Money
Money, Pink Floyd
It’s a crime
Share it fairly, but don’t take a slice of my pie
Money
So they say
Is the root of all evil today
Pulse album, 1973
“It’s liquidity that moves market” diceva il leggendario investitore Stan Druckenmiller.
Dopo i trascorsi in Salomon Brothers (una delle top 5 banche di investimento negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90) e in Baring Securities, Michael J. Howell ha fondato CrossBorder Capital nel 1996, una società di consulenza indipendente in materia di investimenti e di ricerca macroeconomica, specializzata nello studio dei flussi di liquidità globali. Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo per approfondire come le dinamiche monetarie abbiano influenzato non solo la finanza ma anche l’economia reale, scongiurando una recessione per molti data per certa e aiutando i mercati finanziari a tornare ai livelli massimi storici. Tutto ciò nonostante i proclami di politiche restrittive della FED, mai così aspre dagli anni di Volcker.
Michael, che cosa si intende per liquidità e quali fattori si possono utilizzare per misurarla e monitorarla?
Per liquidità intendiamo il “flusso di denaro attraverso i mercati finanziari mondiali”, e non quindi una misura unica come può esser l’offerta di moneta da parte delle banche centrali, come talvolta qualcuno è portato a pensare erroneamente. La base monetaria, ad esempio, è solitamente intesa come il denaro che si trova nei canali bancari commerciali tradizionali, mentre la liquidità è la quantità di denaro che riverbera nei mercati finanziari, in maniera diversa.
Si pensi alla liquidità come la fonte di finanziamento per gli investimenti, quali credito o azioni o altro. Pertanto, solo in un mondo in cui le attività sono finanziate esclusivamente dai depositi bancari, l’offerta di moneta e la liquidità si equivarrebbero; tuttavia non è così, poiché sia gli individui che le aziende (che le banche stesse) possono ottenere finanziamenti. Una banca, ad esempio, può finanziare le proprie erogazioni di credito dai depositi, ma anche dai mercati dei capitali, nonché appoggiandosi alla Federal Reserve.
Questo è il motivo per cui bisogna includere, oltre a ciò che fanno gli istituti di credito e le banche centrali, anche i fondi privati, le tesorerie delle aziende, i pronti contro termine, e i flussi netti dall’estero. Di fatto, la liquidità per come la intendiamo è una misura più completa e più adatta al mondo moderno: probabilmente, un altro modo di pensare a questo concetto è vederlo come il denaro che si trova nel settore finanziario e non nell’economia reale.
La curva dei rendimenti sui titoli obbligazionari del tesoro americano, i treasuries, è invertita da oltre due anni; tuttavia, questo indicatore tipicamente associato con l’arrivo di una recessione sembra aver fallito questa volta. Come mai?
Per rispondere a questa domanda, è importante sapere che il mercato dei mutui americani di fatto è sostenuto da garanzie governative, che li rendono asset così detti risk free e dunque appetibili ai bilanci delle banche centrali e dei governi (anche la FED li detiene sul proprio bilancio). Pertanto, questi titoli possono essere assimilabili ai treasuries, e storicamente il loro tasso di rendimento è vicino a quello delle obbligazioni del tesoro, ma talvolta si assiste ad una deviazione marcata, come in questo periodo storico ad esempio: in altre parole, il tasso di rendimento dei treasuries è più basso di quanto indicato dal mercato dei mutui federali, proprio per una sorta di “distorsione” effettuata da parte del Tesoro americano e volta a calmierare i tassi di interesse sotto quelli che sarebbero i livelli impliciti di mercato.
Proprio per il fatto che i due strumenti sono simili, siamo in grado di calcolare una proxi del tasso governativo americano a 10 anni. Come mostra il grafico sotto, le linee che rappresentano il rendimento dei titoli del tesoro a 10 anni e la proxi sopra menzionata, hanno sempre avuto un andamento pressoché simile, spesso sovrapponendosi l’una all’altra: dal 2005, si sono discostate solamente nel 2008, nel 2020 e negli ultimi due anni.
Cosa accumuna questi tre periodi dal punto di vista della politica fiscale attuata dal governo degli Stati Uniti? Per rispondere a questa domanda, il grafico sotto mostra come in tutti e tre le occasioni, il tesoro americano ha aumentato significativamente l’offerta di titoli di stato a breve scadenza (Treasury Bills – linea arancione) per aumentare la liquidità da immettere successivamente nell’economia reale e stimolare l’attività economica.
Come regola generale, il governo dovrebbe offrire ai propri creditori, fatto 100 la nuova emissione di debito, 80 di debito a lunga scadenza e 20 di debito a breve termine (i.e. T-Bills con scadenza inferiore all’anno). Nei casi menzionati in precedenza, si vede come la linea arancione cresca considerevolmente, evidenziando come il tesoro si indebiti a breve termine per rispondere allo shock economico.
Ogni qual volta che questa dinamica entra in gioco, i tassi governativi a lunga scadenza subiscono una distorsione, che porta il loro tasso ad un livello minore rispetto a quello delle garanzie governative. In altre parole, offrendo meno titoli del tesoro a lunga scadenza (preferendo quelli con scadenza minore di un anno), il governo crea uno sbilancio tra domanda e offerta che, a parità di domanda, porta il prezzo delle obbligazioni a salire (a causa della minor offerta) e il tasso a diminuire. Questo il motivo per cui si crea la divergenza che abbiamo visto nel primo grafico.
Utilizzando perciò i tassi sulle garanzie governative al posto del tasso sul decennale americano siamo in grado di eliminare questa distorsione, e arrivare alla conclusione che l’inversione della curva dei rendimenti non sia un indicatore attendibile per cercare di anticipare una recessione in futuro. Come mostra il grafico sotto, la curva dei rendimenti “aggiustata” utilizzando i tassi sulle garanzie governative (linea nera) non si è mai invertita (scesa al di sotto dello 0 nel grafico) negli ultimi 2 anni a differenza di quella “attuale” (linea arancione).
La domanda che sorge a questo punto è, come è stato possibile schivare la recessione nonostante il ciclo di restringimento monetario attuato ad inizio 2022 dalla Federal Reserve?
La vera domanda è: “la Federal Reserve ha veramente inasprito le condizioni finanziarie?”. I funzionari della banca centrale ovviamente risponderanno di sì, facendo presente che il bilancio della FED è in continua discesa da inizio 2022 quando ha toccato il punto più alto a USD 9 trilioni (linea rossa del grafico sotto). Tuttavia, se consideriamo gli elementi del bilancio della banca centrale responsabili della creazione di liquidità (ndr. tra cui la Reverse Repo Facility e il Treasury General Account di cui abbiamo parlato nella Side View “Only game in town”) rappresentati dalla linea arancione, quest’ultimi hanno apportato una contribuzione positiva, compensando di fatto nel 2023 il QT della FED (linea rossa). Interessante notare come ci siano stati due eventi negli ultimi due anni che hanno segnato un’inversione della tendenza: i) il crollo del mercato dei Gilt inglesi (settembre 2022) e ii) la crisi delle banche regionali americane (marzo 2023). Quindi, dal grafico sotto sembrerebbe emergere che il principale mandato della Federal Reserve sia quello di mantenere la stabilità del sistema piuttosto che contenere l’inflazione al di sotto del 2% e mirare alla piena occupazione.
In una recente intervista ha menzionato il rischio di “giapponesizzazione” del mercato delle obbligazioni governative americane. Cosa intende?
Per rispondere a questa domanda partirei analizzando la storia del debito americano. La tabella mostra, partendo da sinistra, il deficit primario (in % del PIL), la spesa governativa per interessi sul debito (in % del PIL), il debito su PIL e la crescita del debito.
Quello che evidenziano i dati è che gli Stati Uniti sono passati da una situazione in cui, fino all’anno 2000, il deficit primario era sotto controllo, a livelli di deficit elevati a partire dal 2010. Guardando al futuro, secondo le previsioni di organizzazioni come il Congressional Budget Office e il Fondo Monetario Internazionale, il trend rialzista è destinato a proseguire a causa di fattori tra i quali (i) l’invecchiamento della popolazione, la (ii) de-globalizzazione e la (iii) transizione energetica, che richiederanno nuovi investimenti da qui ai prossimi anni. Un ulteriore problema è rappresentato dalla seconda colonna, ovvero il peso degli interessi passivi sul PIL che sono destinati ad aumentare di pari passo alla crescita del debito. Negli anni ’80, i tassi di interessi erano al 15%, ma il rapporto tra spesa per interessi e PIL era ben inferiore rispetto a quanto ci si aspetta entro il 2050 perché il debito/PIL era il 25% e non il 227%. Ecco che si crea quindi una situazione insostenibile, in cui l’unico modo per “coprire” gli effetti negativi derivanti da questo circolo vizioso è che la Federal Reserve “monetizzi” il debito.
Questo è il motivo per cui l’oro e le crypto sembrano esser degli investimenti molto sensati in questa fase storica. E le ragioni per cui sono particolarmente attraenti sono evidenziate nel grafico sotto: la liquidità globale, in nero, e la capitalizzazione di mercato di crypto e oro, in arancione, si muovono insieme.
Con i governi che continueranno a creare inflazione monetaria tramite la stampa di denaro e la monetizzazione del debito legata a deficit e manovre fiscali monstre, oro e crypto possono svolgere un ruolo protettivo nei confronti dell’inflazione della base monetaria. Si guardi all’oro: se tipicamente sono le aspettative sui tassi reali a guidare l’andamento del metallo prezioso, questo legame si è interrotto di recente, perché nonostante la risalita dei tassi reali, anche l’oro è salito, guidato dalle preoccupazioni degli investitori nei confronti dell’inflazione monetaria. Nel breve termine, c’è ragione di attendersi che il ciclo espansivo di liquidità possa continuare fino a fine 2025. Il motivo per cui ci si può attendere che finisca è dovuto al fatto che se i governi tengono i tassi artificialmente bassi, i risparmiatori non sono portati ad allocare i propri risparmi in titoli del tesoro, innescando una risalita dei tassi che potrebbe causare una profonda recessione; questo incremento, a sua volta, potrebbe forzare attirare nuovamente i capitali degli investitori verso i titoli del tesoro (a discapito degli asset più rischiosi), resi più interessanti da tassi ben più alti di quelli attuali, soprattutto rispetto all’inflazione. Ma sullo sfondo resta questa svalutazione a lungo termine del debito pubblico, che è l’unico modo attraverso cui i governi possono permettersi questi enormi impegni di spesa.
Approfondimento a cura di Nicola Lampis e Mattia Segre
Lugano, 26 maggio 2024