gennaio la Russia ha assunto la presidenza dei BRICS a cui si sono uniti Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran ed Etiopia, aumentando l’influenza del gruppo a livello globale. Il gruppo dei BRICS nel suo complesso sta espandendo le sue relazioni commerciali e di investimento e, soprattutto, le sue operazioni di compensazione finanziaria e monetaria per essere indipendenti dal dollaro. In tal senso, la Banca centrale cinese ha annunciato un aumento di 225 t delle proprie riserve auree, che hanno raggiunto le 2.235 t alla fine di dicembre. L’oro rappresenta ora il 4,3% delle riserve ufficiali di valuta estera della nazione[2]. Nel contesto dei piani di de-dollarizzazione dell’alleanza BRICS, le banche centrali di tutto il mondo hanno registrato acquisti record di oro come chiara difesa del dollaro USA. Il motivo sembra legato al sentimento geopolitico nei confronti di quest’ultimo.
A inizio gennaio, inoltre, il Vicegovernatore della Banca Centrale dell’Iran, Mohsen Karimi, ha dichiarato che Iran e Russia hanno collegato i loro sistemi di informazione finanziaria e non dipendono più dalla rete internazionale SWIFT. Secondo Mohsen Karimi, è ora possibile per le banche commerciali effettuare transazioni finanziarie nelle loro valute nazionali. Da parte sua, Hossein Ayvazlu, membro del Consiglio di amministrazione del Fondo nazionale di sviluppo dell’Iran, ha annunciato che i fondi nazionali di investimento di Russia e Iran hanno intenzione di costituire comitati congiunti di investimento in vari campi, da quello petrolifero e del gas naturale a quello petrolchimico e farmaceutico.
Da un punto di vista geografico, poi, l’Iran sta per diventare un importante hub commerciale nell’architettura dell’ordine mondiale multipolare, aggirando le rotte marittime controllate dalle potenze occidentali. Se le forze antagoniste dell’occidente riuscissero a stabilire rotte terrestri in grado di aggirare quelle marittime, infatti, l’Iran trarrebbe vantaggio dai commerci che attraverserebbero i suoi confini. Per aiutare l’Iran a diventare questo importante hub commerciale, Russia, Cina e India hanno investito miliardi in infrastrutture. Non solo investimenti monetari ma anche diplomatici, come ad esempio la distensione tra Iran e Arabia Saudita e l’adesione dell’Iran alla SCO e ai BRICS. L’Iran viene espressamente incluso nel progetto cinese della BRI, come sbocco commerciale e logistico (assieme alla Turchia) del corridoio economico ferroviario-terrestre Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale[3].
Escalation in Medio Oriente. Cui prodest?
Lo stallo in Ucraina, testimoniato dal cambio di narrativa per cui l’Europa deve prepararsi alla caduta dell’Ucraina e alla comparsa dei soldati russi ai confini NATO e all’imminente invasione russa dei Paesi Baltici, nonché l’approssimarsi delle elezioni e la necessità di portare dei risultati all’opinione pubblica ovvero nascondere tali fallimenti, hanno probabilmente portato l’amministrazione statunitense guidata dai neoconservatori a seguire se non, addirittura, a spingere la bellicosità di Netanyahu, altrettanto desideroso di allargare il conflitto per coprire i suoi insuccessi contro Hamas. Con il ridursi delle proprie capacità attrattive e di cooptazione, infatti, l’ultima possibilità per gli strateghi che attualmente controllano l’amministrazione di Washington di affermare la propria egemonia è manu militari. Tra i possibili vantaggi di una guerra con l’Iran vi è evidentemente quello di eliminare un attore strategico importante nella creazione dell’ordine mondiale multipolare. Come fa notare l’economista Michael Hudson, spingendo Israele a provocare una risposta militare di Libano e Iran, l’idea sarebbe di far condurre ad esso una guerra per procura alla stregua dell’Ucraina per impossessarsi delle riserve petrolifere di Iran, Siria e Iraq. Se questa operazione riuscisse, l’America potrebbe controllare le esportazioni di energia verso tutti gli altri paesi, così come è riuscita a bloccare le esportazioni di petrolio russo verso l’Europa. Diretta conseguenza sarebbe il controllo dell’industrializzazione di queste aree, che non potrebbe avvenire indipendentemente dagli Stati Uniti[4].
A cavallo del nuovo anno, quindi, abbiamo visto una progressione di attentati che hanno colpito obiettivi legati all’Asse della Resistenza in Medio Oriente per provocare Teheran. La serie ha avuto inizio con l’uccisione del generale iraniano Radhi Mousavi lo scorso 25 dicembre a Damasco, in Siria. Il 2 gennaio, un attacco missilistico (probabilmente compiuto da un drone) ha ucciso Saleh al-Arouri, uno dei principali esponenti del movimento islamico palestinese Hamas, insieme ad altri uomini del gruppo, nel sobborgo meridionale di Beirut, considerato la roccaforte del gruppo sciita libanese Hezbollah. Il giorno dopo, una doppia esplosione nei pressi della tomba del generale Qasem Soleimani, a Kerman, in Iran, ha mietuto quasi cento vittime fra i presenti giunti a commemorare il comandante della Forza Quds ucciso quattro anni fa in Iraq. Infine, proprio in Iraq gli Stati Uniti hanno ucciso, ancora una volta tramite un drone, il leader di una milizia filoiraniana il 4 gennaio.
Questa serie di episodi infiamma ulteriormente un panorama mediorientale già profondamente scosso dal terribile conflitto in corso a Gaza e dalle sue ramificazioni regionali, fra le quali spiccano lo scontro militare fra Israele e Hezbollah (fino a questo momento limitato a reciproci bombardamenti lungo il confine libanese), e le tensioni nel Mar Rosso causate dagli attacchi alle navi mercantili dirette verso Israele da parte della formazione sciita yemenita di Ansar Allah (meglio nota come movimento degli Houthi, dal nome del suo fondatore).
È a questo punto della trattazione che ci torna utile l’aforisma coniato dal feldmaresciallo Helmuth von Moltke (1800-1891), capo dello stato maggiore prussiano per trent’anni: “Nessun piano di battaglia sopravvive al primo contatto con il nemico”.
L’Asse Mosca – Pechino – Teheran
In questa progressiva regionalizzazione della crisi originata il 7 ottobre 2023, infatti, alcuni analisti individuano la longa manus della coalizione Mosca-Pechino-Teheran che, dando per scontato che gli Stati Uniti continueranno a percorrere la via militare di supporto a Israele così intendono sovra estendere e sovraccaricare la loro capacità di risposta in quanto avvertiti come militarmente deboli[5] e, impegnandoli su più fronti, far sì che esauriscano le loro riserve per poi scacciarli dai diversi teatri regionali strategici mediante i propri alleati locali.
È chiaro che, più a lungo si protrae la crisi, maggiore è il rischio che vi siano vittime americane e, a quel punto, gli Stati Uniti si troverebbero nella condizione di “non aver altra scelta” se non quella di colpire direttamente l’Iran. Tuttavia, allo stato attuale, una guerra diretta tra Stati Uniti e Iran, per quanto possibile, appare improbabile per la deterrenza del suo arsenale.
La mappa mostra la portata approssimativa dei regolari missili balistici iraniani. In caso di guerra, tutte le basi americane e israeliane sarebbero in pericolo. Nell’ultimo decennio, l’Iran ha prodotto enormi depositi di vari missili. Gli Usa dovrebbero ritirarsi dalle aree più vulnerabili, rafforzare le basi e posizionare sistemi di difesa missilistici in punti strategici, nonché rafforzare la Marina nelle vicinanze di circa 2000 km attorno all’Iran. Attaccare con l’attuale spiegamento di forze porterebbe a massicce perdite. Anche da parte dell’Iran, s’intende, ma quest’ultimo potrebbe esser disposto ad accettarle pur di liberarsi della presenza occidentale dalla regione[6].
Recentemente, abbiamo assistito ad un attacco iraniano alla base di Erbil in Iraq con missili balistici per dimostrare sia agli USA che a Israele e alle altre potenze regionali che è capace di colpire obiettivi a distanza e superare i sistemi di difesa e che quindi non è né liquidabile né emarginabile. Come già detto all’inizio, l’Iran ha davanti a sé grandi prospettive, derivanti dagli stretti rapporti con la Russia e la Cina e dalla posizione geografica strategica nei corridoi euroasiatici. Non ha pertanto interesse ad arrivare allo scontro con gli Stati Uniti, e preferisce di gran lunga esercitare una forte pressione mediante i suoi proxy finalizzata ad espellerne le basi militari dalla regione, senza arrivare al conflitto aperto[7].
È in tale contesto che nasce l’attacco allo Yemen.
Choke points
Lo Yemen è la linea difensiva avanzata dell’Iran e gli Houthi sciiti fanno parte dell’asse della Resistenza.
Gli Houthi hanno preso il controllo dello Yemen con una guerra che dura da circa nove anni e che ha visto intervenire anche l’Arabia Saudita nel tentativo di respingerli su richiesta del governo riconosciuto del deposto presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi. La capacità militare degli Houthi è diventata sempre più sofisticata nel corso della guerra. Il loro arsenale comprende droni e missili a lungo raggio in gradi di coprire distanze fino a 2000km, sufficienti per raggiungere la città portuale israeliana di Eilat, oltre a una vasta gamma di sistemi missilistici antinave e navi-drone, con capacità sufficiente per interrompere la navigazione globale nel Mar Rosso.
HOUTHI
Gli Houthi prendono il nome del loro ex leader, Husayn al-Houthi, e attualmente sono guidati dal fratello, Abd al-Malik al-Houthi. Sono un gruppo allo stesso tempo religioso, politico e militare. Il movimento è radicato nell’Islam Zaydi, una branca dello sciismo.
Emergono alla fine degli anni ’80 come movimento che cercava di porre fine alla loro emarginazione religiosa, politica, economica e culturale in seguito al rovesciamento del loro stato, un Imamato basato sulla religione, nel 1962. Tale Imamato fu quindi sostituito con la forza dalla Repubblica Araba dello Yemen, che in seguito divenne lo Yemen del Nord. Il nuovo Stato fu permeato dal proselitismo sunnita di missionari wahabiti provenienti dall’Arabia Saudita. In risposta, la leadership Houthi iniziò a coltivare una rete di “giovani credenti” e ad adottare sempre più i tipi di simboli sciiti comuni in Iran.
Hanno preso il controllo della capitale dello Yemen Sanaa nel 2014 e controllano un territorio in cui vivono due terzi degli yemeniti, circa 20 milioni.
L’impatto sul commercio mondiale è significativo. Ogni anno, almeno 17.000 navi attraversano il Mar Rosso, trasportando il 10% del commercio marittimo globale e il 20% dei volumi globali di container. Il risultato è che i premi assicurativi sono saliti alle stelle e molte delle più grandi compagnie di spedizione di container del mondo stanno effettuando una rotta alternativa introno all’Africa. I viaggi più lunghi avranno sempre di più un impatto sulle catene di approvvigionamento e, in ultima analisi, aumenteranno i prezzi per i consumatori[8].
Gli Stati Uniti hanno inviato una serie di cacciatorpediniere per aiutare a proteggere la navigazione internazionale, intercettando i droni e i missili Houthi. Tuttavia, vi sono una serie di problemi. Il primo è che i cacciatorpediniere portano un numero limitato di missili e non possono essere riforniti in mare, quindi, una salva cospicua e ben organizzata di missili da parte degli Houthi potrebbe facilmente saturarne le difese[9]. Inoltre, va osservato che gli Houthi hanno dimostrato di essere particolarmente resilienti ai bombardamenti durante la guerra con l’Arabia Saudita. Per sconfiggerli, occorre pensare di mettere lo scarpone a terra.
A questo punto, è bene richiamare un concetto già espresso precedentemente ma che trova conferma in un recente allarme lanciato sulle colonne di Foreign Affairs: le Forze armate statunitensivivono una profonda crisi interna. Secondo Juan Quiroz, un ufficiale degli affari civili dell’esercito americano, l’esercito americano si trova ad affrontare una “crisi del personale”[10]. Cinquant’anni di disinvestimento interno hanno ridotto la riserva di capitale umano. Tutto ciò deve anche essere visto come parte di un quadro più ampio, che è stato vividamente disegnato da Niall Ferguson, Senior Fellow presso la Hoover Institution (Università di Stanford) e presso il Belfer Center for Science and International. L’immagine dipinta da questo esperto è quella di un impero in declino in cui la stragrande maggioranza dei giovani americani non è disposta o non è idonea a servire sotto le armi e l’industria militare non solo non è in grado di sostenere un conflitto con una potenza come la Repubblica Popolare Cinese ad esempio, ma non può essere portata a regime perché manca la manodopera in quanto l’America ha smesso da tempo di essere una società manifatturiera: senza operai, niente impero.[11] La pianificazione del Pentagono non si è adeguata a questa realtà. E mancano concetti operativi e addestramenti (dunque la preparazione) per affrontare nemici alla pari nel mondo reale. In tutto questo, si è persa la capacità di pensare in termini strategici[12].
Uno studio del Pentagono del 2020 ha rilevato che il 77% degli americani di età compresa tra i 17 e 24 anni non sono idonei al servizio militare senza deroga causa obesità, abuso di droghe e problemi mentali. Secondo i sondaggi condotti dal Ronald Reagan Presidential Foundation and Institute, la percentuale di americani che hanno dichiarato di avere grande fiducia nelle forze armate è scesa dal 70% al 48% tra il 2018 e il 2023.La mancanza di potenziali soldati qualificati lascia gli Stati Uniti e le sue forze armate in una posizione precaria nel periodo geopoliticamente più difficile dalla fine della Guerra Fredda.
Secondo quanto riportato da Politico, l’amministrazione Biden avrebbe ammesso che gli attacchi contro gli Houthi da soli non impediranno ai militanti sostenuti dall’Iran di minacciare le navi commerciali in Medio Oriente. Il che porta alla domanda ovvia: cosa fermerà gli Houthi? Secondo un alto funzionario dell’amministrazione gli attacchi statunitensi contro obiettivi Houthi dovrebbero degradare la capacità dei militanti di continuare a sparare contro le navi, così come l’interdizione delle navi che trasportano armi nello Yemen. La ridefinizione degli Houthi come terroristi, operata la scorsa settimana, aumenterebbe la pressione delle sanzioni su di loro, affamando i combattenti delle risorse che finanziano le operazioni. Alla fine, i paesi della regione e le altre nazioni interessate alle rotte marittime aperte tra cui la Cina chiederanno la fine della crisi marittima che ha gonfiato i prezzi e messo in pericolo vite umane.
In realtà, si ammette nel medesimo articolo, pare difficile si allineino tutti questi fattori[13].
La Cina, infatti, non sembra proprio rientrare nell’equazione.
Gli Houthi non sarebbero in grado di operare a questo livello senza armi, addestramento e intelligence forniti dall’Iran e da Hezbollah[14]. Non solo, senza che vi sia una sorta di regia e di finanziamento anche da parte di Russia e Cina. Una prova di ciò può essere data dal fatto che Iran, Hamas, Hezbollah e Houthi hanno armi provenienti dalla Corea del Nord, proxy della Cina e molto più della Federazione Russa[15]. A ulteriore conferma, alle navi russe e cinesi che transitano attraverso il Mar Rosso viene garantito un passaggio sicuro. D’altra parte, se gli Houthi rispondessero solo a Teheran, la pace irano-saudita e l’allargamento BRICS sarebbero già saltati.
In conclusione, l’attacco angloamericano rischia di aprire un nuovo fronte senza però fornire prospettive di reale risoluzione della crisi a fronte di una evidente regia da parte di Russia – Cina – Iran che utilizzano gli Houthi per far pressione e far capire agli Stati Uniti e al resto del mondo che l’egemonia statunitense sulle rotte marittime su cui si regge la globalizzazione è finita.
In tal senso, disabilitare i maggiori punti di strozzatura potrebbe avere gravi conseguenze globali.
Attualmente, le alternative per il percorso attraverso Bab el-Mandeb e il Canale di Suez sono limitate.
Il Canale di Panama non è al momento un’opzione praticabile a causa della siccità che rende i livelli dell’acqua nel Canale così bassi da limitare fortemente la capacità di trasporto marittimo. La Cina sta iniziando a inserirsi nella società panamense, complice il diffuso antiamericanismo, con una serie di cooperazioni in diversi settori compreso quello militare per controllarne le infrastrutture strategiche.
Per quanto riguarda Malacca, dalla sua sicurezza dipende il corretto funzionamento dell’attuale principale rotta marittima, attraverso l’Oceano Indiano e il Canale di Suez, in tutte le sue varianti. Una delle grandi paure dei successivi dirigenti della Repubblica Popolare Cinese è la vulnerabilità, coniata nel 2003 dall’allora presidente Hu Jintao come il “dilemma di Malacca”, la paura che, in caso di grave conflitto con altre potenze, in particolare gli Stati Uniti (ma anche l’India) verrà imposto un blocco navale sui prodotti provenienti o provenienti dalla Cina, transitanti attraverso lo Stretto di Malacca. Per questo la Cina sta sviluppando anche vie alternative come la linea ferroviaria che collega all’Europa e che ha visto negli ultimi anni una crescita significativa del trasporto merci.
Infine, vi è la rotta del Mare del Nord più breve del 40% rispetto all’alternativa attraverso il Canale di Suez per collegare l’Asia all’Europa. Ma il ghiaccio lo rende navigabile per non più di cinque mesi all’anno e ci sono preoccupazioni circa l’impatto delle navi sul fragile ecosistema artico. Inoltre, sia i collegamenti ferroviari che quelli della rotta del Mare del Nord sono interessati dalle sanzioni contro la Russia. Quello che sta accadendo nel Mar Rosso potrebbe quindi essere l’inizio di una battaglia per il controllo degli stretti[16].
La suggestione letteraria che ha portato al titolo di questa Side Views viene dal poema di John Milton, Il Paradiso perduto. Milton, filosofo e politico nato a Londra l’8 dicembre del 1608, era studioso di Dante, Petrarca e Tasso e concepisce il Paradiso perduto come un vero e proprio poema che parla della ribellione all’autorità costituita mediante la vicenda del primo ribelle, Satana, il cui orgoglio è irrimediabilmente punito ma che rappresenta al tempo stesso l’energia eroica in cui l’autore fortemente credeva.
Il titolo richiama anche la metafora di Borrell, quel giardino/paradiso rappresentato dalla civiltà occidentale che sembra oggi anch’esso irrimediabilmente perduto.
Approfondimento a cura di Gilberto Moretti
Lugano, 28 gennaio 2024
[1] Cfr. Moretti, G., The Multiverse of madness, in Side Views, brightside-capital.com, 26.11.2023.
[2] Cfr. Jia, R., China’s Gold Market in 2023: Demand improved and premiums rose, in Goldhub, World Gold Council, 18.01.2024.
[3] Cfr. Indeo, F., Il rafforzamento dell’asse geopolitico tra Cina ed Iran, tra interconnettività e sicurezza, in geopolitica.info, 27.03.2021.
[4] Cfr. Hudson, M., Credit the economic planner, in michael-hudson.com, 18.01.2024.
[5] Cfr. Pietrobon, E., Il mondo nuovo: dalle policrisi alla permacrisi, in Centro Studi Machiavelli, 10.01.2024.
[6] Cfr. Giuliani, F, Dove possono arrivare i missili dell’Iran, in InsideOver, 08.01.2020.
[7] Cfr. Tomaselli, E., Che significa la ‘mossa’ iraniana, in Giubbe Rosse News, 18.01.2024.
[8] Cfr. Kendall, E., The Houthis’ forgotten war goes global, in Engelsberg Ideas, 11.01.2024.
[9] Cfr. Bryen, S., Why Biden ordered the attack on the Houthis, in weapons.substack.com, 12.01.2024.
[10] Cfr. Quiroz, J., The U.S. Military’s Personnel Crisis, in Foreign Affairs, 05.01.2024.
[11] Cfr. Ferguson, N., The US and Europe risk flunking geopolitics 101, in Bloomberg, 31.12.2023.
[12] Cfr. Petroni, F., L’introvabile intelligenza strategica dell’America, in Limes, n. 11/2023.
[13] Cfr. Ward, A., How to stop the Houthis, in Politico, 22.01.2024.
[14] Cfr. Nakhoul, S., Hafezi, P., Iranian and Hezbollah commanders help direct Houthi attacks in Yemen, in Reuters, 21.01.2024.
[15] Cfr. Ramani, S., North Korea’s Covert Alliance with Iran Aligned Militias in the Middle East, in 38North, 23.10.2023.
[16] Cfr. Schiffling, S., Tickle, M., Red Sea crisis: Suez Canal is not the only ‘choke point’ that threatens to disrupt global supply chains, in The Conversation, 15.01.2024.