My milkshake brings all the boys to the yard
And they’re like, it’s better than yours
Damn right it’s better than yours
I can teach you, but I have to charge
Milkshake – Kelis
Tasty – 2003
“The difficulty lies not so much in developing new ideas as in escaping the old ones”
(J.M. Keynes)
Le recenti sanzioni imposte alla Russia come rappresaglia per la sua invasione dell’Ucraina, oltre a punire il regime di Putin per le sue azioni brutali, hanno evidenziato la posizione precaria in cui si trovano molte banche centrali in questa congiuntura storica che vede il tramonto del sistema monetario globale dei petroldollari. Questo sistema affonda le radici nella linea di ricostruzione post-bellica del 1945 che venne tracciata dagli accordi di Bretton Woods e che fu un compromesso tra i due progetti in campo: da una parte, quello inglese di J.M. Keynes (nella foto qui sotto proprio a Bretton Woods) che favoriva un sistema basato su una valuta neutra (BANCOR) sostenuta da un paniere di commodities e volta a bilanciare gli squilibri commerciali tra i vari Stati, dall’altra, quello statunitense che ebbe maggior peso negli accordi e che era basato su una visione più monopolista incentrata sul ruolo del dollaro all’interno del commercio e della finanza globale (i.e. gli americani avevano la maggior concentrazione di armi, uomini, industrie, oro e petrolio del tempo). Gli americani, dunque, forti delle riserve auree che si stanziavano intorno alle 21.000 tonnellate, nonché convinti del proprio ruolo egemone, decisero di garantire la conversione fissa di un’oncia di oro a fronte di 35 USD, tramite il “Gold Standard” (oggi il prezzo è superiore a 1,850 USD per oncia).
Tuttavia, si noti che non molto oltre la decade successiva, il vigore degli export europei e giapponesi iniziò a pesare sulle tasche di Fort Knox (si veda il box di approfondimento) in quanto i dollari che fuoriuscivano dagli Stati Uniti potevano essere scambiati con il governo USA in cambio di oro, tanto che nel 1965 De Gaulle inviò la Marina a ritirare l’equivalente di 150M USD di oro dall’altra parte dell’Atlantico e lo stesso fece ancora nel 1971, a seguito dell’abbandono da parte del Presidente Nixon (nella foto qui sotto con Fahd ibn Aziz Saud, Ministro degli interni dell’Arabia Saudita) della convertibilità fissa tra dollaro e oro (Gold Standard), inviando una nave da guerra nel porto di New York col mandato di prelevare l’oro di proprietà della Repubblica Francese detenuto presso la Federal Reserve Bank di NY. Ad allora, le scorte di oro degli Stati Uniti si erano già ridotte a 8,000 tonnellate.
FORT KNOX
Fort Knox è una area militare nello Stato del Kentucky (USA) nota perché nella sua area si trova lo United States Bullion Depository, i depositi delle riserve monetarie e delle riserve auree degli Stati Uniti d’America. Con circa 4,578 tonnellate di lingotti d’oro, il valore stimato dell’oro qui custodito è pari a circa 234,439BN USD di dollari (quotazione di gennaio 2022). È famoso anche per essere stato una location del film Agente 007 – Missione Goldfinger (fonte: Wikipedia).
Al fine di mantenere l’egemonia del dollaro di fronte ad uno squilibrio commerciale crescente, occorreva una sorta di ancoraggio con un bene riserva neutrale, per poter inondare il mondo di dollari che sarebbero andati a finanziare l’acquisto delle emissioni di obbligazioni del tesoro americane. E così, poco dopo gli eventi della Guerra di Kippur, il mercato del petrolio divenne de facto l’asset di riserva per il sistema monetario globale: gli Stati Uniti, abbandonando lo standard aureo, guardarono alla penisola araba e raggiunsero un accordo con l’Arabia Saudita affinché commerciasse i barili di petrolio solamente tramite il greenback. Questo sistema ha retto per oltre 20 anni con il prezzo del petrolio oscillante in un range tra i 30 USD e gli 60 USD al barile (grafico sotto) fino alla Grande Crisi Finanziaria del 2008. Con lo scoppio della crisi dei mutui ipotecari negli Stati Uniti e l’abbassamento dei tassi da parte della Federal Reserve, il prezzo del petrolio iniziò a lievitare fino a 180 USD per barile.
Come riporta Fisk, senior reporter della rivista britannica l’Independent, vi sono resoconti attendibili che l’Eurasia, il Medio Oriente e l’Asia stiano lavorando per cercare di svincolarsi dal dover pagare strettamente in dollari per il petrolio. Già dopo la Grande Crisi Finanziaria, infatti, Hank Paulson, Segretario del Tesoro americano, rivelava che i russi approcciarono i cinesi nell’estate del 2008 per coordinare una vendita massiccia di obbligazioni ipotecarie Fannie e Freddie. In seguito alla crisi del 2014, invece, ad esempio, la Cina riaprì lo Shanghai Gold International Board permettendo ai partner energetici russi di convertire gli yuan, ricevuti in seguito a importanti contratti di fornitura, in valuta locale. Più recentemente, Draghi, dopo essersi confrontato con la Casa Bianca, ha dichiarato che i partner europei potranno pagare in rubli la russa Gazprom per l’approvvigionamento di gas, senza esser soggetti a sanzioni. D’altronde, persino Juncker nel 2018 affermava che era assurdo per l’Europa pagare il 98% del proprio fabbisogno energetico in dollari.
Si pensi, inoltre, che nel corso degli ultimi 8 anni abbiamo visto le banche centrali globali acquistare oro per un valore di circa 260BN USD, contro circa 60BN USD su base netta di acquisti ufficiali di titoli del tesoro statunitensi da parte di enti esteri. Quanto suggerito da Keynes 80 anni fa sembra approcciarsi lentamente ma inesorabilmente: una costante accelerazione verso l’allontanamento da questo sistema del dollaro che si è rotto tra il 2005-2008.
Questo riassestamento sismico del sistema monetario globale è stato analizzato a fondo dal team di strategisti sui tassi di Credit Suisse, che è finito sotto i riflettori mediatici per aver sentenziato che questa crisi ha molti paralleli con la fine del Gold Standard sancito dall’amministrazione Nixon: la fine dell’era di una riserva monetaria (il dollaro) parzialmente collateralizzata da una materia prima. Senza stabilità dei prezzi, infatti, verrebbe a mancare il privilegio esorbitante e la supremazia del dollaro, in quanto è molto probabile che la Cina, i sauditi e Hong Kong abbandonino il peg tra il dollaro e la propria valuta locale: “Se l’ex segretario del Tesoro americano Larry Summers ha ragione e la Fed sarà costretta ad alzare i tassi più di quanto sia anticipato dal mercato in questo momento, perché gli altri paesi dovrebbero importare il ciclo di rialzi degli Stati Uniti sgonfiando i mercati immobiliari domestici, e arrancando dietro un prezzo delle materie prime galoppante? Il denaro non può compensare il rialzo dei prezzi delle materie prime in tempi di scarsità. Ma i paesi possono scegliere di rivalutare le loro valute, o ripensare ai loro peg monetari per massimizzare l’approvvigionamento delle materie prime che possono acquistare in un mondo di scarsità” (Zoltan Poznar, Global Head of Rates di Credit Suisse).
PEGGING VALUTARIO
Il pegging valutario si verifica quando un paese associa o aggancia il suo tasso di cambio a un’altra valuta, o a un paniere di valute, o ad un’altra misura di valore, come l’oro. Questo meccanismo viene talvolta definito tasso di cambio fisso. Un pegging valutario viene utilizzato principalmente per fornire stabilità a una valuta attribuendone il tasso fisso, grazie a un rapporto predeterminato, con una valuta diversa ma più stabile. La maggior parte delle valute sono ancorate al dollaro USA (USD).
Si può quindi facilmente immaginare un futuro non troppo lontano in cui le valute dei Paesi non allineati all’atlantismo si ancorino ad un paniere di commodities, ad esempio in base alle proprie esigenze di importazione (si veda la Side View Russian Roulette). Tuttavia, alcuni analisti attenti e specializzati sostengono che il dollaro non sia prossimo alla demise tanto auspicata da cinesi e russi. Nonostante quanto analizzato fino ad ora, aumentando il livello di indebitamento, aumenta la domanda di dollari globale in quanto il USD è la valuta di finanziamento principale a livello mondiale (es. ogni anno più di 800BN USD sono necessari solo per far fronte al pagamento di interessi su tutto il debito denominato in USD su scala globale). Inoltre, il Tesoro americano sta aumentando il deficit di bilancio rispetto ai livelli storici, nel momento in cui la FED si appresta a diminuire la quantità di USD in circolazione (si veda la Side View Silent Lucidity). Dopo anni, quindi, di monetizzazione del debito da parte di Stati e banche centrali, ci apprestiamo ad entrare in un periodo dove l’estensione di credito a livello globale sembra aver raggiunto il livello massimo e la competizione per l’approvvigionamento di dollari andrà ad intensificarsi. Brent Johnson, ad esempio, ex gestore presso Credit Suisse e BakerAvenue e alfiere della Teoria del Milkshake, sostiene che il dollaro potrebbe apprezzarsi fino ai livelli record di metà anni 80. Una cosa è certa, come Poznar di Credit Suisse, egli sostiene che siamo agli inizi di una crisi valutaria.
ATLANTISMO
L’atlantismo è la visione dello sforzo cooperativo tra l’Europa occidentale e le nazioni del Nord America (soprattutto gli Stati Uniti) in tema di economia, politica e difesa militare, con lo scopo di mantenere sicure le nazioni partecipanti a questo sforzo cooperativo e proteggere i valori che li accomunano quali libertà individuale, democrazia, economia di mercato e stato di diritto.
Negli ultimi 20 anni il concetto di atlantismo si è arricchito dell’idea che la diffusione e la promozione del sistema politico ed economico dei Paesi che fanno parte dell’alleanza dovrebbe portare ad una condizione di pace dovuta all’abbassarsi delle tensioni tra Paesi così accomunati dalla medesima visione.
Un ulteriore apprezzamento del dollaro da questi livelli pare un ragionamento sensato anche tenendo conto che, inseguendo l’obiettivo dell’indipendenza energetica da parte degli US e con il conseguente calo di importazioni di materie prime energetiche, vi saranno ancora meno dollari in circolazione. Inoltre, il 70% delle transazioni commerciali mondiali avviene in USD ogni anno. Quindi, che piaccia o no, nonostante la stampa forsennata di moneta negli anni da parte degli americani (a titolo di esempio, il 20% dei dollari circolanti oggi è stato creato nel 2020) stia svalutando la moneta in maniera mascherata alimentando l’inflazione, il dollaro si è continuato ad apprezzare negli anni. Questo perché il mercato dei dollari offshore, cioè il mercato dei dollari detenuti al di fuori dei confini domestici, è altrettanto enorme (circa 23 triliardi USD di passività). Paesi come Cile, Messico, Indonesia, Argentina, Arabia Saudita e Sud Africa hanno una percentuale consistente del proprio debito sovrano denominata in USD, come riportato nel grafico qui a fianco: il debito denominato in USD detenuto dai paesi emergenti è oltre che raddoppiato nel corso dell’ultima decade oltre gli 8 triliardi di USD; quello Cinese riportato è oltre che triplicato sopra i 2 triliardi di USD.
L’estensione di credito è assorbita fintanto che vi è crescita; tuttavia, quando assistiamo ad un restringimento della liquidità a livello mondiale, nonché ad un crunch del credito, questo sistema inizia a piegarsi su sé stesso, avvitandosi in una spirale o buco nero che attira i dollari presenti nelle tasche più remote del sistema. La Turchia, ad esempio, è affogata nel Milkshake nel corso degli ultimi due anni, vedendo la propria valuta svalutarsi di oltre il 100% rispetto al dollaro. Nel grafico qui di seguito è riportato il debito totale denominato in dollari detenuto da Ankara. Se in questo modo risulta stabile da oltre 5 anni e raddoppiato rispetto ai livelli del 2007, in valuta locale è oltre che decuplicato dal 2007 e quadruplicato rispetto al 2017 (grafico sotto).
Infine, vale la pena riportare le osservazioni di Jeff Snider di Alhambra Investments: il fatto che la Cina stia importando meno materie prime è un segno di debolezza (a causa di un rallentamento marcato dell’attività economica), piuttosto che il tentativo di affermare la propria valuta come nuovo standard di scambio per l’approvvigionamento di materie prime.
Se da una parte dunque è innegabile che gli Stati Uniti si stiano ritraendo dal ruolo di gendarme dell’ordine mondiale, dall’altra la guerra proxy combattuta dall’amministrazione Biden, così come le leve del potere ingranate a fondo nel commercio e nella finanza mondiale, fanno riflettere che un’uscita di scena probabilmente non avverrà senza i fuochi di artificio dell’atto finale.
Lugano, 15/05/2022