(foto: The atomic cafè, film 1982)
«Il soldato russo si arrampicava nervosamente su per il fianco accidentato della collina, imbracciando il fucile. Lanciava occhiate intorno, umettandosi le labbra inaridite, teso in volto. Di tanto in tanto sollevava una mano guantata e si asciugava il sudore dal collo, sollevando il colletto della camicia.»
(Philip K. Dick, Modello Due)
La guerra della Russia sull’Ucraina e i Vienna Talks per ripristinare il patto nucleare con l’Iran del Piano d’azione globale congiunto (JCPOA: Joint Comprehensive Plan of Action) sono diventati sempre più intrecciati nel definirsi del nuovo ordine geopolitico mondiale. Con lo scritto di oggi proviamo a capire perché i colloqui viennesi sono così importanti in questa congiuntura internazionale.
Come avevamo riportato nella Side View Dervishes Tourners, l’amministrazione Biden aveva espresso interesse a ripristinare l’accordo sul nucleare e a fare delle concessioni a Teheran. Prima dell’inizio della guerra, sembrava che effettivamente si fosse vicini ad un compromesso tra le diverse potenze coinvolte, vale a dire il cosiddetto P5+1: un gruppo di sei potenze mondiali che nel 2006 ha unito gli sforzi diplomatici con l’Iran per quanto riguarda il suo programma nucleare, composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia – più la Germania.
LE TAPPE DEL PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANO 1957 Washington e Teheran firmano un accordo di cooperazione per l’uso civile dell’energia atomica. L’anno seguente l’Iran entra nell’Aiea. Nel 1967 entra in funzione il primo reattore iraniano. Nel 1968 viene firmato il trattato NPT (Non Proliferation Treaty). Negli anni 70, lo Shah intraprende una campagna per estendere il programma atomico e inizia a prendere accordi anche con altri Paesi oltre agli Usa. Gli Stati Uniti iniziano a temere di aver fatto un errore fornendo tecnologia nucleare a Teheran. Nel 1979, la Rivoluzione Islamica che porta alla deposizione dello Shah e all’instaurazione del regime degli Ayatollah, ferma per un periodo di alcuni anni il programma atomico iraniano. Gli anni ’90 vedono rinascere i piani di sviluppo nucleare dell’Iran che stipula protocolli d’azione con Pechino con Mosca per la ristrutturazione e ultimazione delle proprie infrastrutture atomiche. Il 14 marzo del 2000 il presidente Bill Clinton firma le prime sanzioni verso chi aiuta il programma nucleare iraniano. Gli anni 2000 sono gli anni delle sanzioni e dei rapporti di intelligence e dell’Aiea sull’arricchimento del nucleare iraniano a fini militari. Il 14 luglio del 2015 viene raggiunto un accordo, il Joint Comprehensive Plan of Action, il quale prevede che l’Iran riduca di due terzi il numero delle centrifughe e limita la sua attività di ricerca e sviluppo. Nel 2018 gli Stati Uniti di Donald Trump, sotto richiesta di Israele, annunciano unilateralmente l’uscita dall’accordo, rilanciando le sanzioni economiche contro l’Iran. |
Sebbene la Russia abbia sempre svolto un ruolo chiave nei negoziati nucleari multilaterali con l’Iran, la sua recente invasione dell’Ucraina sta gettando un’ombra sugli attuali colloqui a Vienna, che mirano a far risorgere il Piano d’azione congiunto globale. Con i vari interventi in Medio Oriente prima, l’intervento a sostegno del governo in Kazakistan poi ed ora la guerra aperta con Kiev, le relazioni tra Mosca e l’Occidente, infatti, hanno raggiunto il punto di svolta più pericoloso dalla caduta dell’Unione Sovietica.
Come riporta Atlantico Quotidiano, a fronte delle resistenze iraniane, l’amministrazione Biden ha chiesto l’aiuto degli emissari di Mosca e con loro coordina le sue politiche nei confronti di Teheran (Cfr. Punzi, F., Sull’orlo di una guerra con la Russia, Biden si affida a Putin per accordarsi con l’Iran, Atlantico Quotidiano, 05.03.2022). Cosa significa questo approccio?
Il ministero degli Esteri iraniano ha dichiarato lunedì che un progetto di accordo è quasi pronto, ma restano alcune questioni chiave che l’Occidente non ha concordato.
Apparentemente, i punti critici includono:
– la richiesta dell’Iran di revocare più sanzioni statunitensi di quante Washington sia disposta ad accettare, compresa la designazione del Corpo d’élite delle Guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) tra le organizzazioni terroristiche, che potrebbe benissimo essere un problema per Washington;
– la richiesta dell’Iran di una ferma garanzia costituzionale che un futuro governo degli Stati Uniti non rinuncerà all’accordo, che necessiterebbe di un complicato passaggio politico in USA e quindi difficilmente esaudibile in quanto occorre la ratifica del Senato.
Sebbene il Presidente Biden abbia promosso sanzioni pesantissime per isolare Putin, il ricorso alla mediazione russa avviene in nome del comune interesse ad impedire che l’Iran si doti di armamenti nucleari, innescando così una corsa al riarmo nella regione e, non secondariamente, nella speranza che l’Iran possa sostituire rapidamente le forniture energetiche russe all’Occidente una volta eliminate le sanzioni.
Dal canto suo, la Russia, per bocca del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ha chiesto agli Stati Uniti garanzie scritte che il rilancio del JCPOA sia subordinato al fatto che la Russia possa mantenere i legami commerciali ed economici con l’Iran esenti dalle sanzioni statunitensi per l’invasione dell’Ucraina.
A questo punto, è utile provare a delineare quali sono i possibili obiettivi russi relativamente al JCPOA. Comprendere l’attuale atteggiamento del Cremlino richiede uno sguardo chiaro al suo passato approccio al programma nucleare iraniano. La Russia ha svolto un ruolo importante nel rilancio di quest’ultimo, ma la crisi ucraina ha complicato la situazione. Sebbene Mosca abbia sempre preferito un Iran non dotato di armi nucleari, non condivide necessariamente obiettivi, metodi o limiti occidentali su questo tema. Il Cremlino ha da un lato sostenuto le sanzioni contro Teheran, dall’altro lato ha contemporaneamente lavorato per diluirle, in quanto dannose ai suoi sforzi per espandere il commercio bilaterale con la Repubblica islamica, sostenendo che le preoccupazioni occidentali erano esagerate.
In altri termini, la Russia ha usato il suo sostegno alle sanzioni come leva per estorcere concessioni all’Occidente.
Molti analisti hanno concluso che più che temere un Iran nucleare, per Mosca era ed è maggiore la preoccupazione di un Iran filo-occidentale. Come riportato dal New York Times, questo atteggiamento è confermato dall’audio trapelato dell’ex ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, nel quale ammette che le sue controparti russe nei negoziati passati non volevano che un accordo nucleare avesse successo, perché non era nell’interesse di Mosca che l’Iran normalizzasse le relazioni con l’Occidente (Cfr. Fassi, D., Iran’s Foreign Minister, in Leaked Tape, Says Revolutionary Guards Set Policies, New York Times, 25.04.2021). La rivelazione di Zarif mette quindi in evidenza la principale priorità di Mosca.
Per la Russia l’Iran è sicuramente un partner strategico con cui intrattiene legami più o meno stretti, a seconda delle vicissitudini delle relazioni con l’Occidente e del ruolo che la Russia gioca nel bilanciare le alleanze regionali del Golfo Persico. Difatti, la Russia in Medio Oriente segue la strategia di equilibrare le relazioni con tutte le parti, anche tra avversari. In altre parole, continuerà ad avere legami strategici e reciprocamente vantaggiosi anche con le controparti dell’Iran, come Israele e le monarchie del Golfo (Cfr. Ziabari, K, Russia and Iran not as close as they pretend, in Asia Times, 02.02.2022).
Le decisioni politiche di Putin su Ucraina e Iran andrebbero, quindi, lette come manifestazioni di una strategia antioccidentale generale: subito dopo l’annessione della Crimea nel 2014, ad esempio, Mosca ha migliorato le sue relazioni con Teheran a livelli senza precedenti a causa della guerra in Siria intervenendo direttamente nel conflitto nel 2015.
Relativamente ai colloqui sul nucleare, Putin ha sottolineato l’importanza di proseguire le consultazioni tra Russia e Iran, manifestando la volontà di mediare in assenza di qualsiasi contatto diretto tra la parte iraniana e quella americana. Obiettivo di Mosca, però, appare quello di presentarsi come un intermediario chiave nelle dinamiche di potere globale indipendentemente dal fatto che i colloqui diano frutti. Ma non solo.
Guardando all’Iran, vi è chi sostiene che potrebbe sfruttare l’isolamento della Russia dal sistema finanziario globale e dai mercati energetici per rilanciare la propria economia in difficoltà, anche attraverso le esportazioni di energia che riempiono la breccia aperta dalle forniture russe sanzionate. In tal senso, un alto funzionario iraniano, ha fatto notare che l’irrigidimento della Russia con la richiesta di garanzie non è stato “costruttivo” per i negoziati di Vienna. È stato affermato che le richieste di garanzie della Russia agli Stati Uniti, relative al fatto che le sanzioni imposte non avranno un impatto sui legami economici tra Iran e Russia, mirino a ritardare l’accordo in modo che i prezzi globali del petrolio rimangano elevati (Hafezi, P. e Murphy, F., Russia’s demand for US guarantees may hit nuclear talks, Iran official says, Reuters, 05.03.2022). Secondo tale visione, l’Iran, che pompa oltre 2 milioni di barili al giorno, potrebbe aumentare questo numero a 4 milioni e contribuire a ridurre i prezzi globali del petrolio e quindi diminuire la pressione sui paesi dipendenti dal petrolio russo. L’Iran detiene la seconda posizione per riserve di gas naturale al mondo, dietro solo alla Russia. Si trova anche sulla quarta più grande riserva di petrolio accertata del mondo. Ma anni di sanzioni occidentali sulle esportazioni di energia hanno gravemente ostacolato entrambe le industrie, favorendo il mercato nero.
Si dice che, se il JCPOA venisse rianimato, la Repubblica islamica potrebbe rapidamente riemergere come principale esportatore di petrolio e gas, come successo nel periodo successivo alla firma dell’accordo nucleare del 2015, quando l’economia ha registrato un enorme tasso di crescita (+12,5%) nel 2016-17.
Tuttavia, gli esperti ritengono che lo stato di crollo delle infrastrutture energetiche iraniane e il fatto che quasi l’80% del gas naturale che produce sia consumato a livello nazionale significhi che non può sostituire immediatamente le forniture russe. Ciò spiega in parte perché l’Europa esita a imporre sanzioni in piena regola alle esportazioni di energia della Russia, in particolare al suo gas naturale, che rappresenta il 40% delle importazioni europee.
Nonostante la visione che vede l’Iran un possibile attore importante nel mercato dell’energia, una volta raggiunto l’accordo sul nucleare, appaia più che razionale in un’ottica economicista, ci sono poche, se non nessuna, indicazioni che Teheran cercherà di creare nuove coalizioni al di fuori dei suoi legami strategici con Cina e Russia, a prescindere dal risultato dei colloqui.
L’Iran, infatti, è tutt’altro che solo nella regione del Golfo a guardare strategicamente ad Est come alternativa a un Occidente ritenuto infido e fondamentalmente ostile. Come riporta il WSJ, la Casa Bianca ha cercato senza successo di organizzare telefonate tra il presidente Biden e i leader dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti mentre gli Stati Uniti stavano lavorando per creare sostegno internazionale per l’Ucraina e contenere un aumento dei prezzi del petrolio, la stessa motivazione che aveva spinto alcuni alti funzionari statunitensi a recarsi in Venezuela per incontrare rappresentanti del Governo di Maduro (Cfr. Dissenbaum, N., Kalin, S., Cloud, D.S., Saudi, Emirati leaders decline calls with Biden during ukraine crisis, The Wall Street Journal, 08.03.2022).
Tra i motivi del rifiuto di Riad e Abu Dhabi ci sarebbe soprattutto l’atteggiamento dell’amministrazione Biden nel Golfo: ai sauditi, in particolare, pare non sia piaciuto il cambio di passo dem rispetto alla presidenza Trump, con il ritorno a una politica estera basata sul rispetto dei diritti umani piuttosto che sul “business first” del suo predecessore.
Ulteriore motivo di questo rifiuto, come riferisce il WSJ, potrebbe essere dato dalla trattativa in corso con Pechino per utilizzare lo yuan nella vendita di petrolio alla Cina, intaccando così il dominio del dollaro Usa sul mercato petrolifero globale nonché come valuta di riferimento negli scambi internazionali (Cfr. Summer, S., Kalin, S., Saudi Arabia considers accepting Yuan instead of dollars for chinese oil sales, The Wall Street Journal, 15.03.2022). Venerdì 11 marzo, infatti, dopo una riunione in videoconferenza, l’Unione economica eurasiatica (EAEU) e la Cina hanno concordato di progettare il meccanismo per un sistema monetario e finanziario internazionale indipendente. L’EAEU, composta da Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia, sta stabilendo accordi di libero scambio con altre nazioni eurasiatiche e si sta sempre più interconnettendo con la Chinese Belt and Road Initiative (BRI). Il sistema eurasiatico pare avviarsi verso l’adozione di una nuova valuta internazionale, molto probabilmente lo yuan, calcolato come indice delle valute nazionali dei paesi partecipanti, nonché dei prezzi delle materie prime. La prima bozza sarà già discussa entro fine mese (Cfr. Escobar, P., Say hello to Russian gold and Chinese petroyuan, The Cradle, 15.03.2022. Il sistema eurasiatico sarebbe quindi destinato a diventare una seria alternativa al dollaro, poiché l’EAEU potrebbe attrarre non solo le nazioni che hanno aderito alla BRI (il Kazakistan, ad esempio, è membro di entrambe) ma anche i principali attori della Shanghai Cooperation Organization (SCO) e ASEAN, nonché attori mediorientali come l’Iran.
Il fatto cruciale è che nel nuovo paradigma emergente, la Russia non sarà costretta a praticare l’autarchia perché non è necessario: la maggior parte del mondo – come abbiamo visto rappresentato nella lista delle nazioni che si sono astenute sulle sanzioni – è pronta a fare affari con Mosca. Un’alleanza tra Russia e Iran potrebbe probabilmente essere l’equivalente del partenariato strategico Iran-Cina perfezionando l’integrazione di quell’Eurasia che si avvia ad utilizzare quanto prima un nuovo sistema monetario e finanziario indipendente.
In conclusione, l’approccio dell’amministrazione Biden potrebbe rivelarsi incauto rispetto alle mosse di Russia e Cina ed una rinascita del JCPOA non sembra una conclusione così scontata.
In questi giorni drammatici in cui si è addirittura paventato l’utilizzo di armi nucleari, i racconti distopici di Philip K. Dick possono aiutarci a riflettere su quello che per fortuna non è ma che potrebbe capitare al nostro mondo, sempre più sconvolto dal rumore dei tamburi di guerra e dalle preoccupazioni derivanti da innovazioni tecnodigitali in grado di controllare l’uomo e dal progredire dell’intelligenza artificiale in grado di soppiantarlo.
Modello Due, racconto da cui è tratto il film Screamers, descrive un ipotetico mondo futuro dove la Russia ha sferrato un attacco nucleare agli Stati Uniti d’America e questi hanno risposto con un contrattacco scatenando una guerra su vasta scala. Dopo la guerra nucleare, i civili e il governo statunitense si sono trasferiti sulla Luna, lasciando sulla Terra i soldati a combattere una guerra di posizione con l’Armata Rossa. Gli statunitensi per difendersi dalle incursioni russe alle loro fortificazioni hanno sviluppato delle apparecchiature meccaniche in grado di attaccare autonomamente i Russi. Queste però evolvono autonomamente e… ora colpiscono anche l’esercito statunitense.
Lugano, 20/03/2022