(foto: Ip Man 4, film 2019)
«Il potere non risiede in chi dispone di denaro, soldati o armamenti (tutto ciò è di risulta), ma nel controllo della narrazione» (A. Bradanini, La fonte occulta del potere, La Fionda)
Il sempre maggior acuirsi della contrapposizione tra l’Occidente e i Paesi del cosiddetto Sud globale in diversi teatri regionali è motivo di continuo approfondimento per coglierne sempre meglio le dinamiche: quando possibile, lo facciamo avvalendoci del punto di vista originale di qualificati osservatori. In tal senso, con lo scritto di oggi vi proponiamo alcune riflessioni condivise con noi da Alberto Bradanini, ex Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015), attualmente, Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea e autore di libri quali Oltre la Grande Muraglia (Ed. Bocconi 2018), Cina, lo sguardo di Nenni e le sfide di oggi, Ed. Anteo 2012; Cina, l’irresistibile ascesa, Ed. Sandro Teti, 2022.
Molti si interrogano se siamo vicini alla fine dell’egemonia americana. Lo scenario che Lei vede è quello di una Cina che ambisce a sostituirsi alla leadership americana oppure quello di un mondo multipolare in cui la Cina sarà solo uno dei centri di potere che andranno ad affermarsi?
A questa domanda si può rispondere in termini soggettivi guardando al punto di vista cinese e da un punto di vista oggettivo della realtà del pianeta che abbiamo davanti. Da un punto di vista soggettivo, la Cina ha ribadito più volte che non intende sostituirsi all’impero americano, anche perché non ne ha la forza e l’impero americano non è scomparso, semplicemente, e non scomparirà domani mattina. In realtà, La Cina intende far parte del plotone di testa dei Paesi che guidano la riemersione del Sud del mondo, che ha diritto a far sentire la sua voce, a conquistare degli spazi di benessere e a dialogare alla pari con il cosiddetto “regno del bene”, cioè l’occidente a guida americana.
La realtà oggettiva è sotto gli occhi di tutti: ci sono gli Stati Uniti, certamente la prima potenza economica al mondo in termini potere di acquisto internazionale ma non in termini di potere d’acquisto interno, e sono di gran lunga prima potenza militare; c’è la Russia, grande potenza militare e media potenza economica, forse più che media disponendo di risorse essenziali come energia e materie prime; e vi è la Cina, grande potenza economica e media potenza militare, ma in crescita. Vi sono però anche altri Paesi che spingono per emergere. Non ne vediamo ancora la materializzazione plastica davanti agli occhi perché la storia è un continuo divenire. Ci sarà un momento in cui questi eventi si raccoglieranno in una massa critica e appariranno ai nostri occhi in tutta la loro evidenza.
Quando parliamo di BRICS, tendiamo a semplificare la complessità dei rapporti tra questi Paesi. Ad esempio, tra Cina e India non corre buon sangue e vi sono, ad esempio, territori contesi. Ancora, nonostante l’opera di mediazione cinese che ha portato ad una “distensione” nei rapporti tra Arabia Saudita e Iran, è innegabile che questi siano in concorrenza in quanto potenze regionali nel quadrante mediorientale. Basterà l’obiettivo di uscire dalla sfera di influenza statunitense e contare di più nell’economia globale a tenere insieme Paesi che hanno profonde divisioni?
Il mondo plurale significa che ognuno ha la sua soggettività. Il gruppo dei BRICS, ma anche la Shanghai Cooperation Organization (SCO), l’Unione Economica Eurasiatica (UEE) e le altre aggregazioni continentali, sono tutte articolazioni periferiche che hanno un senso nello scenario che stiamo descrivendo. Ciò che li tiene uniti, soprattutto il gruppo dei BRICS, che è il gruppo di testa di questo movimento alternativo all’occidente ma non in opposizione all’occidente medesimo, non è il cemento ideologico. L’unico Paese comunista ideologico, d’altronde, è la Cina.
Cos’è allora? È evidente: il cemento che tiene uniti questi paesi è la sovranità. Nessuno accetta più di essere subordinato agli interessi altrui. Ognuno ha la sua storia, le proprie radici, politiche, istituzionali e talvolta ideologiche e contestano agli USA l’intromissione nei loro affari interni. L’idea è quella di poter convivere nel mondo nel rispetto della reciproche diversità.
All’interno di questo gruppo vi è, dunque, il collante della difesa della sovranità e il rigetto del Washington consensus, che non è altro che la via capitalistica all’uscita dal sottosviluppo ed è, però, percepito come un percorso mistificatorio in quanto promette ma non mantiene: in cambio di subordinazione politica ed economica non consente davvero l’uscita dalla povertà. Invece, questo mondo guarda, sebbene non esclusivamente, al Beijing consensus, la via cinese, che presume per il suo realizzarsi delle condizioni non sempre presenti in altri Paesi, ma rappresenta comunque una via alternativa. La Cina, che non è certamente il paradiso in Terra, è tuttavia percepita come quella realtà che è stata in grado, negli ultimi quarant’anni, di far uscire dalla povertà 800-900 milioni di persone.
WASHINGTON CONSENSUS
Espressione coniata nel 1989 dall’economista J. Williamson per indicare l’insieme di politiche economiche condivise in particolare dalla Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti volte a ricreare all’interno delle economie meno industrializzate le condizioni favorevoli per ottenere nel breve termine stabilità e crescita economica attraverso l’adozione delle seguenti riforme: stabilizzazione macroeconomica, liberalizzazione (dei commerci, degli investimenti e finanziaria), privatizzazione e deregolamentazione.
L’espressione è successivamente stata usata abbastanza comunemente con un secondo significato più ampio per riferirsi ad un generale orientamento verso un approccio economico fortemente orientato al mercato (a volte descritto negativamente con il termine neoliberismo o laissez-faire).
All’interno di questo gruppo ci sono Paesi che hanno problemi tra loro, inevitabilmente. Questo è un punto cruciale: il successo dei BRICS e di tutto il Sud globale si misurerà nella capacità di questi due grandi Paesi, Cina e India, di trovare un punto di compromesso.
Intendiamoci. La Cina è il peer competitor degli USA, l’unico. Per essere una grande potenza nel mondo servono condizioni: demografia ed economia, e la Cina ha tutte e due. Quando aveva solo la demografia, non contava nulla e poteva essere addirittura utilizzata come pedina in chiave antisovietica. Adesso che ha aggiunto anche l’economia diventa una minaccia, o può essere dipinta come tale, anche se ha una politica militare essenzialmente difensiva e non offensiva.
L’India che è un Paese mediano, demograficamente importante, che ha tuttavia un’economia che al momento vale 1/5 di quella cinese e rischia di cadere nella trappola americana e di diventare una pedina anticinese. I problemi che questi due Paesi hanno, in realtà, sarebbero facilmente risolvibili se riuscissero ad accantonare una distorta forma di nazionalismo. In tal senso, è la Cina che deve fare il passo più importante. Ad esempio, va detto che sui territori contesi da Pechino e New Delhi, dall’Arunachal Pradesh al sistema di valli alle pendici dell’Himalaya, non incide più una visione strategica, i tempi son cambiati e la Cina potrebbe rinunciare alle sue rivendicazioni in cambio di un’alleanza “cementificata” dal progetto di costruzione di un’alternativa globale, diciamo così.
Ho suggerito ai miei interlocutori cinesi di riflettere su questo punto e li ho trovati d’accordo. Le ragioni per cui il partito non ha ancora risolto questo nodo, francamente, mi sfuggono.
Per quanto riguarda il Medio Oriente: Iran e Arabia Saudita sono solo due delle potenze regionali, ce ne sono anche altre che possono essere considerate alla pari, come Egitto e Turchia, mentre gli altri Paesi sono minori seppur importanti. Credo che il riavvicinamento tra Teheran e Riyad, dopo un’interruzione dei rapporti che tuttavia non è durata a lungo se non qualche anno, sia il risultato della consapevolezza da parte di entrambi dell’importanza della ripresa dei rapporti bilaterali, perché per quanto gli uni siano sciiti e gli altri sunniti, nell’ottica del confronto con l’occidente sono pur sempre musulmani. Qui la Cina, con il suo ruolo di mediazione, si è rivelata potenza di pace e le ragioni sono essenzialmente politiche e strutturali: la Cina mira ad evitare i conflitti perché la sua crescita dipende dalla crescita dell’economia e quindi dalla domanda interna e dai commerci. Un conflitto che la coinvolgesse direttamente segnerebbe la fine di questo successo. E anche un conflitto che non la coinvolgesse direttamente sarebbe una spina nel fianco. Pensiamo all’Ucraina. Non è un caso che, se non proprio ad avanzare una vera propria proposta di pace, almeno ad elaborare una piattaforma di analisi sui cui le parti avrebbero potuto ragionare per un compromesso, sia stata proprio Pechino, dimostrando di avere sensibilità per la pace. Il Medio Oriente, tuttavia, vive una situazione ancora più complessa. Qui, la mediazione tra palestinesi e israeliani è impossibile da parte cinese. Pechino, certamente, potrebbe offrire ai palestinesi la ricostruzione dei loro territori martoriati. Ma ad Israele non può offrire nulla, perché è un Paese troppo legato agli Stati Uniti ed è impensabile che possa essere Pechino a mediare tra palestinesi da una parte e Israele con USA dall’altra.
Alcuni analisti ritengono che vi sia una regia tra Iran, Russia e Cina sul quadrante mediorientale. Lei vede una forma di coordinamento nella loro azione?
Questi Paesi hanno una calamita che li unisce. Cina e Russia si sono riavvicinati dopo tanti anni e, ammesso e non concesso che la Russia sia erede dell’Urss, mentre una volta questi Paesi erano certamente accomunati dall’ideologia oggi lo sono dagli interessi: la Cina ha bisogno di gas e petrolio per sostenere la sua economia, mentre la Russia importa ogni tipo di merce, beni finiti di ogni genere provenienti dalla fabbrica del mondo. Tutto questo è impreziosito dal bisogno di contenere la pervasività imperiale americana, quindi da ragioni politiche. Questo non significa che la Russia sia subordinata alla Cina e, tantomeno, il contrario.
Allo stesso modo, i rapporti tra Russia e Iran e tra quest’ultimo e la Cina si basano sulla constatazione reciproca della tutela dei rispettivi interessi.
Iran e Russia tradizionalmente sono sempre stati distanti. La Russia al tempo degli Zar e poi anche successivamente ha rosicchiato via via sempre più territori allo Scià di Persia. Perciò gli iraniani sono sempre stati diffidenti nei confronti dei russi. Persino nel secondo dopoguerra, i sovietici si erano impadroniti del nord del Paese e c’era voluta una forte pressione americana per farli andar via nell’Azerbaigian iraniano in particolare.
Tra Iran e Cina, egualmente, c’è una distanza infinita. Se ci sono due Paese al mondo diversi in termini di valori e di investimenti ideali, questi sono Cina e Iran. L’Iran è un Paese centrato sull’Islam, quindi su una visione religiosa e messianica della vita individuale e di popolo. La Cina, come sappiamo, è l’essenza del pragmatismo, non vorrei dire materialismo perché si rischia di fare confusione: la Cina è una sintesi complessa di varie filosofie e tradizioni, dal confucianesimo al taoismo, dal buddismo al culto degli antenati, ma certamente non un Paese nel quale la maggioranza della popolazione crede in un dio creatore dell’universo che si occupa della loro vita e del loro futuro. Tuttavia, in questo momento gli interessi dei due Paesi li avvicinano.
Tutto questo per dire che questi tre Paesi sono accomunati dall’interesse di contenere la minaccia bellicista dell’occidente a guida americana. L’unione fa la forza, come si dice.
Sulla non risposta iraniana in merito alla vicenda di Gaza cosa ci può dire?
Se gli Stati Uniti avessero avuto interesse a coinvolgere l’Iran in questa vicenda l’avrebbero già fatto, ad esempio con un “false flag”. Avrebbero provocato l’Iran fino a farlo intervenire.
Va detto che, normalmente, la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente coincide con quella di Israele, definito come il 52° Stato federato degli USA o il 51°, a seconda se contiamo o meno il Regno Unito. Mai ci sono stati due Paesi così interconnessi, tanto che qualcuno arriva addirittura a ritenere che sia Israele a controllare gli Stati Uniti: nessuno può fare politica negli USA avendo contro l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), verrebbe fatto a pezzi. Ad esempio, anche JFK Junior, candidato indipendente alla presidenza, mentre sull’Ucraina ha manifestato posizioni critiche rispetto alle responsabilità statunitensi per quanto successo, sul Medio Oriente è molto cauto.
Ricordo solo che al tempo di Trump, gli USA hanno fatto tre cose molto importanti a favore di Israele: il riconoscimento delle alture del Golan come possedimenti israeliani, mentre per il diritto internazionale appartengono alla Siria; il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele invece di Tel Aviv, mentre per il diritto internazionale rimane Tel Aviv e Gerusalemme ha lo statuto di corpus separatum; infine, il riconoscimento degli insediamenti coloniali israeliani, a danno dei palestinesi.
Tuttavia, anche se raramente, non sempre Stati Uniti e Israele sono d’accordo. Qualcosa è cambiato: Israele vorrebbe il coinvolgimento di altri Paesi, l’Iran in particolare che è il nemico più identificabile e provocabile dell’area, perché l’allargamento del conflitto su scala regionale relativizzerebbe quanto sta avvenendo a Gaza. Mentre per gli USA un coinvolgimento dell’Iran significherebbe incendiare il Medio Oriente. Lo stretto di Hormuz verrebbe certamente bloccato e il 20-30% del flusso di petrolio a livello mondiale transita da lì, il prezzo del petrolio andrebbe alle stelle e l’inflazione riprenderebbe il suo corso, l’economia e la Borsa americana ne risentirebbero pesantemente. Inoltre, Joe Biden ed il suo partito verrebbero fortemente danneggiati alle elezioni di novembre. Non vi è quindi alcun interesse da parte di Washington a veder coinvolti altri Paesi, men che meno l’Iran.
Le chiediamo ancora un paio di precisazioni su questo tema. La prima riguarda la tesi di alcuni analisti, i quali fanno riferimento al fatto che uno dei problemi principali per l’Iran è che la sua produzione di petrolio è concentrata in pochi siti, molto facili da riconoscere e da colpire e, di conseguenza, questo è un forte rischio per la stabilità interna del Paese, motivo per il quale Teheran sta andando verso situazioni di proxy war evitando un coinvolgimento diretto. La seconda è legata al rapporto Iran e Arabia Saudita: alcuni ritengono che, data l’antica diffidenza, per i sauditi rappresenti più un pericolo l’Iran che non gli Stati Uniti. Tutti gli avvicinamenti ai BRICS, in tal senso, rappresenterebbero il tentativo di negoziare con Washington una maggior protezione.
Intanto, diciamo che l’Iran non ha alcun interesse a intervenire, l’avrebbe già fatto. L’Iran è sciita e Hamas è sunnita. Sicuramente, quest’ultimo è finanziato in piccola parte anche dall’Iran ma lo è, soprattutto, dalle monarchie del Golfo e dall’Arabia Saudita, storicamente alleati degli americani.
Gli iraniani non hanno alcun interesse perché temono, come giustamente osservato, danni pesanti alla propria economia e alla propria infrastruttura e quindi cercano di evitare di essere coinvolti, pur manifestando come possono il loro disappunto. In ogni caso, hanno una temibile forza di deterrenza. Se fossero attaccati potrebbero far molto male grazie a una dotazione missilistica non intercettabile e in gradi di colpire a distanza. Se gli americani avessero visto un qualche vantaggio o una scarsa capacità di reazione lo avrebbero già fatto, come in Iraq, Siria, Libia, Serbia. Con l’Iran non possono permetterselo, a prescindere che dietro vi siano o meno i russi.
Per quanto riguarda la seconda domanda, a mio avviso, il mondo emergente si sta svegliando. L’Arabia Saudita ha dimostrato più volte di aver il coraggio di prendere le distanze da vincoli di subordinazione che appartengono al secolo passato nei confronti della Gran Bretagna prima e degli Stati Uniti oggi. I suoi interessi sono regionali. È vero che l’Iran è sciita ma pur sempre musulmano. Non ci sono contrasti fondamentali tra i due. C’è invece il bisogno di trovare un compromesso, così come con altri Paesi dell’area come Turchia ed Egitto.
Io vedo un Sud del mondo che, anche in chiave regionale, si sta facendo strada. L’Arabia Saudita è entrata nei BRICS con il placet della Russia e dell’india. L’India fa parte anche dello SCO, nonostante le difficoltà di interazione con la Cina, e ciò significa che capisce che è un Paese povero, che fa parte del mondo emergente e ha bisogno di commerciare con tutti. Ecco che l’elemento unificante non è ideologia. New Delhi ha coscienza che è il prodotto dello sfruttamento coloniale e sente un legame profondo con le altre nazioni con un passato coloniale al servizio delle oligarchie occidentali e fondamentalmente anglofone.
Eccellenza, in chiusura, accorpiamo in un’unica domanda la richiesta di un suo commento sulle condizioni di salute dell’economia cinese, sul clima da guerra fredda e le relazioni Europa/Cina e, infine, sulla situazion di Taiwan.
Cominciamo con Taiwan. Le ultime elezioni sono state vinte da un certo William Lai con un passato indipendentista e dal Partito democratico progressista con il 40% dei voti. Si tratta di un partito indipendentista per cui in molti vedono il pericolo di un acuirsi della contrapposizione con la Repubblica popolare. In realtà, Lai faceva già il Vicepresidente dell’amministrazione uscente guidata da Tsai Ing-wen che ha governato con percentuali che andavano oltre il 50%. Nonostante questa maggioranza schiacciante, non è stata intrapresa alcuna iniziativa in favore dell’indipendenza, che è l’unica ipotesi che potrebbe spingere il Partito Comunista di Pechino a passare alle vie di fatto. Precedentemente, Wen aveva vinto le elezioni con una maggioranza superiore al 50% anche in parlamento: queste elezioni indicano che il sentiment popolare a favore dell’indipendenza è diminuito.
Ricordo che Taiwan si definisce Repubblica di Cina, mentre Pechino Repubblica Popolare di Cina. Una situazione per la quale nessuna delle due amministrazioni controlla tutto il Paese ma entrambe si definiscono unica Cina. Non vi è ragione, dunque, perché la dirigenza di Taiwan dichiari l’indipendenza scatenando un’invasione comunque difficile, le forze armate taiwanesi sono infatti molto agguerrite. Di fatto, Taiwan è indipendente. Potrebbe farlo solo se sospinta dagli americani che hanno, invece, tutto l’interesse a fermare la locomotiva cinese ma solo attraverso una guerra per procura. Anche perché due potenze nucleari non si confrontano direttamente. Tuttavia, i taiwanesi sono cinesi e non lo faranno.
Per quanto riguarda la salute dell’economia cinese, durante gli otto giorni della riunione tenutasi a inizio marzo chiamata “lilanghui”, Due Sessioni, che ha visto riunite le due assemblee, l’Assemblea Nazionale del Popolo e la Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese, sono state messe a punto diverse questioni. È stato definito tasso di crescita dell’economia cinese previsto anche per il 2024 al 5% come per lo scorso anno. La Cina è cresciuta del 5,2%, più di quanto aveva programmato e smentendo le previsioni occidentali.
Dovete tenere presente che, al di là dell’ideologia, il livello di professionalità della dirigenza cinese è molto alto. Da sempre sapere e potere sono andati paralleli, dai tempi della Cina imperiale e dei mandarini. Dunque, l’economia cinese crescerà ancora del 5%, poco più o poco meno. In ogni caso, per esser la più grande economia del mondo in termini di potere d’acquisto interno è una percentuale piuttosto alta. Certo che ci sono dei problemi! E sono fondamentalmente centrati su un’errata programmazione dei bisogni immobiliari. Le grandi imprese immobiliari, che si trascinano dietro debiti e investimenti sbagliati, hanno fatto male i calcoli, reputando che molti più milioni di contadini dovessero trasferirsi nelle città. Questo non è avvenuto o non avvenuto con il ritmo programmato. Tuttavia, le case sono state costruite così come le infrastrutture, tanto che la Cina è il Paese più infrastrutturato del mondo. Io condivido la tesi di chi sostiene che la base della crescita economica sono le infrastrutture. Dunque, l’economia cinese è un’economia vibrante e robusta che ha capito che oggi deve investire anche sull’autonomia tecnologica, visto il confronto con USA. Non si investe più nell’interazione commerciale tra i due mondi e gli USA stanno traducendo in sanzioni e provvedimenti diretti e indiretti la lotta alla crescita del Paese che, in questo momento, è l’unico in grado di sfidare l’unipolarità egemonica americana. Su queste basi, la Cina sta cercando di investire quanto più sulle nuove tecnologie e sulle nuove scienze. Tuttavia, non avendo una prospettiva imperiale sostitutiva dell’imperialismo americano, Pechino resta disposta al dialogo e allo scambio su ogni piano.
Le Due Sessioni sono un momento di grande importanza per la politica cinese e internazionale. Nel corso dell’evento, il Partito comunista cinese presenta il rapporto di lavoro e svela le proprie strategie, alla presenza dell’Assemblea Nazionale del Popolo (ANP) e della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese (CPCPC). Il compito di questi due organi è quello di discutere e approvare le politiche che il Partito intende portare avanti nel corso dell’anno.
L’ANP è l’unica camera legislativa all’interno della RPC. È composta da circa 3000 delegati eletti a suffragio indiretto. L’ANP vede tra le proprie prerogative quelle di emanare una nuova legislazione, approvare il bilancio del governo, modificare la Carta costituzionale ed eleggere le cariche più alte dello Stato e del sistema giudiziario.
La CPCPC rappresenta le diverse componenti politiche della società cinese. Se l’ANP è la più alta istituzione statale della Repubblica popolare, il ruolo della Conferenza è invece di secondo piano. Il PCC opera un rigido controllo sul margine di azione delle fazioni, che nelle Due Sessioni hanno come scopo principale quello di rappresentare la coesione tra le differenti anime.
Per quanto riguarda l’Europa, essa ha soltanto una valenza economica e commerciale per la Cina, in quanto vassalla degli Stati Uniti dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale e non è una protagonista della scena politica e militare internazionale. Siamo di certo un territorio di Paesi avanzati, con un welfare ancora diffuso. Certo, abbiamo bisogno di dialogare e commerciare con il resto del mondo. Non possiamo più farlo con la Russia, come è evidente, che garantiva la nostra competitività industriale. Venuta meno la Russia, la Cina diventa quindi molto importante, soprattutto per la Germania.
L’aggancio con la Cina è per il momento altalenante, ma va avanti. D’altronde, gli stessi americani non hanno definitivamente interrotto gli scambi commerciali con la Cina: ricordo che l’interscambio tra Cina e Usa è stato di circa USD 700 mld lo scorso anno e in Cina ci sono ancora circa 70.000 imprese americane, in Cina si producono il 60% dei beni prodotti al mondo. Non è quindi un sistema economico di cui si può fare a meno. In tal senso, al di là della narrazione politica, le grandi corporazioni finanziarie americane non hanno interesse ad interrompere questo rapporto e non hanno mai abbandonato la speranza di “normalizzare” la Cina, consentendo così al sistema capitalistico occidentale di penetrare il sistema cinese. Teniamoci, dunque, aperta la porta dell’interlocuzione finanziaria, aspettando il momento in cui anche la Cina, come dice Francis Fukuyama, approderà necessariamente all’economia di mercato.
Il libro che chiude questo scritto è l’ultimo a firma di Alberto Bradanini, Cina. L’irresistibile ascesa.
La Cina, riporta la sinossi, è un Paese immenso e dalla storia plurimillenaria, ancora poco conosciuta nella sua complessità. Questo libro, opera ambiziosa e non effimera, scava alle radici della civiltà cinese e aiuta a comprendere non solo politica ed economia del gigante orientale, ma anche il modo di pensare dei suoi abitanti e il loro rapportarsi con il mondo. La lunga esperienza dell’autore sul campo, come console generale a Hong Kong e ambasciatore d’Italia a Pechino, conferisce al testo particolare autorevolezza e spessore.
Lugano, 28 aprile 2024
Approfondimento a cura di: Alex Pezzoli e Gilberto Moretti