(foto da: Spider-Man, film 2002)
«Ma quella era Kyoto, dove le Neo Persone erano di casa, dove quelli come lei svolgevano attività utili e a volte erano addirittura tenuti in considerazione. Non umani, certo, ma nemmeno una minaccia come erano visti dalla gente di questa cultura primitiva e basilare. Di sicuro non erano diavoli, come mettevano in guardia i grahamiti dai loro pulpiti, e nemmeno le creature senz’anima che qualche monaco buddhista immaginava sputate dall’inferno; per costoro erano creature incapaci di avere un’anima o un posto nel ciclo della rinascita proteso al Nirvana. Non erano neanche un affronto al Corano, come sostenevano le Fasce Verdi. I giapponesi erano pragmatici. A una popolazione di vecchi serviva la maggiore varietà possibile di giovane manodopera, non era peccato avere raggiunto lo scopo creandoli in laboratorio e per farli crescere in vivai-scuola. I giapponesi erano pragmatici.»
(P. Bacigalupi, La ragazza meccanica)
All’indomani della conferenza di Glasgow COP26 sui cambiamenti climatici che si è svolta dal 31 ottobre al 12 novembre, lo scritto di oggi punta a mettere sotto la lente di ingrandimento le dinamiche di questo rinnovato impeto green.
COP26
COP sta per Conferenza delle Parti, e quella di quest’anno è la numero 26. Funzionari di 197 paesi si riuniscono in un unico luogo per quindici giorni di negoziati volti a risolvere la crisi climatica. I leader mondiali danno il tono, poi i negoziatori elaborano i dettagli di un comunicato. La COP26 si sarebbe dovuta svolgere nel 2020, ma è stata rinviata a causa della pandemia. Il Regno Unito, che detiene la presidenza di turno insieme all’Italia, ha assunto la guida nell’organizzazione della conferenza.
Posto che nei fenomeni del mondo, naturale, umano, storico, molto raramente un effetto ha solo “una causa” e a problemi complessi non possono corrispondere soluzioni semplici da cognizione infantile, per risolvere i problemi connessi allo sfruttamento sistematico del pianeta non basta impedire ai cattivi di premere il pulsante rosso “arma-fine-di-mondo”. Immagine suggerita dallo spettacolare discorso di apertura del premier britannico Boris Johnson che si chiedeva come agirebbe James Bond contro la minaccia climatica e intervenuto dopo l’altrettanto spettacolare video del dinosauro Frankie che ammoniva il mondo sulla probabile estinzione della razza umana. Il tutto mentre Greta Thunberg già protestava accusando di fallimento la conferenza appena iniziata… That’s Hollywood!
L’agenda era ambiziosa: definire un piano per raggiungere emissioni nette pari a zero (Net Zero) entro la metà del secolo al fine di evitare che il pianeta si riscaldi di oltre 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali e per concordare un quadro di aiuti alle comunità in via di sviluppo per adattarsi ai cambiamenti climatici e proteggere gli habitat naturali vulnerabili.
A Glasgow si trattava quindi di formalizzare gli impegni presi con gli Accordi di Parigi del 2015. Tali impegni sono chiamati NDC (Contributi determinati a livello nazionale) ed era chiaro fin da allora che non sarebbero stati sufficienti, pertanto, i Paesi avevano deciso di tornare nel 2020 con NDC “potenziati” (appuntamento rimandato poi al COP26 2021 per via del Covid).
Così, dopo due settimane di negoziati, tutti i 197 paesi partecipanti hanno adottato il cosiddetto patto per il clima di Glasgow, nonostante un intervento all’ultimo minuto dell’India che ha annacquato l’accordo finale passando dal phasing out del carbone al phasing down (da “eliminare gradualmente” a “ridurre gradualmente”).
Tecnologia controversa ed emergente
Joe Biden ha presentato un nuovo rapporto che stabilisce esattamente come gli Stati Uniti raggiungeranno lo zero netto entro la metà del secolo e, soprattutto, quali tecnologie saranno nel mix. Ci sono ripetute menzioni di energia nucleare e tecnologie più speculative che possono aspirare carbonio dall’atmosfera, nonostante gli avvertimenti nello stesso rapporto che questo è attualmente molto lontano dall’essere pronto per un dispiegamento su larga scala. Gli Stati Uniti hanno annunciato che avrebbero costruito un piccolo reattore modulare nucleare di prova in Romania per aiutare a decarbonizzare e garantire l’approvvigionamento energetico del paese. Sebbene i mini reattori siano ancora una tecnologia relativamente non provata, promettono di essere più facili da implementare rispetto ai reattori convenzionali, poiché possono essere in gran parte assemblati in una fabbrica in anticipo. Il Regno Unito ha anche affermato che contribuirà con 210 milioni di sterline.
Si tratta quindi di un fallimento o di un esito scontato, al di là dei proclami?
In primo luogo, il fatto che i partecipanti si siano accordati solo su un traguardo che li impegna tutti, senza alcun sotto-obiettivo specifico per ciascun paese, poiché non esiste alcun interesse collettivo mondiale dal punto di vista geopolitico, lascia pensare che si tratti di un accordo che di fatto non mobilita nessuno.
In secondo luogo, se l’obiettivo dell’accordo di Parigi era quello di limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C in questo secolo e di proseguire gli sforzi per limitare il riscaldamento a 1,5°C, le nuove proiezioni di Climate Action Tracker mostrano che anche se tutti gli impegni della COP26 venissero rispettati, il pianeta è sulla buona strada per riscaldarsi di 2,1 o 2,4°C (Cfr. https://climateactiontracker.org/press/Glasgows-one-degree-2030-credibility-gap-net-zeros-lip-service-to-climate-action/).
L’intervento dell’India, sostenuta anche dalla Cina, per modificare la formulazione finale smorza evidentemente l’urgenza di abbandonare il carbone, dovuto non solo all’impossibilità di rinunciarvi o di non compromettere i rapporti con produttori di idrocarburi come Russia e Paesi del Golfo, ma anche per la necessità di ripartire dopo lo stop imposto dalla pandemia ed il riassetto delle catene del valore.
Inoltre, data la necessaria riforma del tessuto industriale e dei metodi produttivi a seguito della pandemia, Germania e Cina temono che le loro manifatture possano essere messe in difficoltà dalla retorica ambientalista degli USA. In tal senso, Pechino, con una mossa a sorpresa alla fine della conferenza, ha firmato una risoluzione congiunta con Washington sul rafforzamento dell’azione per il clima per i prossimi anni. Ciò conviene in particolar modo al Dragone, che ha bisogno di abbassare gli alti tassi d’inquinamento ma ha così il controllo dell’agenda, oltre a far vedere all’opinione pubblica che le due potenze si parlano: difficilmente il governo cinese prenderà provvedimenti in questo settore tali da mettere seriamente a rischio la sua economia, soprattutto ora che la competizione con gli Usa è aperta (Cfr. Petroni, F., Il clima della COP26, Limes online 15.11.2021).
Insomma, al di là degli annunci non sembra che Glasgow sia andata oltre la funzionale spettacolarizzazione di un’emergenza.
Da qualche anno, infatti, non si fa che parlare dell’emergenza legata al “cambiamento climatico” e, negli ultimi mesi, si è arrivati a dire che si tratta di un’emergenza di gravità pari alla pandemia e che potrebbe addirittura giustificare “lockdown energetici” (Cfr. Magni, S., Un lockdown ogni due anni fa bene al clima. Non all’uomo, in La Nuova Bussola Quotidiana, 05.03.2021). Per le Nazioni Unite, esso rappresenta la più grande minaccia alla salute umana della storia e per la sicurezza globale tanto che si ritiene necessario andare verso un nuovo capitalismo sostenibile, una transizione propagandata con il nome di “Green New Deal”.
Il capitalismo della sorveglianza
La “Quarta Rivoluzione Industriale” (digitalizzazione, intelligenza artificiale, internet delle cose) è destinata a riplasmare in tempi brevi l’intero sistema sociale. Questi i suoi tratti fondamentali: i processi automatizzati non solo conoscono i nostri comportamenti ma li formano; tutte le sfere della vita sono messe a valore: grazie alle nuove tecnologie digitali che consentono di monitorare, scandagliare e conoscere i movimenti ed i bisogni degli umani, il valore viene estratto da ogni aspetto della loro vita; in forza della potenza di calcolo degli algoritmi le aziende possono compiere un’analisi predittiva dei mercati, così da prevedere e addirittura determinare ex ante la domanda, programmando l’offerta così da ridurre al minimo, sia lo scarto tra input e output, sia il grado di incertezza dell’investimento; con l’automazione di ultima generazione, Robotic Process Automation, machine learnings technologies, internet of things, algorithm engineering, high frequency trading, ecc., avremo la dominanza del modello di Gig economy, basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, con la fine di rapporti di lavoro stabili.
Da Joe Biden a Xi Jinping, dai liberali britannici ai verdi tedeschi, di fronte all’emergenza climatica, tutti sembrano convinti che l’unica via d’uscita dalla crisi ecologica è di progredire ulteriormente nel processo di modernizzazione verso una sorta di “iper-industrializzazione green” capace di ridurre il proprio impatto ecologico attraverso tecnologie innovative ed una gestione più efficiente: sarà la digitalizzazione del pianeta la salvezza, quella Quarta Rivoluzione industriale che è tra i capisaldi del cosiddetto Grande Reset promosso dal World Economic Forum.
Si deve parlare di passaggio ad un nuovo modello economico e sociale alla cui accettazione è funzionale una narrazione emergenziale: diversa divisione del lavoro, diversa composizione delle classi, diversi blocchi sociali, diversa ideologia, diversi assetti statuali, diversi equilibri geopolitici (Cfr. Side Views, Karma Police, in https://brightside-capital.com/2021/01/25/karma-police/; cfr. Zuboff, S., Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, 2019). Modello che si affermerà quando, dal conflitto in seno ai dominanti, emergerà come egemone la fazione che meglio asseconderà questo mutamento.
Se questa è la base su cui l’élite globale, quella stretta attorno al think tank di Davos, è d’accordo è pur vero che vi sono elementi di scontro, tanto che non solo Vladimir Putin ma neppure Xi Jinping hanno partecipato di persona alla COP26, così come al vertice di Roma.
Il più importante è che la transizione green, lungi dall’essere pacifica e indolore, sta creando uno scontro crescente di natura geopolitica e ambientale tra le Nazioni coinvolte nell’estrazione, raffinazione e sfruttamento economico ed industriale dei prodotti derivanti dall’impiego delle materie prime che sono alla base delle nuove tecnologie. L’alta tecnologia richiede minerali, alcuni dei quali scarsi, ad esempio le terre rare, per produrre i dispositivi elettronici e quelli legati alla produzione delle rinnovabili. Potrebbero essercene abbastanza per un po’ di tempo, ma alcuni di essi possono essere estratti solo in pochi posti in tutto il mondo (Cfr. Pitron, G., La guerre del mataux rares – la face cachée de la transition energetique et numerique).
Da ciò seguono molti interrogativi: se la transizione green è necessaria dove troveremo i metalli necessari? Quale sarà il loro costo sociale, umano ed ambientale? Alcuni stati avranno una posizione dominante nei mercati di questi metalli? In un mondo in transizione con una popolazione di otto o nove miliardi di persone, ci saranno rischi di conflitti armati?
Ci soffermiamo in particolare su due questioni.
Qual è la posta in gioco ambientale?
Il danno causato all’ambiente deriva principalmente dai miliardi di interfacce (tablet, computer, smartphone) che ci aprono la porta di Internet. Viene altresì dai dati che produciamo: le informazioni, trasportate, immagazzinate ed elaborate in grandi infrastrutture che consumano risorse ed energia, permetteranno di creare nuovi contenuti digitali per i quali occorreranno sempre più interfacce. Le tecnologie digitali sarebbero responsabili di quasi il 4% delle emissioni globali di biossido di carbonio, poco meno del doppio del settore dell’aviazione civile mondiale.
Per meglio chiarire: negli anni 90 il Wuppertal Institute presentava un nuovo modello di calcolo dell’impatto materiale dei nostri modelli di consumo: il material input per service unit (Mips), cioè la quantità di risorse necessarie per fabbricare un prodotto o un servizio: un metodo che consente di guardare non solo a ciò che esce in termini di emissioni ma anche a quanto entra in termini di risorse materiali in un prodotto.
Ciò si traduce in una cifra detta “zaino ecologico”: ad esempio, un anello di pochi grammi d’oro ha un Mips di tre tonnellate. Anche i servizi possono essere così misurati: 1 km in macchina e un’ora di televisione utilizzano rispettivamente 1 e 2 kg di risorse. Nel settore delle tecnologie digitali, dove vengono utilizzati vari componenti che contengono metalli rari, difficili da estrarre dai minerali che li contengono, il peso dello zaino ecologico diventa straordinariamente elevato: il Mips di un chip elettronico è di 32 kg di materiale per un circuito integrato di 2 gr, cioè un rapporto di 16.000 /1. Di fatto, la tecnologia digitale sta facendo esplodere la nostra “impronta materiale”, con miliardi di server, antenne, router e hotspot wi-fi in funzione. Tra queste strutture, grande importanza occupano i data center: enormi labirinti di cemento e acciaio pieni di server che si moltiplicano in funzione del diluvio di informazioni prodotto dal nostro universo digitale.
L’internet of things, inoltre, accelera l’attività non umana: in termini di dati, dal 2012 il non umano ha già iniziato a produrne più degli umani. Interessante è guardare a quanto accade nel settore finanziario, dove la speculazione automatizzata rappresenta il 70% delle transazioni globali e fino al 40% del valore dei titoli scambiati. Accano ai fondi attivi, rispetto ai quali la maggior parte degli arbitraggi è ancora appannaggio degli esseri umani, si moltiplicano i fondi passivi, per i quali le operazioni finanziarie sono affidate ad algoritmi: qui troviamo BlackRock, Vanguard, Renaissance Technologies, Two Sigma. In una ricerca di InfluenceMap, questi fondi guidati dalle macchine distruggono l’ambiente più di quelli guidati dagli umani: ad es. i fondi passivi gestiti da BlackRock registravano una intensità di carbonio di oltre 650m tonnellate per milione di dollari, contro le 300 per milione dei fondi attivi. I fondi algoritmici, impostati per ottenere profitto piuttosto che per prevenire lo scioglimento dei ghiacci, accelerano quindi la crisi climatica (Pitron, G., Quand le numérique détruit la planète, in Le Monde diplomatique, ottobre 2021).
E la posta in gioco geopolitica?
L’annuncio da parte di Xi Jinping, nel settembre dello scorso anno, di un piano di uscita dai combustibili fossili, in un momento storico in cui le emissioni sono ancora in forte crescita, è servita ad anticipare i suoi più acerrimi rivali, con gli Stati Uniti di Donald Trump fuori dagli Accordi di Parigi ma poi ritornati in gioco con l’elezione di Joe Biden.
Infatti, il piano di uscita dai combustibili fossili annunciato da Xi non si basava su un argomento morale riguardante i depredamenti ambientali causati dal regime estrattivo e industriale, né era una risposta alle manifestazioni della società civile o il desiderio di inquadrare o abolire il regime di sfruttamento del capitalismo: l’obiettivo era ed è egemonizzare la nuova rivoluzione industriale, peraltro controllando le materie prime che ne costituiscono la base materiale.
L’Europa e gli Stati Uniti hanno chiuso le loro miniere di metalli rari negli anni ’80 e ’90 per evitare l’inquinamento causato dai procedimenti legati alla loro separazione. Tuttavia, i paesi occidentali continuano a consumare questi metalli. La Cina, dal canto suo, detiene riserve colossali e negli ultimi vent’anni ha risalito le catene del valore, trattenendo ora più minerali per produrre e vendere autonomamente le sue tecnologie verdi. La Cina, infatti, è responsabile del 60% della produzione mondiale di pannelli fotovoltaici e del 70% della produzione mondiale di batterie per auto elettriche (Montanari, F., Senza miniere non decolla l’economia verde, inlavoce.info, 20.04.2021).
In apparenza comune a tutte le parti in causa, la decarbonizzazione è quindi un campo di battaglia su cui le potenze si confrontano per l’egemonia globale.
A inquadrare il livello dell’acutizzazione dello scontro in atto, in un’intervista al Financial Times del 18 ottobre 2021, il segretario generale Jens Stoltenberg ha rivelato che nell’estate del 2022 la NATO adotterà il suo nuovo concetto strategico per il contenimento della Cina. A questo si aggiunge il patto AUKUS nell’Indo-Pacifico tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, l’emergente Quadrilateral Security Dialogue (QUAD) tra Stati Uniti, Australia, Giappone e India, nonché una ampia rete di alleanze e partnership statunitensi (Cfr. Nato to expand focus to counter rising China, in Financial Times 18.10.2021).
In conclusione, non sappiamo se la crisi climatica sia davvero di natura antropica o dipenda da fattori indipendenti dalla volontà dell’uomo ma, certamente, la soluzione proposta dall’uomo con la transizione green a trazione digitale rischia di rendere il pianeta ancora più inquinato e, con la prospettiva di un passaggio a un’era di scarsità, le grandi potenze stanno esclusivamente manovrando per il controllo delle risorse necessarie all’egemonia globale e chiudere la porta ai concorrenti, con buona pace di Greta Thunberg e… di James Bond.
Il romanzo a chiusura di questa Side View è di Paolo Bacigalupi. Scrittore statunitense di origini italiane in La ragazza meccanica (Multiplayer Edizioni), acclamatissimo romanzo di esordio climate-fi e biopunk, intreccia un racconto di intrighi tra mega-corporazioni e politici che lottano per il controllo dell’ultima banca di semi intatta, complicato da Emiko, una “windup”, una neo-persona giapponese geneticamente modificata, creata per essere una bambola di piacere, che cerca di liberarsi dalla sua condizione di schiava. Ci racconta un futuro in cui le fonti energetiche sono terminate e gli esseri umani devono fare i conti con le scelte dei loro predecessori. Gli oceani minacciano di allagare le terre emerse, nessuno ha investito in fonti rinnovabili e l’unica fonte energetica rimasta è quella cinetica che viene accumulata tramite kino-molle.