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| | Filantropia

Spectrum

(Immagine tratta da Via Stellite)

And when we first came here
We were cold and we were clear
With no colours in our skin
Until we let the spectrum in

Spectrum, Florence and the Machine
Cerimonials album, 2011


Negli ultimi anni il motto bigger, better, and faster ha contagiato anche l’ambito filantropico. Diverse metodologie e tecniche sono state copiate dal mercato anglosassone e incollate a quello italiano, suscitando enorme interesse soprattutto da parte di non profit di grosse dimensioni, sempre alla ricerca di pulsioni innovative. Nella Side View di questa settimana ne analizziamo due nello specifico: la venture philanthropy e l’impact investing. Quest’ultimo, negli USA, viene utilizzato per mobilitare risorse ad alto impatto per affrontare gli stessi problemi che la filantropia mira a risolvere. L’intenzione è quella di generare un impatto sociale e/o ambientale, insieme ad un rendimento finanziario. La maggiore quota di capitale di impact investing viene allocata in settori come servizi finanziari, energia, microfinanza, edilizia, agricoltura, infrastruttura e sanità. È un mercato in crescita: secondo il Global Impact Investing Network (GIIN), negli Stati Uniti nel 2022 sono stati investiti circa USD 39 mln, in aumento rispetto al 2017, quando erano stati investiti USD 32 mln. Giusto per fornire un termine di paragone, il comparto filantropico americano ha generato oltre USD 499 miliardi di
donazioni nel 2022.[1]

L’altro concetto adottato con sempre maggior decisione dal terzo settore italiano è quello della venture philanthropy. Per spiegarlo al meglio è utile immaginarsi uno spettro in cui su un estremo troviamo il concetto di investimento orientato al massimo profitto, e sull’altro la pura beneficenza (si veda grafico qui sotto, tratto da un articolo dello studio legale internazionale White & Case che ben coglie tutte le alternative di questo continuum[2]).

Nello spazio tra impact investing e filantropia è stato introdotto il concetto di venture philanthropy: un approccio che comprende sia attenzione agli aspetti finanziari che obiettivi di impatto sulla società. In pratica, la venture philanthropy guarda ad un orizzonte temporale di lungo periodo e può offrire forme di finanziamento a fondo perduto più flessibili. È caratterizzata da una certa dimensione di rischio, tipica delle nuove iniziative, e richiede la pazienza necessarie per finanziare modelli di business innovativi, con la possibilità di offrire anche un supporto operativo insieme al finanziamento stesso.

Anche se venture philanthropy e impact investing hanno alcune somiglianze, come abbiamo anticipato, rappresentano due situazioni distinte tra loro, come si può vedere anche dalla tabella sotto riportata[3]. L’impact investing riguarda gli investimenti in aziende a scopo di lucro che hanno una missione sociale o ambientale, con l’obiettivo di ottenere anche un ritorno finanziario. La venture philanthropy si concentra esclusivamente sulle organizzazioni non profit e non si aspetta necessariamente un ritorno finanziario. In questo caso, il successo degli investimenti viene calcolato in base all’impatto sociale che creano.

La venture philanthropy combina strategie imprenditoriali e investimenti finanziari con l’obiettivo di massimizzare l’impatto sociale delle donazioni. Piuttosto che limitarsi a donare in modo tradizionale (spesso reattivo e destrutturato), i venture philanthropists cercano di essere coinvolti attivamente nel processo, offrendo non solo denaro, ma anche competenze, consulenza strategica, mentoring, risorse e connessioni per sostenere le organizzazioni non profit nel raggiungimento dei loro obiettivi. Non sono dunque dei donatori passivi. In sintesi, mentre la venture philanthropy è più orientata verso l’apporto di risorse, supporto e competenze a organizzazioni non profit per massimizzare il loro impatto, l’impact investing si concentra sull’utilizzo degli investimenti ad aziende di specifici settori il cui scopo è generare un impatto sociale o ambientale positivo, oltre che un rendimento finanziario. Entrambi gli approcci hanno l’obiettivo comune di creare un cambiamento positivo nel mondo, ma differiscono nei mezzi con cui lo fanno e nei risultati che cercano di ottenere.

Cosa dicono i numeri: venture philanthropy

Secondo alcuni osservatori esperti, già nel 2015 la venture philanthropy occupava il quinto posto tra i trend di innovazione più promettenti a livello mondiale (45%), mentre per gli Stati Uniti era addirittura al secondo posto (53%).[4] Questo approccio ha guadagnato popolarità negli anni, poiché sempre più leader aziendali hanno concentrato la propria attenzione sull’essere socialmente responsabili. La combinazione del desiderio di cambiamento positivo e delle necessità finanziarie delle organizzazioni non profit, rende questo tipo di supporto vantaggioso per tutti gli attori coinvolti. La venture philanthropy segue lo stesso processo utilizzato dal venture capital per individuare le aziende da finanziare: la distinzione sta nel fatto che invece di investire in una promettente giovane azienda, un venture philanthropist investe in organizzazioni non profit. Nella venture philanthropy, l’investitore si focalizza sulla massimizzazione dell’aspetto sociale, aiutando le organizzazioni benefiche a crescere e a sfruttare al meglio i loro finanziamenti, basandosi sulla loro capacità di avere un impatto positivo sulla società. Questi finanziamenti possono assumere la forma di sovvenzioni o di fondi per l’avvio di nuove iniziative. Di solito, la venture philanthropy è praticata principalmente da grandi fondazioni benefiche o organizzazioni specializzate in questo campo. Un obiettivo importante di questo ambito di attività consiste nell’aiutare le organizzazioni non profit a diventare finanziariamente sostenibili nel lungo termine: questo può significare sviluppare modelli di finanziamento diversificati, aiutare le organizzazioni a diventare più efficienti ed efficaci nelle loro operazioni, e creare una base solida per il loro futuro. Per questo motivo pone un’enfasi significativa sulla misurazione dell’efficacia e dell’efficienza dell’organizzazione non profit: chi apporta risorse vuole vedere risultati tangibili e misurabili, avvalendosi di metriche specifiche per valutare l’impatto sociale delle azioni intraprese.

Negli USA è proprio nella Silicon Valley che c’è la più alta concentrazione di filantropi interessati a questo spazio. La Silicon Valley ha una lunga storia di successo nel garantirsi finanziamenti da parte di investitori e società di venture capital grazie alla concentrazione storica di start-up ad alta tecnologia e innovative. Anche per questo motivo, per la sensibilità culturale, tematica, geografica, gli imprenditori sono maggiormente propensi a contribuire con donazioni di fondi, tempo, risorse e competenze alle organizzazioni benefiche.

Spostiamoci lungo lo spettro: l’impact investing

Durante gli anni ’60 e ’80, negli Stati Uniti sono stati sviluppate tipologie di investimento finanziario che si collocano in una posizione intermedia all’interno del vasto spettro che va dalla filantropia alla finanza tradizionale. Questi investimenti potevano essere definiti “impact”, ovvero non considerano nell’universo investibile aziende con impatti sociali e/o ambientali negativi. Nel corso del tempo, le fondazioni e le organizzazioni filantropiche hanno iniziato a considerare la possibilità di effettuare investimenti che potessero produrre un impatto sociale più significativo e sostenibile. Per esempio, nel 1970 la Fondazione Ford ha implementato i primi “program-related investments” (PRIs), ovvero investimenti che, pur avendo l’obiettivo di restituire almeno il capitale investito, mirano a generare benefici sociali.

L’impact investing ha iniziato a guadagnare rilevanza come approccio negli ultimi vent’anni, un periodo in cui si sono verificati diversi eventi che hanno contribuito alla sua crescita. La Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) del 2000 ha svolto un ruolo chiave nel promuovere l’idea di investire per il benessere sociale e ambientale. I rapporti e le iniziative dell’UNCTAD hanno gettato le basi per la comprensione e la promozione dell’impact investing. Un passo significativo è stato il rapporto “Investing for Social & Environmental Impact” pubblicato nel 2007 dalla Fondazione Rockefeller. Questo documento ha definito i principi fondamentali dell’impact investing, fornendo una base teorica e pratica per l’applicazione dello strumento. Durante questo periodo, sono emerse diverse organizzazioni e reti dedicate a questo mondo. Ad esempio, l’ImpactAssets nel 2007 e l’Investors’ Circle, già attiva dal 1992 ma con un maggiore focus sull’impact investing negli anni 2000, hanno iniziato a fornire piattaforme e opportunità per gli investitori interessati. Organizzazioni come il Global Impact Investing Network (GIIN) hanno lavorato per stabilire principi e standard per il settore, rendendo più chiaro il percorso per gli investitori.

La crisi finanziaria globale del 2008 ha dato un ulteriore spinta: gli investitori e le istituzioni finanziarie hanno iniziato a considerare l’importanza di integrare fattori sociali e ambientali nelle loro decisioni di investimento, aprendo definitivamente la strada all’impact investing. La crisi ha rinvigorito tutti quegli investimenti che non erano focalizzati solo sulla ricerca di profitti e rendimenti finanziari, e tutte le imprese che operavano con una visione più ampia, considerando gli interessi di tutti gli stakeholders e non solo degli azionisti.
La partecipazione di fondazioni, istituzioni finanziarie e banche è stata cruciale per la crescita dell’impact investing: importanti organizzazioni come la Omidyar Network hanno contribuito a promuovere questo approccio come mezzo per raggiungere gli obiettivi sociali e ambientali. Infine, l’interesse crescente del pubblico per le questioni sociali, ambientali e di sostenibilità durante gli ultimi 15 anni ha creato un terreno fertile per l’accettazione e la crescita dell’impact investing come approccio agli investimenti.

Quanto appena illustrato si muove in netta contrapposizione rispetto alla teoria di Friedman degli anni Settanta, che sosteneva che il principale obiettivo delle imprese private fosse generare profitti e distribuirli agli azionisti; l’impact investing oggi ci parla di una finanza generativa che viene definita come “sostenibile” e “responsabile” (ne abbiamo parlato a lungo nella Side View “Per qualche dollaro in più”).

Teniamo a mente che questo strumento trova le proprie radici nelle esigenze manifestate in ambito finanziario, non in ambito non profit. L’evoluzione dell’impact investing è parte di un più ampio riesame dei modelli finanziari esistenti, con l’obiettivo di creare un sistema economico ambientalmente sostenibile.

Oggi, in Italia, alcune non profit che sono sempre esistite in forma di enti dipendenti dalle donazioni liberali sono riuscite ad adattare le proprie strutture al fine di dotarsi di strumenti, dipartimenti e personale che possa gestire degli investimenti e quindi riconsegnare un guadagno al donatore. Mentre questo privilegio spetta alle non profit che hanno dei modelli e delle strategie aziendali, la maggior parte di esse ancora lotta contro i giudizi del vasto pubblico, che le reputa poco trasparenti, poco efficienti o affidabili. Ancora lotta per ottenere finanziamenti tramite bandi che mettono a disposizione troppo poco e che talvolta sono più un ostacolo che un supporto. Ancora lotta contro l’ottica del “winner takes it all”, per cui nello stesso mercato di fatto competono le non profit che possono investire migliaia di euro in marketing e pubblicità, e quelle che, nonostante siano virtuose, sono tagliate fuori perché investono le poche risorse a disposizione direttamente sui progetti. La maggior parte di queste organizzazioni lotta contro una filosofia obsoleta che ruota intorno la cultura del dono e della filantropia, che affonda le radici in stereotipi che vedono i beneficiari fortemente dipendenti da relazioni inique di potere nei confronti dei donatori, e che vede una comunicazione umanitaria che ancora aggredisce il donatore alla pancia con immagini traumatiche per fare raccolta fondi, e non lo dota di strumenti per comprendere la complessa realtà nella quale è immerso.

L’impact investing parla alle imprese, parla agli investitori, liquida l’enorme mondo del non profit come “all the other stakeholders”.  Questo approccio mira in primis a rinnovare la reputazione delle istituzioni finanziarie e dell’intero sistema finanziario, e successivamente a rispondere alle esigenze della filantropia, delle nuove generazioni, compresi i millennials e la generazione Z. Si propone di affrontare le sfide attuali, come il cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione, l’emergere dei nuovi poveri e la crescente disparità nei redditi.

Troppo spesso gli investimenti ESG (environmental, social, governance) vengono tirati in ballo quando si parla di impact investing o, addirittura, di filantropia. In realtà, gli investimenti ESG sono dei tipi di investimenti sociali e quando si dice che la “S” di ESG si riferisce alle donazioni è vero, ma probabilmente ancor prima di donare ad un ente terzo, l’azienda tenderà ad applicare questa “S” al benessere dei propri dipendenti. Comunque, anche se viene materializzata in quanto donazione alla comunità, non riteniamo corretto collegarla al concetto di filantropia, poiché le basi filosofico-culturali che animano i due concetti sono essenzialmente diverse.


Sempre in Italia, notiamo che si è registrato un trend positivo relativo all’impact investing negli ultimi anni, superando quota EUR 35 milioni investiti in questo spazio nel 2022. In base all’analisi della Fondazione Giordano Dell’Amore, che lavora con la fondazione Cariplo dell’ambito dell’impact investing, il capitale disponibile per gli investimenti di questo tipo in Italia è passato dai 46 milioni nel 2017 ai 229 milioni nel 2022. Il numero di investimenti annui è passato da 9 nel 2017 a 49 nel 2022. Tale studio si focalizza su sette investitori italiani (Oltre Venture, Oltre III, Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore, SocialFare Seed, Sefea Impact, a|impact – Avanzi Etica e Opes Italia).

All’interno del portafoglio vediamo che i settori nei quali avvengono gli investimenti sono quelli relativi all’innovazione e la conservazione dell’arte, alla valorizzazione del patrimonio artistico, e poi alcuni sull’inclusione lavorativa e la formazione.

In conclusione

Possiamo dunque affermare che venture philanthropy e impact investing non siano degli strumenti perfettamente sovrapponibili e non ha senso dire se uno sia o meno meglio dell’altro: dipende fortemente dal contesto nel quale vengono implementati. Concordano sull’attenzione verso la misurazione dell’impatto, sull’efficacia rispetto al raggiungimento degli obiettivi sociali o ambientali.

In Italia c’è una forte cultura finanziaria tradizionale che spesso si concentra sulla stabilità e sulla sicurezza degli investimenti. L’idea di investire in progetti o iniziative sociali o ambientali, con rendimenti bassi e fondi pazienti, potrebbe non essere ampiamente accettata o compresa. La mentalità degli investitori tende a essere più rivolta al breve termine e sia impact investing che venture philanthropy tendono a richiedere un periodo più lungo per generare risultati. Un’altra barriera è rappresentata dalle normative e dalle leggi fiscali in Italia: la mancanza di incentivi fiscali specifici per gli investimenti socialmente responsabili potrebbe scoraggiare chi desidera avvicinarsi a questo mondo, e la complessità delle regolamentazioni può rendere difficile la comprensione del contesto sia per gli investitori che per le organizzazioni non profit che cercano di attrarre investimenti. C’è anche una problematica rappresentata dall’ecosistema in generale, che include reti di investitori, organizzazioni di supporto e servizi di consulenza specializzati, non ancora sviluppato in Italia.

Come in molti altri paesi, l’adozione di queste pratiche richiede un cambiamento culturale e un’evoluzione delle mentalità sia degli investitori che delle organizzazioni non profit. Questi processi richiedono tempo e sforzi costanti per sensibilizzare, educare e dimostrare i benefici. L’ecosistema italiano potrebbe non essere ancora sufficientemente maturo per supportare un ampio numero di progetti in questo senso. La dimensione del mercato potrebbe essere limitata e ci potrebbero essere meno opportunità rispetto a contesti più grandi come gli Stati Uniti o il Regno Unito. Inoltre, i progetti di impatto possono richiedere tempo per svilupparsi e maturare, e in un ambiente dove la ricerca di risultati immediati è prioritaria, questo potrebbe rappresentare una sfida.

C’è poi un tema ricorrente nei sostenitori dell’impact investing in Italia, ovvero la concezione filosofica del rischio: in ambito finanziario si può avere un appetito alto o basso per il rischio, ma l’unico a perdere quando le cose vanno male è l’investitore. In ambito non profit, chi perde veramente è il beneficiario. E non perde solo asset liquidi, perde in qualità della vita, in tempo (ne abbiamo parlato nella Side Views “Just an illusion”)

In conclusione, è opportuno seguire ogni step dello spettro di soluzioni di cui abbiamo parlato, cominciando a maneggiare la complessità del dono e della misurazione dell’impatto: forse il prossimo passo da compiere è iniziare a familiarizzare con la trust-based philanthropy, ma di questo parleremo nella prossima Side View.


Approfondimento a cura di Beatrice Marzi

Lugano, 24 marzo 2024


[1] Fonte: https://thegiin.org/

[2] Fonte: https://www.whitecase.com/insight-our-thinking/doing-well-doing-good

[3] Fonte: Abhishri Aggarwal, Kate Logan, Namrita Kapur, Bridging the gap: how philanthropy can unlock impact investing, Yale Center for Business and the Environment, 2020

[4] Kasia Moreno, The Top Five Most Promising Trends in Philanthropy, 2020: https://www.forbes.com/forbesinsights/2015_BNP_philanthropy_index/index.html;

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